da T. Pica | Dic 1, 2014
(Teatro Olimpico – Roma, 18/30 novembre 2014)
Il coreografo, o meglio, il Maestro americano Moses Pendleton ha realizzato con gli incantevoli ballerini Momix l’Opera “Alchemy”, uno spettacolo incentrato sui colori e sui simboli alchemici per eccellenza: acqua, terra, fuoco e aria (nell’ordine di rappresentazione).
L’opera d’arte dinamica in scena al Teatro Olimpico di Roma si apre con la dimensione dei fondali marini (Acqua come primo elemento) per poi volgere, in un crescendo di suggestioni e musiche palpitanti, alla volta del Fuoco. Sul palco i Momix offuscano qualsivoglia altra dimensione del teatro e il pubblico è sopraffatto dal calore del rosso e dagli effetti ottici – che incantano con la semplicità dei movimenti dei tessuti e del gioco di luci – e sonori in perfetta simbiosi con il ritmo vigoroso delle coreografie dei ballerini. I componenti del corpo di ballo non sembrano umani. Tutti i ballerini, dai fisici michelangeschi, appaiono estranei alle normali leggi gravitazionali: fluttuano leggeri e si dimenano energici divenendo una cosa sola con le musiche che accompagnano i diversi scenari alchemici, anche grazie alla sapiente complicità dei costumi e delle poche, ma essenziali, componenti scenografiche. L’effetto ottico più originale è reso dalla suggestiva performance dedicata all’elemento Terra: 6 ballerini avvolti in una particolarissima tuta nera-seconda pelle, che li rende indistinguibili l’uno dall’altro, sono visibili al pubblico solo nell’essenza di corpi umani neri interamente attraversati da linee/venature dai colori iridescenti (quasi un effetto fluo/luminor) mentre si dimenano in una serie di costanti movimenti che rievocano le fatiche terrene dell’uomo. L’emozione forse più toccante, o quantomeno la più dolce, la regala una delle scene dedicate all’elemento Aria: una poetica coreografia dedicata all’amore – nella sua accezione più aurea – interpretata da una coppia di ballerini rende cucita sui loro impalabili passi vibranti la musica in cui sono immersi – la celebre composizione di Ennio Morricone per il film “Cera una volta in America” -, come se quel componimento fosse nato per quella scena, per quella coppia di amanti, regalando un’emozione del tutto estranea al film che l’ha reso celebre. Purtroppo, dopo un’ora e venti cala il sipario con la scritta “the end”, ma tu vorresti che quei 12 ballerini continuassero ancora a sorprenderti per almeno un’altra ora. A rendere sopportabile l’accettazione dell’epilogo c’è la constatazione del lato umano e terreno dei ballerini Momix: solo qualora fossero stati veramente non umani avrebbero potuto continuare a dimenarsi nelle fatiche fisiche delle loro magiche coreografie. Che dire di più, Momix in Alchemy lascia estasiati e ti lascia uscire dal teatro avvolto in una catarsi insolita, diversa da quella che, quando si ha la fortuna che ci sia, lasciano i testi teatrali (monologhi, tragedie, commedie o novelle che siano) e che ti fa tornare alla realtà, e alla forza di gravità, con un sorriso ottimista. Insomma in un modo migliore ci dovrebbero essere più Momix per tutti i giorni dell’anno!
data di pubblicazione 1/12/2014
Il nostro voto:
da T. Pica | Nov 23, 2014
(Palalottomatica – Roma , 21 novembre 2014)
I 5 ragazzi torinesi, che anche se non lo diresti mai hanno oltre 20 anni di onorata carriera alle spalle, hanno nuovamente stupito e onorato le aspettative del pubblico con l’ultimo lavoro “Una nave in una foresta”, uscito lo scorso giugno a 3 anni di distanza dall’ultimo album “Eden” del 2011. E così, pur conoscendoli da tanto tempo, ti ritrovi piacevolmente sorpresa ed emozionata quando entrando nel Palalottomatica dell’Eur, che nel cuore rimarrà per sempre il PalaEur, vedi il palazzetto sold out gremito come non mai. E poi ecco che emergono da un palco minimalista i Subsonica e subito l’atmosfera si scalda in un vortice di note, luci colorate, ritmo, danze accompagnati dalla voce dolce e graffiante di Samuel. La scaletta è ben articolata: la band regala subito una performance perfetta con una sequenza senza soluzione di continuità delle prime 4 tracce dell’ultimo album, che non si può negarlo sembra nato per i Live. Poi il gruppo, che non annoia mai e stupisce con l’eclettico tastierista-mattatore Busta, catapulta l’arena e gli anelli del Palazzetto in una dance floor di quasi 15 anni fa con la sempre verde “Disco Labirinto”, per poi guidare il pubblico al 2002 con “Nuvole rapide” e “Nuova ossessione”. In un perfetto avvicendarsi tra le nuove canzoni de “In una nave in una foresta” e quelli che ormai sono i Classici dei Subsonica, ti riscopri ancora adolescente e sembra che il tempo non sia mai passato quando sale la pelle d’oca con la storica “Il cielo su Torino” (atto d’amore del gruppo alla loro città) e “Strade” fino all’ultima nata “Di domenica”. I Subsonica inondati dalla partecipazione del pubblico – dove fanno capolino anche i figli (dai 3 ai 12 anni) dei fan storici del gruppo – non si risparmiano e verso il finale regalano una perla: la versione acustica, spogliata dall’accompagnamento di ogni suono e strumento elettronico (elettronica definita nel preambolo di Samuel la “prigione” in cui per anni la canzone è stata creata), di “Tutti i miei sbagli” che lascia il pubblico entusiasticamente cullato e incantato. Insomma, che dire anche quando ci si aspetta di averli sentiti e risentiti i Subsonica ti spiazzano e, dopo due ore di musica ininterrotta, ti lasciano uscire in un’algida Eur felice, sorridente e ancora affamata dei loro suoni e dei loro testi. Unica pecca l’acustica del Palalottomatica – ops Palaeur – che non ha reso giustizia alla bravura vocale e strumentale del gruppo di Torino. I Subsonica hanno salutato Roma assicurando “ci vedremo molto presto, prima di quanto voi crediate” e a noi non resta che credergli!
data di pubblicazione 23/11/2014
CI HA CONVINTO
da T. Pica | Nov 11, 2014
(Festival Internazionale del Film di Roma – Gala)
Il film Tre Tocchi di Marco Risi regala al pubblico un racconto a tratti dispersivo degli uomini e dei ragazzi del Cinema italiano che provano per affermarsi come gli eredi di Manfredi e Gassman. Si tratta delle storie, in parte vere, condivise con il regista da un gruppo di attori in occasione delle partite di calcio della squadra attori fondata a Roma da Pasolini. Da un lato, i quarantenni che, dopo l’Accademia, anni di teatro e il successo ormai svanito di qualche fiction che va in replica sui canali satellitari, devono ripiegare sui casting per spot pubblicitari e, dall’altro, i trentenni bramosi di gloria che per avere tutto e subito, scendono a compromessi e ricadono nei soliti cliché. A riflettere la comune insoddisfazione e le incertezze dei protagonisti c’è il Padre nostro che, come una litania, accompagna e guida l’intero film: in realtà si tratta semplicemente delle battute che ossessionano i protagonisti, nella disperata ricerca della convocazione per un provino che potrebbe segnare la loro svolta artistica. Ovviamente, l’epilogo è amaro, soprattutto per i sopraggiunti limiti di età dei due attori quarantenni che, disincantati e un pò smarriti, si interrogano sul senso della propria vita e si dimenano tra dolori familiari irrisolti, qualche rimpianto e il secondo lavoro da cameriere. Insomma, tanta amarezza sorregge un groviglio di storie frammentate, che talvolta si perdono in divagazioni superflue, all’insegna di una visione arida e machista del mestiere di attore, in cui gli ostentati nudi e la presunta forza brutale degli attori, calciatori e boxer nel tempo libero, prendono il soppravvento sul sacro fuoco dell’arte, sulla sensibilità e i sentimenti. Il mestiere dell’attore pare appunto debba ruotare introno ai “tre tocchi” del giuoco del calcio, concetto avvalorato dall’assenza della donna “attrice”; ed anche se poi sul finale del film quei “tre tocchi” sono rivisitati in chiave opposta alla virilità ostentata lungo l’intera pellicola, e seppur il film rimane fedele ai ritratti amari firmati Risi (il quale cita Moretti con le parole sono importanti e rispolvera la sedia del Regista Fellini), non riesce comunque a centrare l’obiettivo e non ci fa entrare in empatia con i protagonisti, sebbene interpretino sé stessi con i loro nomi veri, lasciandoci ancora troppo nostalgici per gli attori italiani del passato.
data di pubblicazione 11/11/2014
Scopri con un click il nostro voto:
da T. Pica | Ott 30, 2014
(Teatro Brancaccio – Roma, 27 settembre/8 ottobre 2014)
Dignità Autonome di Prostituzione (DAdP) di Luciano Melchionna, format presentato a un pubblico di nicchia già 3 anni fa, è andato in scena al Brancaccio di Roma. Lo spettacolo, dai colori, dai suoni e dal ritmo coinvolgenti, muove da uno scopo ben preciso: far riscoprire al pubblico che il mestiere dell’attore non è semplice e non si improvvisa, e lo fa affidando ad oltre 30 personaggi – ragazze e ragazzi che hanno studiato, fatto la gavetta e hanno veramente calpestato e vissuto il palcoscenico con la “P” – la “vendita di pillole di piacere”. In modo provocatorio e giocoso il regista, oltre che sceneggiatore, trasforma il Teatro Brancaccio in un grande bordello popolato dai personaggi più curiosi, cupi, divertenti e colorati e il leit motive, ribadito da ciascun personaggio quando “adesca” il gruppo di pubblico interessato ad assistere al suo monologo (ovvero alla pillola di piacere), è mi paghi prima e anche dopo se ti è piaciuto. E così ogni spettatore viene accompagnato, dal venditore della pillola di piacere teatrale scelta, nei pertugi più nascosti ed insoliti, solitamente inaccessibili durante gli spettacoli teatrali canonici, come i bagni, il seminterrato, le sale di regia, un balcone incantato del Palazzo Brancaccio, l’interno della jeep parcheggiata a Via Mecenate a pochi passi dal Teatro, ed assiste a dei monologhi davvero toccanti. Lo spettatore, durante una serata al Bordello (dalle 21.00 alle 00.30 circa) può assistere, ovviamente previo pagamento contrattato con ogni “prostituta” – e realizzato con i “dollarini” consegnati dal proprietario del “bordello” all’ingresso nel Teatro -, fino a un massimo di 5 monologhi. Monologhi che – nonostante i lustrini, le pailettes, le frasi ambigue, le carezze e gli sguardi ammiccanti delle “prostitute” (uomini e donne) che “adescano” ed offrono la propria pillola/monologo – si “scontrano” con la facciata di superficialità e spensieratezza cantata, ballata e suonata dagli attori, trattando storie e tematiche spesso drammatiche che spiazzano lo spettatore in un continuo alternarsi tra frivolezza, musiche e balli, da un lato, e commozione, riflessioni sulle molteplici realtà drammatiche del nostro paese, dall’altro. Luciano Melchionna ha scritto e riadattato con ciascun attore la pillola di piacere/monologo, realizzando tanti piccoli capolavori di teatro moderno che mettono in risalto la bravura, l’espressività e il talento di ciascuna “prostituta” restituendo, appunto, la dignità al mestiere dell’attore completo a 360 gradi. Lo spettatore riesce a vivere un’esperienza piena e originale e a respirare il vero significato di “fare teatro”.
data di pubblicazione 30/10/2014
Il nostro voto:
da T. Pica | Ott 26, 2014
(Festival Internazionale del Film di Roma 2014 – Cinema d’Oggi)
Tra la purezza dei boschi e delle montagne che si espandono appena fuggiti da Palermo ha inizio la storia di Biagio di Pasquale Scimeca. Il film ci regala una buona interpretazione di Marcello Mazzarella che, dopo ruoli di secondo e terzo piano – da ultimo al Festival di Roma 2013 con il film “Come il vento” -, approda al grande schermo con il ruolo di Biagio. La storia, senza alcun preambolo o flash back sulla vita dissoluta e fastosa (o presunta tale) che solitamente precede ogni redenzione intimista o conversione mistica che si rispetti, è la trasposizione della parabola di San Francesco in uno scorcio di Sicilia negli anni Novanta. Biagio, primogenito di un imprenditore di Palermo decide di lasciare tutto, la fidanzata, gli amici, gli ipercalorici pranzi domenicali e i soldi, per divenire parte stessa della natura. Solo nel fisico e quotidiano contatto con la terra brulla, con gli alberi, con la pioggia e il vento, con le montagne e il silenzio, Biagio si sente veramente sereno e felice. Ora ha tutto quello di cui ha veramente bisogno: la serenità mai provata prima, il disinteressato calore umano del cane Libero, fedele compagno di viaggio – coprotagonista presente anche alla proiezione in Sala Sinopoli – e uno scopo, ovvero trovare Dio. Da questa consapevolezza ha inizio l’ascesa di Biagio verso l’Umbria. Una volta provata la gioia immensa dell’incontro con Dio all’interno della Basilica di Assisi, Biagio ha un nuovo scopo, una missione che lo porta a ridiscendere verso gli “inferi” della terra sicula per dedicarsi senza alcuna remora all’assistenza dei senza tetto e di tutti gli emarginati. Versione semplice ed essenziale di un moderno San Francesco dalle sfumature rock grazie al “BobDyliano” inno alla gioia composto da Marco Biscarini per descrivere la potenza e la beatitudine avvertite da Biagio nel suo incontro con Dio all’interno della Basilica di San Francesco da Assisi. Buona la regia e la fotografia, ma il film non tocca le corde giuste e non regala quella catarsi interiore che da un film incentrato sul moto dell’anima e la spiritualità forse ci si aspetterebbe.
data di pubblicazione 26/10/2014
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