da T. Pica | Apr 14, 2017
Moglie e marito, l’opera prima di Simone Godano prodotta da Matteo Rovere e Roberto Sessa, si ispira al tema dello scambio di identità, da sempre caro ai registi e agli sceneggiatori statunitensi in qualche modo ripreso negli anni ’80 anche da qualche pellicola nostrana. Questa volta lo scambio “io divento te e tu diventi me” coinvolge marito e moglie, ovvero lo stereotipo della coppia quarantenne con due figli alle prese con i primi bilanci (esistenziali e professionali), le frenesie della quotidiana routine, la carriera, i figli. La coppia che si lascia ormai sempre più frequentemente destabilizzare dalle fisiologiche incomprensioni, vedendole come insormontabili e optando per la soluzione più rapida e apparentemente ideale: la separazione e il divorzio ormai resi dal legislatore “brevi”. La coppia in questione, Sofia (Kasia Smutniak) e Andrea (Pierfrancesco Favino) – lei giornalista che sta approdando al suo debutto televisivo, lui neurologo afflitto dalla precarietà della conferma del contratto e dagli anni spesi dietro un costoso progetto di ricerca ancora non definito -, è a un passo dal precipizio della parola fine quando viene messa in stand-by proprio dallo scambio di identità realizzato dal cortocircuito di Charlie, il marchingegno creato dalla ricerca sperimentale di Andrea e del suo collega, e migliore amico, Michele (l’ottimo Valerio Aprea). Tra una serie di paradossi, gags e figuracce i due protagonisti finiranno per comprendere meglio l’uno i bisogni, le esigenze, le sofferenze e le aspirazioni dell’atra e a divenire davvero complementari? Sarà sufficiente questa osmosi di memoria e menti finte l’uno nel corpo, nei vestiti e nei lavori dell’altra per recuperare il rapporto e riunire la famiglia? In ogni caso, probabilmente, la chiave di lettura vincente suggerita dal film è quella della scena finale quando il figlio maggiore cerca la madre gridando Mamma: un naturale e complice abbattimento delle differenze di genere nella coppia. Il film è una commedia che vuole, con il sorriso, puntare l’attenzione sul quello che negli ultimi anni è tra i temi prediletti del cinema italiano (Ex, Maschi contro femmine, Perfetti sconosciuti, solo per citarne alcuni): le famiglie e le coppie di trentenni e quarantenni sempre più disorientate, fragili e inclini alla resa. Favino e Smutniak sono bravi nell’interpretare, rispettivamente, una donna e un uomo evidenziandone i tratti che li rendono da sempre due universi spesso lontani anni luce (ovviamente la Kasia Smutniak androgina in gessato, gilè e cravatta ha dalla sua parte una maggiore facilità fisica a vestire e muovere le gesta tipicamente maschili, rispetto al “barbuto” Favino con le gentili movenze femminili). Valerio Aprea, conferma la sua bravura e da spessore e sostegno all’intera pellicola seppure come attore non protagonista, conferendo al film note davvero esilaranti.
Nei primi trenta/quaranta minuti la regia e la sceneggiatura appaiono un po’ disorganiche, dispersive, ma poi si riprendono e il film trova il giusto ritmo.
data di pubblicazione:14/04/2017
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da T. Pica | Apr 2, 2017
(Atlantico Live – Roma, 1 aprile 2017)
Brunori sas ha espugnato l’Atlantico Live della città eterna! E già, finalmente il 1 aprile si è svolta la tappa romana che, insieme a tutte le altre tappe del Tour A casa tutto bene, è stata sold out. Dario Brunori è una ventata di fresca e vigorosa autenticità, un talento nel panorama cantautoriale italiano.
Dopo la laurea in economia – che talvolta si può scorgere in qualche strofa dei suoi testi, come in Come stai tratto dall’album di esordio del 2009 – il cantautore della Sila ha fin da subito dato prova delle sue doti: voce (energica, espressiva e decisa), virtuosista della chitarra acustica e poeta, visto che i testi delle sue canzoni sono quasi sempre piccole poesie moderne che, tra versi ironici, taglienti, sfacciati e romantici su melodie rock oppure più ballabili e lente, racconta l’amore, le difficoltà e i disagi della generazione dei quarantenni e dei trentenni di oggi e fa anche denuncia sociale (si pensi al brano Colpo di pistola che racconta gli ormai dilaganti episodi di femminicidio, o a Don Abbondio e L’uomo nero, tutti sono una delle “stanze” dell’ultimo album A casa tutto bene). Dopo gli ottimi lavori degli album che si sono succeduti dal 2009 in poi – regalando importanti riconoscimenti come il Premio Ciampi e la Targa Tenco – Brunori ha finalmente raggiunto trasversalmente un pubblico più vasto ed eterogeneo con il singolo La verità che ha “aperto” la sua Casa a tutta l’Italia raccontata nell’ultimo album e che ieri sera ha aperto il live movimentando subito le migliaia di estimatori, adulti e adolescenti, accorsi per vivere, non solo ascoltare, la sua ottima musica.
Dario Brunori è un promettente mattatore: canta, suona e tiene la scena anche improvvisando degli appassionati assoli fisici con la sua chitarra che suona e contemporaneamente tiene stressa a sé come una bella donna, in una sorta di amabile ballo a metà tra il valzer e il tango. Inoltre ha uno spiccato senso ironico con cui ha concesso dei siparietti davvero divertenti regalati al pubblico con il quale non può non intrattenersi in qualche chiacchierata, come in una “scialata” serata tra amici, pubblico al quale insieme alla sua ottima band ha dimostrato di essere profondamente grato. Il concerto ha regalato in quasi due ore di performance i brani dell’ultimo lavoro – tra cui le bellissime Sabato bestiale, Secondo me, Il costume da torero, Lamezia Milano, Canzone contro la paura -, nonché alcuni dei brani storici dell’artista come Guardia ’82, Come stai (dedicata al suo papà), Lei, lui e Firenze (ricca di citazioni che evocano il profondo amore di Dario Brunori per l’arte e il cinema italiano), Rosa (tra i brani più belli del suo repertorio), Pornoromanzo, Una domenica notte, Fra milioni di stelle e l’emozionante Kurt Cobain. Un concerto giovane e maturo, dove ci siamo tutti scialati – per dirla come dice il cantautore mattatore – e che infonde un generale ottimismo vista la copiosa presenza di giovani sotto i 25 anni, anche adolescenti, che si sono appassionati ad una musica bella, rock e talentuosa, fatta di contenuti veri e impegnati con la giusta dose di leggerezza, avulsa dai talent e dai “contenitori” patinati e vuoti.
data di pubblicazione: 2/o4/2017
da T. Pica | Apr 1, 2017
Sarò franca. Posso dire di non conoscere pressoché nulla sulla storia americana della Nasa, dei primi razzi e dei primi uomini spediti nello spazio e al contempo non sono un’estimatrice del mondo fatto di informatica e, soprattutto, di numeri e calcoli, anzi li rifuggo anche al cinema. Invece, Il diritto di contare (Hidden Figures) di Theodore Melfi è stata una bella sorpresa, un piccolo capolavoro che sa unire sentimenti, freddi calcoli e narrazione storica in modo sublime.
Il film, tratto da fatti realmente accaduti, racconta le storie di tre donne di colore, Katherine Johnson (Taraji P. Henson), Dorothy Vaughn (Octavia Spencer) e Mary Jackson (Janelle Monáe), che nella Virginia segregazionista degli anni ’60 contribuirono nel loro piccolo a smuovere le barriere di vita quotidiana tra bianchi e neri attraverso le rispettive diverse carriere all’interno degli uffici della NASA. Katherine è stata una bambina prodigio, la prima donna afroamericana a superare le barriere segregazioniste della scuola di specializzazione West Virginia University in Morgantown (Virginia Occidentale) nonché uno dei tre studenti afroamericani, di cui l’unica donna, selezionati per integrare la scuola di specializzazione dopo la sentenza della Corte Suprema del Missouri ex rel. Gaines v Canada. Grazie alla sua naturale propensione ad una matematica che sa vedere e andare oltre i numeri diventerà un membro imprescindibile per il team di Al Harrison (Kevin Costner) che in imbarazzante affanno è stato surclassato dai Russi nella missione dell’uomo nello spazio.
Anche Doroty, esperta di calcoli matematici svolge di fatto il ruolo di responsabile del personale di colore della sezione calcoli, ma non ha diritto ad avere la qualifica ufficiale di responsabile e il relativo stipendio adeguato; tuttavia, grazie alla sua affidabile diligenza e curiosità sbloccherà l’impasse dei colleghi “bianchi” in panne davanti al primo calcolatore IBM – riuscendo a metterlo in accensione per la prima volta e a rendendolo finalmente operativo per la missione (anche se poi il freddo calcolatore automatico nulla potrà senza i calcoli eseguiti a mano da Katherine) – e le sarà riconosciuto il ruolo che merita. Mary, invece, vincerà una causa civile che le permetterà di frequentare un liceo aperto solo ai bianchi per conseguire la seconda laurea in ingegneria ed essere la prima donna afroamericana ingegnere della NASA.
In questi traguardi fondamentali si realizza una collettiva integrazione, iniziano a cadere alcune barriere, tra cui l’abbattimento del cartello “Coloured room” dei bagni dei neri – che si trovano a un kilometro e mezzo dall’ufficio di Katherine – eseguito da Harrison (interpretato da un sempre un Kevin Costner sempre impeccabile nel ruolo di personaggio duro, orso ma incredibilmente protettivo) per ribadire che il traguardo si dovrà raggiungere tutti insieme senza discriminazioni e barriere fra bianchi e neri. Amore, amicizia, collaborazione e rispetto raggiungono almeno in questo spaccato della Virginia e nella NASA un primo importante risultato, con fatica e passione. Il film è davvero ben narrato, a tratti tocca lo spettatore commuovendolo per la semplicità e la forza dei sentimenti autentici dei personaggi, tra cui l’ottima interpretazione di Taraji P. Henson.
Un cast eccellente, una buona sceneggiatura costruita anche con una delicata e sapiente ironia e davvero belli i costumi femminili che spiccano per un’eleganza e una femminilità semplici e di classe. L’ironia e la bellezza emotiva ed espressiva del cast insieme all’ottima colonna di Hans Zimmer e ai richiami delle note di Miles Davis, rendono i 120 minuti de Il diritto di contare un piccolo capolavoro, ben ritmato, da vedere per capire come la meritocrazia e la lotta per i diritti portino, laddove autentici e avulsi dall’individualismo, a realizzare piccoli e grandi sogni e a unire un popolo intero.
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data di pubblicazione: 01/04/2017
da T. Pica | Mar 28, 2017
(Premi David di Donatello: 27 marzo 2017)
La serata di premiazione dei David di Donatello 2017 si è svolta all’insegna dell’eleganza e forse mai come quest’anno l’Auditorium degli Studios di Roma si è presentato così gremito e glamour.
La cerimonia, trasmessa in diretta su Sky e su Canale 8, si apre con lo spassoso cortometraggio Io e David che racconta, attraverso gli ironici consigli di un irresistibile Valerio Mastrandrea, i segreti che attori, registi, fonici, montatori, direttori della fotografia e sceneggiatori dovrebbero seguire per essere sicuri di vincere un David di Donatello. Segue l’inizio ufficiale della premiazione anche quest’anno condotta da Alessandro Cattelan che, nonostante la sua intensa ascesa come conduttore radiofonico e di talent show (dove i ritmi son decisamente diversi), non convince e penalizza la serata per la sua conduzione frettolosa con la sua parlata speedy a macchinetta (fatta di parole mangiate e battute talvolta forzate che creano un “vuoto” in sala), un mancato padrone di casa che sembra quasi passare di lì per sbaglio e salta i saluti agli ospiti d’onore in prima fila, tra cui il Presidente dell’Accademia Giuliano Montaldo. Venendo ai vincitori, i David 2017 sono stati pressoché “spartiti” da tre film che l’hanno fatta da padrone, ovvero Indivisibili, Veloce come il vento e La pazza gioia.
Il film di Edoardo De Angelis Indivisibili si è infatti aggiudicato i David 2017 per “Migliore sceneggiatura originale”, “Miglior Produttore, “Migliore attrice non protagonista” ad Antonia Truppo (già vincitrice del David 2016 “Migliore attrice non protagonista” con il film Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti), “Miglior Musicista” e “Migliore canzone originale” ad Enzo Avitabile e “Migliore costumista”.
Veloce come il vento di Matteo Rovere, invece, porta a casa il David di Donatello per “Migliore attore protagonista” a Stefano Accorsi, “Migliore autore della fotografia” a Michele D’Attanasio, “Migliore truccatore”, “Migliore montatore”, “Migliore suono in presa diretta” e “Migliori effetti digitali”.
La pazza gioia di Paolo Virzì, invece, si aggiudica i David per “Migliore acconciatore”, “Migliore scenografo”, “Migliore regia” a Paolo Virzì, “Migliore attrice protagonista” a Valeria Bruni Tedeschi – la quale ha preteso accanto a sé sul palco la “rivale” in nomination Micaela Ramazzotti e ha deliziato la platea con un discorso di ringraziamenti strambo e a tratti esilarante – e, dulci sin fundo, il David più ambito come “Migliore film”.
Hanno calcato il palco della premiazione anche La ragazza del mondo per il David come “Migliore regia esordiente”, Fai bei sogni vincitore del premio come “Migliore sceneggiatura adattata”, Fiore con Valerio Mastrandrea vincitore del David per “Migliore attore non protagonista”, mentre In guerra per amore vince il “David Giovani”.
Animali notturni di Tom Ford vince il David come “Migliore film straniero”, mentre a Io, Daniel Blake di Ken Loach va la statuetta come “Migliore film dell’Unione europea”.
Crazy for football di Volfango De Biasi si aggiudica il David per “Migliore documentario” e A casa mia di Mario Piredda quello per “Migliore cortometraggio”.
Durante la cerimonia il Presidente Giuliano Montaldo ha consegnato il David alla carriera a Roberto Benigni il quale ha dedicato il premio a Nicoletta Braschi lasciandosi poi andare a un discorso fiume trito e ritrito. A metà serata Manuel Agnelli voce e chitarra accompagnato dalle note di un violino ha cantato la poetica “Across the universe” di John Lennon e Paul McCartney mentre alle sue spalle scorrevano i volti di esponenti del mondo del cinema scomparsi.
L’edizione 2017 dei David di Donatello ci conferma che il cinema italiano è vivo e che le storie originali, difficili di registi, sceneggiatori e produttori che si mettono in gioco rischiando alla fine arrivano al pubblico con ottimi risultati, come è stato per Indivisibili; che una troupe italiana può realizzare un ottimo film con effetti speciali e azione in presa diretta che sa raccontare storie vere e sentimenti, come ha fatto Matteo Rovere in Veloce come il Vento e che finalmente la poesia geniale di Paolo Virzì de La Pazza Gioia ha messo tutti d’accordo!
Adesso non ci resta che continuare a sostenere al cinema le pellicole italiane di Maestri ed esordienti per tifare per i nostri film preferiti ai David di Donatello 2018!
data di pubblicazione 28/03/2017
da T. Pica | Mar 11, 2017
(Teatro Quirino – Roma, 7 marzo 2017/19 marzo 2017)
Un sottoscala (staircase) umido, dove quasi non arriva il sole, dove la bombola del gas funziona male: è questo l’angolo di mondo in cui da circa 30 anni Harry (Tullio Solenghi) e Charlie (Massimo Dapporto) vivono la loro storia d’amore, è questo l’angolo di cielo in cui due uomini sono costretti ad amarsi, sostenersi, confrontarsi, battibeccare, coccolarsi da 30 anni solo perché uniti da un amore omosessuale?! Il tutto, ovviamente, dietro la maschera del negozio di barbiere.
Tratto dal romanzo Staircase di Charles Dyer, e riadattato per il teatro da Massimo Dapporto, Quei due racconta con incredibile delicatezza, ironia e leggerezza un tema importante come quello della discriminazione e della persecuzione giudiziale che negli anni ’60 in città “evolute” come Londra subita dalle persone omosessuali e del susseguente proliferare di suicidi di coloro che, solo perché diversi, venivano additati, scherniti e costretti a vivere in un perenne stato di vergogna, umiliazione e stress emotivo. Harry e Charlie sono complementari l’uno all’altro, ognuno sa quali corde toccare in un costante “pin pong” di stilettate, complimenti adulatori, rievocazione di scenette spassose del loro primo incontro, degli spettacoli della “carriera” di attore di Charlie.
I dialoghi, i bisticci, le porte sbattute civettuolamente, le critiche sulla decadenza del fisico di Harry – tra i due il più effeminato e sensibile, apparentemente il più debole della coppia – sono l’unico modo che hanno per amarsi nell’unico posto in cui sono liberi di palesarsi per quello che sono, ovvero il sottoscala/barbershop.
La storia si concentra sulla domenica e la notte che precede l’arrivo a Londra della figlia di Charlie (Margaret), avuta 32 anni prima, che per la prima volta conoscerà suo padre. Accanto all’ansia per questo incontro, che Charlie vorrebbe si svolgesse senza la presenza di Harry per celarle la sua omosessualità, si somma l’angoscia dell’ex attore per la notifica di una convocazione a comparire in tribunale con l’accusa di atti osceni. Charlie è stato colto da alcuni poliziotti in un club privato mentre con abiti femminili imitava uno dei suoi maggiori successi, l’imitazione di Marilyn Monroe che suona l’ukulele nel film A qualcuno piace caldo, seduto sulle ginocchia di un giovanotto. Charlie, per la legge inglese dell’epoca, rischia di essere nuovamente condannato a due anni di reclusione. Dal turbamento per questo accavallarsi di pensieri Charlie si sfoga e si vendica per nascondere il suo senso di colpa verso Harry, che da 30 anni lo mantiene a casa con sua madre e gli ha insegnato il mestiere di parrucchiere, punzecchiandolo per il suo essere in sovrappeso – le maniglie dell’amore come “corrimano dell’amore” – e per la sua repentina calvizie che fa soffrire enormemente il suo compagno (che la nasconde con un turbante di bende stile mummia egiziana; sulla calvizie di Harry e le sue insicurezze si sviluppa uno dei dialoghi più spassosi e esilaranti dello spettacolo). All’alba del lunedì, prima di andare a conoscere Margaret alla stazione, Charlie, dopo una serie di rivelazioni sul suo passato e il terrore di perdere Harry, riuscirà finalmente a dirgli la difficile frase “ti amo” e di prepararsi ad accoglierlo insieme a Margaret per le presentazioni ufficiali.
Quei due è uno spettacolo ben strutturato dove i due mattatori, Dapporto e Solenghi, innescano un meccanismo ad orologeria perfetto, impeccabile che coinvolge e sa raccontare con una leggerezza profonda uno spaccato di storia e di vita antropologicamente e socialmente nemmeno troppo lontano da noi e anzi estremamente attuale. Fa riflettere e sorridere Harry quando immagina un mondo in cui lui e Charlie avrebbero potuto avere un figlio tutto loro – immaginandolo come un qualcosa di bellissimo, naturale ma utopistico -, alla luce delle sentenze dei tribunali di Trento e Firenze che, nei giorni scorsi, hanno riconosciuto l’adottabilità di un minore da parte di coppie di uomini omosessuali.
Insomma, uno spettacolo da non perdere!
data di pubblicazione: 11/03/2017
Il nostro voto:
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