da T. Pica | Feb 15, 2018
Sicuramente il titolo dell’ultimo film di Gabriele Muccino A casa tutti bene è ironico. Il regista gioca con la frase di mera circostanza “a casa tutti bene” per ironizzare sul disastrato stato di “salute” psicofisica del suo prototipo prediletto di famiglia, ovvero quella che per facciata è apparentemente serena, felice e perfetta da “mulino bianco”, ma dove, poi, basta entrare, aprire la porta di una delle camere o imbattersi nell’incontro di due membri per vedere cosa ci sia davvero dietro la maschera del “tutti bene”.
Sara (Sabrina Impacciatore), sorella di Carlo (Pierfrancesco Favino) e Paolo (Stefano Accorsi), è l’artefice della rimpatriata di fratelli, cugini, zia Maria (Sandra Milo) e nipoti sull’isola di Ischia per festeggiare le nozze d’oro dei suoi genitori, Alba (Stefania Sandrelli) e Pietro (Ivano Marescotti). La riunione di famiglia dovrebbe durare una mezza giornata, ma con la complicità del mare in burrasca i traghetti saranno bloccati non solo per quel pomeriggio ma anche il giorno seguente. Ecco che il buon viso a cattivo gioco che tutti sarebbero stati in grado di fare – mettendo a tacere vecchi rancori, tradimenti, ansie, frustrazioni e gelosie mai così vive e dolorose – superato il limite massimo della manciata di ore “scade” e dalla prima serata forzata tutti insieme hanno inizio una serie di scontri dirompenti di ogni equilibrio. L’insicurezza e la gelosia di Ginevra (Carolina Crescentini) per il rapporto tra suo marito Paolo (Favino) e la sua prima moglie Elettra (Valeria Solarino) e la prima figlia Luna, il casinista Paolo eterno adolescente in fuga a 42 anni e sua cugina Isabella (Elena Cucci), i tradimenti mai interrotti del marito di Sara, Diego (Giampaolo Morelli), la frustrazione di Beatrice (Claudia Gerini) per la malattia del compagno Sandro (Massimo Ghini), la disperata ruffianeria della “pecora nera” dell’albero genealogico, il cugino Riccardo (Gianmarco Tognazzi) e la sua compagna Luana (Giulia Michelini), si svelano e “urlano” tra la villa e i suoi giardini a picco sul mare. Ma, come tutte le burrasche passeggere, anche questa fulminea tempesta familiare si risolve in una mera implosione di sentimenti, paure e dolori. Placato il vento e calmato il mare, tutto torna come prima, non ci sono colpi di scena, decisioni e stravolgimenti risolutivi. Il polverone alzato torna sotto il tappeto e, più o meno tutti, tornano a fingere di essere micro famiglie felici e serene, solo che questa volta sono ancor più tristi perché maggiormente consapevoli della loro finzione e infelicità. Il film di Gabriele Muccino non eccelle per la sceneggiatura, né per la storia che riproduce la sua ossessione per le famiglie segnate da piccoli drammi interni, bugie e tradimenti. Il film, fatto di dialoghi che non entusiasmano – tra cui alcune battute di Alba (Stefania Sandrelli) rivolte ai suoi nipoti che talvolta sono fuori luogo e prive di senso – non brilla e, rievocando malamente Parenti Serpenti di Mario Monicelli, sembra un riassunto delle puntate di fiction come Una grande Famiglia ideata per Rai1 da Ivan Cotroneo. La colonna sonora che ricorre in gran parte delle scene musicata con un pianoforte triste e scordato, in stile “piano del saloon” o dei film muti, non aiuta la pellicola, ma per fortuna qua e là irrompono canzoni d’autore come sul finale con “Prima di andare via” di Riccardo Sinigallia. Il tormentone della famiglia canterina intorno al piano o per le stradine isolane a un certo punto finisce con lo stonare, non tanto musicalmente quanto cinematograficamente con il copione, divenendo eccessivo. Il giudizio per il film, rasenterebbe i due pop corn, – anche per le interpretazioni insufficienti di Elena Cucci nel personaggio di Isabella e di Stefania Sandrelli/matrona -, ma grazie alla bravura di Pierfrancesco Favino, Sabrina Impacciatore, Carolina Crescentini, Valeria Solarino e Stefano Accorsi, che sono bravissimi e riescono a emozionare anche con una storia senza guizzi, il giudizio complessivo migliora.
data di pubblicazione:15/02/2018
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da T. Pica | Gen 16, 2018
Il premio Oscar Gabriele Salvatores, rotto il ghiaccio con Il ragazzo invisibile nel delicato e per nulla scontato mondo del genere fantasy e dei supereroi, ci prende gusto e ci regala il secondo capitolo delle avventure del ragazzo “speciale” di Trieste: Michele (Ludovico Girardello). Il ragazzo invisibile seconda generazione è strettamente legato al primo episodio, sebbene racconti un momento cruciale del ragazzo speciale dopo ben tre anni dall’avventurosa scoperta del suo super potere e dall’impresa della sventata strage di un sottomarino.
Il protagonista, oggi sedicenne, è allo sbando. Michele hainfatti perso improvvisamente la madre adottiva (Valeria Golino) in un incidente stradale. Smarrito nel dolore del lutto, si trascina inerme, inquieto e afflitto dai già noti problemi di amore non corrisposto con la compagna di classe Stella. In questo momento di apparente calma piatta ecco che irrompono nella sua vita dalla Russia la madre biologica Yelena (Ksenia Rappoport) e, dal Marocco, una sorella che non sapeva di avere e che invece era stata trattata in salvo insieme a lui dal padre Andreij (in questo secondo episodio interpretato da Ivan Franek). Anche la sorella, Natasha (Galatéa Bellugi), è una ragazza “speciale” di seconda generazione dotata di due super poteri, come Michele: se il ragazzo speciale ha ereditato il potere dell’invisibilità dalla madre Yelena – oltre che un non ancora ben chiaro, e per questo talvolta improvviso e maldestro, potere di generare onde d’urto potentissime – Natasha ha il potere di accendere fuochi ed innescare incendi ed ha ereditato dal padre quello di sentire i pensieri delle persone. Da questo incontro apparentemente mosso dalla amorosa ricerca dei propri figli – e apparentemente provvidenziale e casuale dopo la morte della madre di Michele -, presto sarà chiaro il vero progetto egoista di megalomane vendetta distruttiva del mondo dei cd. “normali” architettato senza scrupoli dalla madre Yelena, la quale è pronta a tutto, anche a far del male ai due figli riuniti a sé dopo ben 16 anni. Chiaro il messaggio di Salvatores: attraverso la storia dei supereroi, punta la luce sul mondo dei giovani, sulle loro fragilità, le emozioni e i problemi degli adolescenti, sul loro rapporto con i genitori, specialmente con quei genitori che alimentano “il lato oscuro”. Emerge, sullo sfondo, anche la questione genitori biologici (dna) e genitori adottivi e su cosa significhi realmente “essere genitore”. Gabriele Salvatores regala un secondo capitolo, di un racconto che chissà se diverrà una trilogia, dove parallelamente alla crescita anagrafica e interiore del protagonista assistiamo a una crescita, in termini di maggiore consapevolezza e scaltrezza, del regista alle prese con un genere che nasce dai fumetti e si rivolge principalmente ai giovani, ma non solo. Il ragazzo invisibile seconda generazione è un film dalla narrazione immediata, con rapidi e semplici flashback; c’è meno spazio per la vita reale del protagonista e dei suoi amici, e dunque per il romanticismo e gli ambienti aperti, per lasciare il posto all’azione, effetti speciali e a scene decisamente più crude e dure rispetto al primo capitolo. Rispetto a Il ragazzo invisibile prima generazione la scenografia si incupisce in ambienti chiusi e decadenti: la lotta, appunto, con il lato oscuro che è dentro ognuno di noi, fin dalla nascita. E’ invece rimasta immutata la ricercatezza dell’eccellente scelta dei brani che compongono l‘eclettica colonna sonora. La prova del fuoco dei ragazzi speciali seconda generazione, Michele e Natasha, calamita lo spettatore sul grande schermo senza fiato, perché ormai Salvatores è diventato maestro dei colpi di scena e del “niente è come sembra”. Da vedere!
data di pubblicazione:16/01/2018
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da T. Pica | Dic 20, 2017
(Teatro Eliseo – Roma, 19 dicembre 2017 / 7 gennaio 2018)
L’affinato talento indagatore dell’animo umano del regista Filippo Dini porta in scena nel clima natalizio della città eterna, al Teatro Eliseo, la versione teatrale di quello che negli anni Ottanta è stato un successo letterario – il romanzo di Warren Adler (1981) -, poi amplificato da quello cinematografico – per la regia di Denny de Vito (1989) – con l’indimenticabile interpretazione di Michael Douglas e Kathleen Turner: La Guerra dei Roses. Il racconto prende le mosse da quella che poi sarà la fine: due avvocati divorzisti parlano della storia d’amore deflagrata dei loro rispettivi clienti, i coniugi Rose (noti all’alta società di Washington come i Roses). Oliver Rose (un bravissimo Matteo Cremon) e Barbara (una sorprendente Ambra Angiolini) si erano incontrati ancora studenti in una lontana estate ed era stato subito amore, condivisione. Si sposano, hanno due figli e il loro matrimonio appare forte e perfetto per 18 anni. Tuttavia, quella che sembrava essere una coppia inossidabile e realizzata inizia a scricchiolare quando in Barbara, la donna che dal primo incontro aveva dimostrato la propria generosa devozione nel sostenere anche i più piccoli sogni di Oliver (come l’aggiudicazione di un’asta di paese per due statuette di dubbio valore e scarsa bellezza), si fa strada il sogno di aprire un’attività di catering di alta qualità. Si radica nella donna la consapevolezza di aver annullato le proprie ambizioni, il sogno di divenire un prestigioso chef di fama per guidare, sostenere i sogni e la carriera di avvocato del marito. Ed è l’improvviso ricovero di Oliver per un presunto infarto, che poi si rivela essere solo un’ernia, a squarciare l’apparente equilibrio dei suoi sentimenti: Barbara, allertata dall’ospedale per il grave malore del marito, si sente leggera e felice, per nulla preoccupata per la salute del compagno di vita e non si reca al suo capezzale. Si dissolve in un baleno qualsivoglia comunione di intenti e sentimenti, “nella buona e cattiva sorte” non ha più ragione di continuare e ha così inizio la pratica di divorzio. Sebbene entrambi vogliano una separazione civile, rapida e indolore l’ostinato reciproco attaccamento per la sontuosa casa (acquistata con i sacrifici di Oliver ma impreziosita negli arredamenti dall’impegno e dal gusto di Barbara), sugellerà l’inizio della “guerra”. Al loro fianco due cinici avvocati divorzisti che parallelamente condurranno una personale guerra tra fini strateghi di cause matrimoniali (bravissimi e spassosi gli attori Massimo Cagnina e Emanuela Guaiana nei rispettivi ruoli dell’avvocato di Oliver e di Barbara). La casa diviene il pomo della discordia, l’unica ragione di vita in funzione della quale ciascuno, senza risparmiare colpi bassi al limite dell’assurdo, intende annientare l’altro per costringerlo ad abbandonare il tetto coniugale. La guerra lacera lentamente l’animo di Oliver, ancora innamorato di Barbara, e le delicate pareti della casa rappresentate, non a caso, con tessuti belli e delicati come i due protagonisti e i sentimenti di due persone che si sono profondamente amate e stanno separandosi. Nel secondo atto, dopo l’ennesimo scontro tra i coniugi belligeranti, la Casa rivelerà un presagio mostrandosi a Oliver come un essere animato che, venuta meno la loro unione, non è più in grado di tollerare la loro presenza e l’essere stata trasformata dal nido d’amore, realizzazione dei sogni di una vita, in causa di uno spregiudicato conflitto e si ribella alla loro presenza. Non c’è che dire, uno spettacolo ben rappresentato che grazie alla bravura, la mimica e l’ironia dei protagonisti e delle fondamentali “macchiette” degli avvocati, che impreziosiscono e alleggeriscono la drammaticità di un grande amore che finisce, ben rende la spesso amara futilità delle guerre che segnano le separazioni e divorzi giudiziali, spesso alimentati come stupidi incendi dall’irruente soffio di meri pretesti e questioni di cieco orgoglio.
data di pubblicazione:20/12/2017
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da T. Pica | Dic 6, 2017
(Teatro Quirino – Roma, 5/17 dicembre 2017)
La bravissima Monica Guerritore porta in scena al Teatro Quirino di Roma la versione teatrale del film Mariti e Mogli di Woody Allen e in un attimo lo spettatore si ritrova quasi voyeur dei “balletti” di sentimenti contrastanti, passioni, bassezze e fragilità di un gruppo di amici frequentatori di una sala da ballo e di un ristorante newyorchesi.
Come ogni settimana Gabe (Cristian Giammarini), nel ruolo che al cinema fu di Woody Allen, e Judy (Francesca Reggiani) si incontrano nella sala da ballo insieme alla coppia di amici più cari, Jack (Ferdinando Maddaloni) e Sally (Monica Guerritore). Assieme a loro frequentano la scuola di ballo anche un collega di Judy, il fascinoso Michael (Enzo Curcurù), Rain (Malvina Ruggiano), giovane allieva del corso di scrittura tenuto da Gabe, e la giunonica e un po’ svampita Sammy.
Tuttavia, quella che doveva essere una delle tante monotone, “lineari”, serate borghesi infrasettimanali della “vita perfetta” delle due coppie di amici Gabe/Judy e Jack/Sally, viene subito alterata dall’annuncio di questi ultimi: “abbiamo deciso di separarci, ma senza tensioni, rabbia e sofferenza”. Da questo fulmineo colpo di scena – al quale fa da sfondo l’inizio di un temporale -, che Jack e Sally sembrano condividere e affrontate con grande serena naturalezza, prendono il largo una serie di riflessioni, turbamenti, piccoli monologhi degli amici Gabe e Judy che riflettono un comune ma nascosto malessere della loro coppia: una latente insoddisfazione, nostalgia per la passione passata e un’inconscia attrazione verso nuove persone, più giovani. Non solo.
Quella che pareva essere una separazione consensuale e amichevole basata solo su un sentimento mutato e su riflessioni interne al rapporto tra Sally e Jack si rivela ben presto la conseguenza della banale relazione clandestina, ma ormai rivelata, di Jack con la procace Sammy. Recriminazioni, gelosie, grida di dolore e insoddisfazioni represse per anni travolgono il gruppo di aspiranti ballerini per una notte che loro malgrado sono costretti a confrontarsi ostaggio della pioggia incessante. Da una separazione dichiarata si passerà per il maldestro tentativo di trovare la felicità nella nuova dimensione di single maturi fino ad arrivare alla deriva dell’altra coppia, quella che sembrava perfetta e lontana da qualsiasi bassezza e tentazione. Mariti e Mogli, sebbene ispirato a un film del 1992, è uno spettacolo tremendamente attuale e smuove le coscienze. Sfido chiunque sia stato in sala alla prima gremita – platea composta da persone, molte coppie, di ogni età – a non essersi riconosciuto nei pensieri, gesti, parole e nelle azioni delle due coppie protagoniste, ma anche dei personaggi che ruotano intorno a loro. La fragilità dell’amore, l’ipocrisia, la paura di rimanere soli e perdere lo status di persona sposata borghese con le sue sicure abitudini, l’insidiosa voglia di trasgredire ed evadere, il bisogno di amare ed essere amati sempre e comunque. Lo spettacolo lascia indubbiamente un po’ di amara rassegnazione a tutti gli inguaribili romantici, ma grazie all’ironia e alle splendide musiche che accompagnano le parentesi ballerine dei personaggi del racconto – tra cui l’elegante “Lilies in the valley” di Jun Miyake – il cinico ritratto della realtà dei sentimenti e dei rapporti di coppia merita comunque di essere visto.
data di pubblicazione:06/12/2017
Il nostro voto:
da T. Pica | Nov 20, 2017
La commedia drammatica The Square di Ruben Östlund, premiata con la Palma d’Oro all’ultima edizione del Festival di Cannes e selezionata per rappresentare la Svezia agli Oscar 2018, è un film di nicchia forse destinato ad essere compreso fino in fondo solo da un pubblico di addetti ai lavori, che di fondo vive all’insegna del surrealismo e del paradosso.
The Square racconta le disavventure, lo stress e le cose più strambe che il protagonista, Christian vive nel suo ruolo di curatore di un prestigioso Museo di Arte moderna e contemporanea di Stoccolma. In concomitanza con la preparazione del lancio promozionale e dell’allestimento della mostra dedicata all’artista dell’opera “the square” – da cui appunto trae origine il titolo del film – Christian inizia a incappare in una serie di episodi al limite dell’assurdo e, talvolta, del grottesco che piano piano getteranno nel caos la sua patinata e lineare vita impostata. L’opera “the square” allestita all’ingresso del museo contiene il seguente messaggio: tutti coloro che in un certo momento della giornata si trovino all’interno del quadrato 4 metri per 4 (the square) delineato da una luce luminosa avranno gli stessi diritti e doveri, in un regime di pari opportunità e piena eguaglianza. Attraverso il personaggio di Christian, dunque, e gli aneddoti e le stramberie del “dietro le quinte” del Museo di arte contemporanea – dove tutto e tutti sembrano parlare di cose vuote, effimere come l’istallazione di montagnette di sassolini di ghiaia con la scritta al neon you have nothing – il regista lancia sicuramente una denuncia sociale: il divario sempre maggiore fra la società borghese, da una parte, che vive concentrata sul culto dell’apparenza e che si pone in completa diffidenza e distacco nei confronti del ceto sociale medio e di chi vive nelle periferie di Stoccolma, dall’altro. Altro tema centrale quello dei mendicanti che sono tra i topos del film (forse un fenomeno divenuto dilagante negli ultimi tempi anche nelle capitali del nord Europa) nonché quello dell’insuperabile difficoltà dell’uomo di riconoscere un proprio errore e chiedere scusa al prossimo.
The Square è un film che nel suo caos e nelle sue digressioni iperboliche ha molti contenuti che vanno, forse, oltre quel che emerge al primo impatto. Tuttavia, nonostante la bravura del protagonista e l’immagine affascinante e cosmopolita della “vita del museo”, l’opera appare inevitabilmente pesante e avrebbe potuto essere più incisiva e accattivante se tante scene e dialoghi inconsistenti e infinitamente lunghi e privi di senso fossero stati drasticamente ridotti o tagliati.
Rimango in ogni caso perplessa e, mi si conceda l’osservazione polemica ma ironica, faccio fatica a comprendere come sia possibile che gli svedesi abbiano potuto vincere la Palma d’oro a Cannes con The Square ed andare ai prossimi Campionati mondiali di calcio al posto dell’Italia!
data di pubblicazione:20/11/2017
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