I FIGLI DELLA NOTTE di Andrea De Sica, 2017

I FIGLI DELLA NOTTE di Andrea De Sica, 2017

Sul finire di una primavera dalle temperature decisamente estive arriva sul grande schermo il film I figli della notte opera prima di Andrea De Sica che ci porta in un luogo lontano e isolato sulle montagne innevate del Belgio.

Giulio (Vincenzo Crea) adolescente della (presumiamo) Roma bene un pò scapestrato viene costretto dalla madre – impegnatissima top manager dell’azienda di famiglia che è spesso lontana da casa, anche per trasferte lavorative all’estero come l’impegnativo viaggio di lavoro in Turchia – a frequentare un prestigioso collegio sulle Alpi, dedicato ai giovani rampolli delle famiglie borghesi italiane che hanno avuto qualche problemino nella scuola pubblica o nel contesto sociale in cui vivono. Il collegio si presenta come l’eccellenza didattica nel campo della formazione dei futuri esponenti della classe dirigente, ma in realtà è una sorta di riformatorio che dietro le lunghe sessioni di studio e di lezioni di scienze delle finanze, di micro e macro economia, adotta metodi “educativi” al confine con l’illecito, in completo spregio della privacy, per riportare sulla “presunta” retta via gli adolescenti più o meno problematici.

Se in un primo momento Giulio, brillante studente, soffre l’ambiente glaciale dell’istituto e la lontananza forzata dall’amata madre – che non lo raggiungerà nemmeno per le vacanze di Natale -, grazie al nuovo compagno di studi Edoardo (Ludovico Succio), che fin da subito aveva attirato la sua attenzione, riesce a convivere con i “demoni” della struttura scolastica. Proprio grazie alle ore trascorse con Edoardo Giulio comprenderà che i professori, come Mathias (Fabrizio Rongione) – anche lui ex alunno del collegio – spiano tutti i loro movimenti, anche durante la notte, quando questi ragazzi si affidano all’ombra e alla presunta assenza di sorveglianza per vivere e lasciarsi andare senza freni inibitori, in completa rottura con i rigidi insegnamenti, consigli e ritmi imposti di giorno dai loro insegnanti. Ed è durante la notte che Giulio ed Edoardo si imbattono in un locale, una discoteca-bordello (frequentato anche da alcuni professori), e iniziano a conoscersi meglio e, sempre durante queste notti, Giulio si innamora di una delle prostitute della casa a luci rosse, Elena (Yuliia Sobol).

Ha così inizio un turbine di emozioni che mettono a dura prova l’equilibrio di Giulio compresso fra l’amicizia con il migliore amico Edoardo, l’attrazione per Elena e il giudizio severo del prof. Mathias e quello della lontana madre. Da questo vortice complesso si susseguiranno una serie di eventi molto duri, tra cui il suicidio di Edoardo, che alla fine trasformeranno Giulio in quel prototipo freddo, spietato e senza scrupoli di coscienza che un giorno sarà a capo della classe dirigente del futuro. Dunque, in spregio delle “vittime”, delle trasgressioni e del prezzo pagato, il percorso formativo sembrerebbe aver raggiunto un risultato finale eccellente, ma sarà davvero così? Il film di Andrea De Sica colpisce per la bravura degli attori, tutti giovanissimi – tra loro l’interprete del protagonista Giulio, Vincenzo Crea, impressiona per il volto così somigliante ai De Sica, mentre decisamente perfetta seppur per un ruolo minore è l’interpretazione dello studente napoletano Paolo (Luigi Bignone) che farà un’uscita di scena strepitosa e surreale – e per una regia matura, dura che tiene fino all’ultimo in tensione lo spettatore, nonostante nella parte centrale e durante la seconda parte del film ci siano almeno tre momenti di smarrimento.

Il finale riesce a riassestare questi momenti chiudendo il cerchio della trama. I figli della notte non sembra un film propriamente italiano e ha un respiro internazionale. Peccato per qualche sbavatura e alcune lungaggini/esitazioni eccessive nella seconda parte, specialmente quelle sul rapporto tra Giulio e Elena, che rischiano di compromettere l’efficacia del film che comunque alla fine c’è e arriva al pubblico.

Un buon esordio dunque per il giovane De Sica, nipote del mitico Vittorio!

Data di pubblicazione: 03/06/2017


Scopri con un click il nostro voto:

SONG TO SONG di Terrence Malick, 2017

SONG TO SONG di Terrence Malick, 2017

Prendete un giovane produttore discografico milionario, Cook (Michael Fassbender), un suo amico fraterno musicista in erba ingenuo e sognatore, BV (Ryan Gosling) e una giovane ragazza bella prigioniera delle passioni e della disperata ricerca di successo, libertà e amore, come Faye (Rooney Mara), anch’essa aspirante artista/musicista, e il triangolo della storia di amore, passione e amicizia a tinte rock sembrerebbe essere pronto. Il tema dell’effimero, della vacuità e della vanità, della crisi di valori in cui credere, della crisi di talenti e della fragilità che caratterizza il mondo che ruota intorno alla musica e all’arte in generale – in parte evocativo del patinato mondo effimero e superficiale della protagonista di Animali Notturni di Tom Ford – sono narrati dal regista Terrence Malick coerentemente con il suo stile, ovvero in modo frammentario, confuso, lentissimo. La storia, il triangolo amoroso, i sentimenti, la passione, la musica sono quasi del tutto assenti o inesistenti e lasciano la scena a ripetitivi primi piani e a una regia incentrata su una sapiente fotografia concentrata su paesaggi urbani e naturalistici, che però non va oltre l’estetica. Ricorrono durante l’intera pellicola elementi naturali quali l’acqua – onnipresente nelle pozzanghere lunari, nel fiume della città texana e nelle piscine avveniristiche delle ville moderne e sofisticate in cui si inseguono gli incontri lenti dei personaggi -, il verde degli alberi, delle piante e dei giardini, gli uccelli che tagliano i cieli che sovrastano le angosce dei protagonisti. In contrasto con questi elementi, simbolo di vitalità, purezza e libertà, si staglia il senso di oppressione e prigionia degli ambienti chiusi delle camere d’albergo, dei monolocali o delle ville contemporanee che altro non sono che lo specchio dell’egoismo calcolatore, della diffidenza, della superficialità, della paura di amare e di soffrire (o dell’irrefrenabile desiderio si sofferenza masochista), degli atteggiamenti e delle movenze artefatte, pseudo sofisticate di Fave e degli aspiranti artisti o artistoidi che circondano lei e il mondo vacuo in cui si è ostinatamente voluta incatenare. Il sesso, la passione che consuma i protagonisti in realtà è solo accennato: appare finto, è rappresentato come una sorta di pratica a tratti angosciante, a tratti coreografica o rigida come un’istallazione esposta in vetrina, viene accennato con stanchezza, senza trasporto, è imbalsamato. L’amore, il sesso sembrano prigionieri degli abiti glamour, eleganti e spesso aderentissimi dei protagonisti. La narrazione, come anticipato, è estremamente lenta e dispersiva, non esiste un vero copione recitato dagli attori, non ci sono dialoghi bensì voci narranti dei singoli personaggi che entrano fuori campo mentre scorrono le immagini di volti, di elementi di arredo o paesaggi. Il film tenta di far parlare volti e gesti fisici affettati, rigidi di personaggi finti e si perde come una grande allegoria delle pagine delle riviste di architettura o di arredamento. La musica, pur ispirando il titolo del film, non emerge in alcun modo, non lascia spazio alle doti canore e musicali di Rayan Gosling. La musica si intravede nei flash su prati gremiti durante i concerti (di Iggy Pop, Red Hot Chilly Peppers) e solo attraverso il cameo di Patty Smith che interpreta se stessa. Lo spettatore è esasperato dalle lente domande o dalle affermazioni, talvolta ripetitive, banali e inutili, pronunciate dai volti, a tratti inespressivi, dei tre protagonisti che sembrano trascorrere le proprie giornate unicamente giocando a sfiorarsi, rincorrendosi per stanze o giardini, muovendo le mani e gli occhi come se fossero su un set fotografico, assumendo continue pose plastiche che poi trascinano lungo pareti, balconi o viali. Il film, complice la bellezza del cast e in particolare quella delle protagoniste femminili, alle quali si unisce l’apparizione del personaggio della ricca Amanda (Cate Blanchett), sembra un lunghissimo spot tipico delle case di moda per abiti griffati e profumi sofisticati…che sia stato questo il pretesto del regista? Concedete un pò di ironia dissacrante per smorzare la pesante vanità del film che si salva solo per la fotografia e il cast, sebbene la bravura e il talento degli attori sia rimasta inespressa.

data di pubblicazione:11/05/2017


Scopri con un click il nostro voto:

IL VIAGGIO DI ENEA di Olivier Kemeid, regia Emanuela Giordano

IL VIAGGIO DI ENEA di Olivier Kemeid, regia Emanuela Giordano

(Teatro Argentina – Roma, 26 aprile 2017/7 maggio 2017)

Una serata come tante, probabilmente un sabato sera, dove le persone ballano, cantano, ammiccano alla vita, si divertono. Poi si va a dormire e nel buio della notte silenziosa irrompe l’inferno, un delirio di fiamme, spari e dal caos che inaspettatamente irrompe mentre tutti dormono – se succedesse a te, cosa faresti? – ha inizio il viaggio di Enea (Fausto Russo Alesi) che tenta di lasciare la sua terra traendo in salvo la sua famiglia, la moglie Creusa (Roberta Caronia) con il loro figlio Ascanio ancora in fasce (da adulto come una “voce narrante fuori campo” interpretato da Giulio Corso), e il padre Anchise (Carlo Ragone).

Il faticoso e doloroso viaggio di Enea, che vedrà morire sotto i suoi occhi il fratello, l’amata moglie e il suo migliore amico Acate (Alessio Vassallo), è la storia di ognuno di noi, di chi ha già vissuto, ancora prima dei “resoconti” di Omero e Virgilio, il dramma dell’esodo, della fuga violenta, di chi ancora oggi è costretto ad abbandonare la sua terra e di chi, come noi italiani ed europei, in qualunque momento potrebbe trovarsi costretto a migrare e a vivere nascondendosi nella morsa della diffidenza e del pregiudizio altrui. Non a caso, a sottolineare come la storia di Enea, dei genitori di Olivier Kemeid e dei migranti che quotidianamente transitano nel Mediterraneo e sulle pagine dei nostri giornali sia la storia di tutti – per questo la loro questione meriterebbe rispetto e attenzione vera, non finta partecipazione o indifferenza -, nel ruolo della popolazione che accoglie, della società superficiale dedita al lusso e/o al menefreghismo ci sono personaggi di colore interpretati dai bravi Antoinette Kapinga Mingu ed Emmanuel Dabone. Invece gli emarginati, i rifugiati migranti sono bianchi. Emanuela Giordano ha allestito una sapiente regia del racconto frutto della storia di Olivier Kemeid fusa con l’epica classica dell’Eneide di Virgilio.

Il palcoscenico è una grande barca, una zattera, un angolo osceno di un campo profughi, è l’anima delle storie, dei ricordi, dei sentimenti dei migranti di ieri, di oggi e del migrante errante che si cela in ognuno di noi. Una regia curata e minimalista che punta sulla coralità e su una compagnia di attori di grande livello – spiccano in particolare Fausto Alesi (Enea), Roberta Caroni nel doppio ruolo, non casuale, di Creusa e Sibilla, Valentina Minzoni (Didone) e Giulio Corso (Ascanio) -, e su una sapiente fusione di musiche e ritmo scenico.

Uno spettacolo che scuote e fa riflettere e che meriterebbe di essere nella programmazione dei teatri italiani ed europei per i prossimi mesi, o meglio anni, per una corretta educazione civica e dell’anima.

data di pubblicazione: 28/04/2017


Il nostro voto:

LA TENEREZZA di Gianni Amelio, 2017

LA TENEREZZA di Gianni Amelio, 2017

La Tenerezza è quel desiderio insito in ognuno di noi di essere amati, compresi nella libertà di essere e fare quello che ciascuno di noi vorrebbe fare ed essere con il cuore, anche se poi finisce che tutto quello che facciamo si riduca ad una scusa per farci volere bene. Ma La tenerezza è anche lo sguardo, privo di preconcetti e contaminazioni, dei bambini – alcuni di loro anagraficamente cresciuti – che in una caotica e multietnica Napoli contemporanea ci raccontano la storia di due famiglie. Quella di Lorenzo (Renato Carpentieri), un avvocato vedovo in pensione che ha chiuso ogni rapporto con i suoi due figli, Saverio (Arturo Muselli) e Elena (Giovanna Mezzogiorno), e parla solo con suo nipote Francesco – figlio di Elena – perché ai bambini si può dire tutto, e la famiglia dei suoi nuovi vicini di casa, Michela (Micaela Ramazzotti) e Fabio (Elio Germano) con i loro due figli piccoli.

La vita solitaria di Lorenzo, reduce da un infarto che non lo ha minimamente scalfito, sarà invece travolta dalla forza della natura di Michela, sbadata e solare, e dalla sua famiglia: da un’iniziale “fusione” di buon vicinato dei rispettivi appartamenti uniti da un cortile, Lorenzo – chiuso e ostile a ogni legame con la sua vera famiglia – diverrà il saggio pilastro della famiglia della giovane coppia di vicini. Da questo ahimè breve “viaggio” nella loro vita, segnato da un evento inaspettato e devastante (incredibilmente attuale e vicino ai sempre più frequenti casi di cronaca) che invita a riflettere sugli inganni della bellezza e dei sorrisi di una calma serenità apparente, Lorenzo percorrerà un ulteriore viaggio interiore dei sentimenti e dal dolore della perdita riuscirà a ritrovare l’amore e la serenità tornando alla sua “vecchia casa”, ovvero alla sua vera famiglia, perché la felicità non è una metà da raggiungere, ma una casa a cui tornare…tornare, non andare. Un film potente, incredibilmente forte e vero grazie alla potenza della poesia dei dialoghi e alla delicatezza della fotografia delle strade, delle piazzette e degli interni – cupi, fatti di luci e ombre, riservati oppure luminosi, asettici e minimali – di una Napoli autentica come la storia sapientemente narrata da Gianni Amelio.

Un ottimo cast dove accanto al bravissimo protagonista Renato Carpentieri e alle conferme di Elio Germano e Micaela Ramazzotti, ritroviamo un’eccezionale Giovanna Mezzogiorno la quale, “dismesso” il ruolo della giovane donna guidata e spronata dal “vecchio saggio” maestro pasticcere (Massimo Girotti) in La finestra di fronte di Ozpetek – ruolo che nel film di Gianni Amelio sembra rievocato dal personaggio di Micaela Ramazzoti, complice la scena in cui Lorenzo e Michela sono alle prese con la preparazione di un ragù -, interpreta una donna, madre e figlia, apparentemente risoluta e forte ma di fatto tesa e fragile quando osserva da lontano, con la tenerezza e l’amore degli occhi di bambina (anche grazie alle segrete chiacchierate di suo figlio Francesco con il nonno), l’anziano padre Lorenzo che si ostina a respingerla per dedicarsi alla “causa” della vicina di casa che chiama mia figlia. Il tema della labile fragilità dei sentimenti, dell’incomunicabilità, della divergenza tra quello che si dice e quello che realmente sentiamo e vorremmo dire, il rapporto genitori/figli e le loro deviazioni talvolta degenerative, la deflagrazione latente nei segreti di famiglia, l’amore e la nostra umana complessità si fondono in un “acquarello” di Napoli dal titolo La tenerezza che scuote e consola, culminando con la dolcezza e la loquace profondità del fotogramma finale, perché un padre è sempre un padre.

Da non perdere!

data di pubblicazione: 25/04/2017


Scopri con un click il nostro voto:

LASCIATI ANDARE di Francesco Amato, 2017

LASCIATI ANDARE di Francesco Amato, 2017

Roma, quartiere dell’antico ghetto ebraico di fronte alla pittoresca Isola Tiberina: prendete una coppia, Elia (Toni Servillo) e Giovanna (Carla Signoris) – entrambi psicanalisti legalmente ancora sposati ma separati di fatto -, lui fascinoso burbero dallo spiccato senso di parsimonia e un po’ sovrappeso, lei cinquantenne elegante, femminile, amante dell’arte e altruista, che abitano in due appartamenti adiacenti ricavati dalla ex casa coniugale; aggiungete poi una personal trainer spagnola come Claudia (Veronica Echegui), sexy e frizzante, “fitness dipendente” dalla vita incasinata, ed Ettore (Luca Marinelli) nei panni di un delinquente galeotto, tutto tatuaggi, che, durante le ore di permesso per buona condotta, vorrebbe ritrovare attraverso la tecnica terapeutica dell’ipnosi il nascondiglio delle refurtiva della sua ultima rapina, ed ecco che la sceneggiatura per una commedia a tratti romantica, a tratti rocambolesco noir  rievocativa delle atmosfere di Woody Allen o Billy Wilder è pronta.

Lasciati Andare di Francesco Amato racconta il legame inscindibile tra la mente e l’anima, da una parte, e il corpo, dall’altra, e come le due sfere influiscano l’una sull’altra ove trascurate, attraverso le storie di due protagonisti agli antipodi: lo psicanalista Elia e la personal trainer Claudia. Il primo, focalizzandosi solo sullo studio e la “cura” della mente più per lavoro che per reale interesse umanistico scientifico, ha finito per essere schiacciato dalla pigrizia e da una sorta di apatia e insofferenza per il prossimo, a cominciare dai suoi pazienti e dai frequentatori della Sinagoga. Lei, invece, improntando la sua vita sul culto del corpo e della bellezza fisica non ha studiato, trascura il dialogo disinteressato tra due “menti” e ormai da anni incappa in una serie di relazioni con uomini egoisti e cialtroni che la mettono in una serie di guai. Qualcosa però li accomuna: entrambi fanno un lavoro che serve a ristrutturare le persone – l’uno intervenendo sulla mente e l’io nascosto, l’altra lavorando sull’aspetto esteriore del corpo -, ed entrambi stanno vivendo il disagio del proprio fallimento, rispettivamente, come psicanalista e come insegnante di fitness. Claudia non riesce a ingranare con il suo lavoro, si fida di uomini che la lasciano fossilizzata nello stereotipo della disgraziata poco di buono, e non riesce a condurre una vita equilibrata e sana con sua figlia Maria – che di fatto viene educata dalla coinquilina Paola (Valentina Carnelutti) -. Elia prigioniero del proprio egoismo eccentrico e della tirchieria, si addormenta mentre i pazienti gli parlano di se stessi, ha sempre dato per scontato che sua moglie sarebbe rimasta accanto a lui (anche e soprattutto come una sorta di colf) anche da separati di fatto (senza essere ricorsi ad un avvocato appunto per risparmiare, o forse no), ed ora è del tutto impreparato a gestire e impedire l’allontanamento di Giovanna coinvolta dalla relazione con un misterioso uomo probabilmente più giovane e aitante di lui. Ecco che l’incontro tra Elia e Claudia diviene per entrambi una terapia d’urto che li porterà a riprendere le redini della propria vita partendo da un apparente scontro di mondi opposti che li condurrà, guardando l’uno negli occhi e nell’anima dell’altra, a lasciarsi andare verso la riconquista della felicità e della gioia di amare. Irresistibile Luca Marinelli, nel ruolo del maldestro e credulone galeotto Ettore, che già aveva recitato insieme a Toni Servillo in La Grande Bellezza, e che qui conferisce al film quei toni polizieschi ed esilaranti che rimandano ad uno dei suoi personaggi – per ora – più celebri come Lo Zingaro di Lo chiamavano Jeeg Robot. Perfetta nel suo personaggio di donna elegante, innamorata e sarcastica Carla Signoris e impeccabile nel suo cameo Giacomo del trio Aldo, Giovanni e Giacomo. Finalmente una commedia con la “C” maiuscola, classica e dalla sceneggiatura originale che, grazie alla bravura dell’intero cast, scorre con un buon ritmo tra spassose battute sagaci, scene esilaranti (come quella in cui Elia è in videoconferenza da casa con un gruppo di psicologi riuniti a Parigi) e gli inseguimenti a tinte gialle in alcuni angoli tra i più suggestivi – e solitamente tranquilli – del cuore di Roma Sparita. Da vedere!

data di pubblicazione:17/04/2017


Scopri con un click il nostro voto: