da T. Pica | Feb 3, 2015
(Teatro Argentina, Roma – 2 febbraio 2015)
Solo (ahimè) per una sera il Teatro Argentina e Toni Servillo hanno aperto le porte del Teatro ad un’iniziativa di beneficienza a sostegno di Medici Senza Frontiere. E così lo spirito solidaristico supportato dalla garanzia dell’ipnotica bravura di Toni Servillo hanno presentato un Teatro Argentina sold out fino all’ultimo palchetto. Servillo conduce lo spettatore in un viaggio di un’ora e mezza che si muove in senso opposto a quello della Divina Commedia: si parte dal Paradiso, si attraversa il Purgatorio e si scende nell’Inferno. Il cuore di questo percorso è il costante dialogo, talvolta quasi una sorta di negoziazione, tra la vita e il tema della morte e dell’aldilà, tra l’uomo e i santi del Paradiso, che contraddistingue gran parte della letteratura napoletana da sempre. Toni Servillo è spiazzante nella lettura interpretata, vibrante e nella recitazione instancabile di testi che vanno da Vincenzo De Pretore di Eduardo De Filippo (forse la più esilarante) e poi si alterano tra i capisaldi della poesia napoletana come Salvatore Di Giacomo, Raffaele Viviani, Ferdinando Russo e i nuovi poeti contemporanei, tra i quali spiccano Enzo Moscato e Mimmo Borelli il quale ha coniato nuove litanie con parole (dallo stesso inventate) incredibilmente musicali e visionarie. L’Attore solo con un leggio recita ogni poesia mantenendosi fedele ai diversi suoni e dialetti propri delle varie “appendici” campane che circondano la città di Napoli. Tra una poesia e l’altra il discreto ed elegante Servillo ti spiazza anche quando per sorseggiare dalla sua bottiglietta d’acqua minerale si volta verso lo scheletro della scenografia dello spettacolo Le voci di dentro, dando così per pochi secondi le spalle al pubblico, e chiede agli spettatori scusa per simile “gesto”: per una serata l’Attore tenta di eclissarsi per lasciare il dominio assoluto della scena, e gli applausi, alla poesia degli Autori Napoletani. Sono loro gli unici protagonisti, i veri artefici dell’Opera d’arte in scena. Uno spettacolo che avvolge e che, grazie alle coincise introduzioni/spiegazioni sui vari Autori Napoletani rese da Toni Servillo e alla sua indubbia bravura, “fa vedere Napoli” anche a chi (vergognosamente) non ci è mai stato e fa amare Napoli e la sua letteratura anche a chi, come gran parte del pubblico dell’Argentina, non conosce – e dunque non può comprendere il significato di tutte le strofe – il musicale, figurativo, ritmato e colorito dialetto napoletano. Da domani sicuramente molti degli spettatori, seppure analfabeti della lingua napoletana, compreranno alcuni dei testi che più hanno amato in questa serata speciale per conoscerla meglio e apprezzare fino in fondo il patrimonio dei suoi grandi Poeti.
data di pubblicazione 03/02/2015
Il nostro voto:
da T. Pica | Gen 25, 2015
Dopo sette anni di assenza ritorna sul grande schermo Francesca Archibugi e lo fa con un film apparentemente minuto ma infinitamente profondo. Il nome del figlio narra la storia dei quattro protagonisti – i fratelli Betta e Paolo Pontecorvo (Valeria Golino e Alessandro Gassman), Sandro (Luigi Lo Cascio), marito di Betta, e Claudio (Rocco Papaleo), loro amico da una vita e “moderatore” del quartetto – attraverso l’alternanza tra presente e passato. Presente e passato si avvicendano tra le mura della casa radical chic di Betta e Sandro al Pigneto e i flashback delle estati dell’infanzia e dell’adolescenza trascorse dai quattro amici nella Villa al mare della famiglia Pontecorvo. Ai magnifici quattro amici si aggiunge il quinto personaggio di Simona (Micaela Ramazzotti), la moglie di Paolo: donna un po’ naif dell’estrema periferia sud di Roma, “la tigre di Palocco”, senza alcuna “dinastia” prestigiosa alle spalle incarna per gli altri una superficialità che, però, è solo apparente. Simona è prigioniera della sua bellezza e della sua genuinità interlocutoria e, dunque, dello stereotipo “bella e scemotta”, ma in realtà è proprio lei, occhio puro, esterno al quartetto e scevro dell’altisonante responsabilità del nome Pontecorvo, che riesce a cogliere l’autenticità delle cose e, soprattutto, i pensieri, i segreti e le sofferenze irrisolte dei quattro amici. La scena si muove attorno ai cinque personaggi seguendoli nei loro movimenti e nelle loro espressioni facciali più intime, anche grazie alla penetrante, e per questo fastidiosa, telecamera dell’elicotterino telecomandato dei figli di Betta, durante la cena organizzata a casa di Betta e Sandro per l’annuncio del nome scelto da Paolo e Simona per il figlio che aspettano. Mentre però Simona è in (perenne) ritardo, Paolo catalizza l’attenzione della cena su di sé improvvisando uno scherzo proprio sul presunto nome scelto per il bambino che nascerà fra qualche mese. Dalla puerile burla si innesca un giuoco degli equivoci che finalmente lascia uscire i quattro amici dalla prigionia dei rispettivi scheletri nell’armadio, da quei piccoli rancori e pensieri mai rivelati e portati silenziosamente con sé dalle lontane estati di Villa Pontecorvo. Tante piccole confessioni si alternano a piccole recriminazioni attraverso battute dal ritmo incalzante, ironico e mai banale. Tutti i cinque attori rappresentano al meglio un microcosmo della società attuale. Quello che ne emerge è una perfetta pièce teatrale proiettata sul grande schermo che mette a nudo l’animo umano, la sua fragilità. Come Simona è prigioniera della figura “bella, ignorantella e superficiale”, così l’incomunicabilità rende ognuno dei quattro amici prigioniero di uno stereotipo moderno: Betta dell’eccessivo amore per Sandro e del suo rinunciare sempre prima di prendere una batosta; Paolo non riesce ad andare oltre il consumismo e l’apparenza, in un’affannosa edificazione della propria posizione sociale fondata sulla ricchezza e su un’immagine di sé e della moglie votata ad una perfezione patinata; Sandro, professore di lettere e scrittore senza fama, si crede l’unico portatore/custode del verbo italiano per poi rifuggire la realtà, temere il dialogo e il confronto con il prossimo, e trovare soddisfazione nella comunicazione virtuale dei tweet. E poi c’è Claudio, musicista precario che vive di arte e che ormai da dieci anni ha incentrato la propria vita, e dunque negato una parte di sè ai suoi amici, sul proprio amore segreto per una misteriosa donna. In questo dolce caos, fatto di sentimenti, ricordi, sogni e incomunicabilità, Simona con la sua semplicità e con la complicità degli equivoci riesce a sciogliere le fila di quella ragnatela in cui forse ormai da troppo tempo il quartetto storico si era arenato. La sceneggiatura di Francesca Archibugi e Francesco Piccolo, con la (ormai) matura macchina da presa della prima, ci regalano un film perfetto dal finale a sorpresa che arriva dritto al cuore. Ottima l’interpretazione della Golino – irresistibile nelle sue movenze per la casa dove unisce l’efficienza della mamma/moglie “serva” alla donna che tenta di prendersi cura anche di se stessa con la ginnastica isometrica fai da te – di Gassman, Papaleo e Lo Cascio. Anche Micaela Ramazzotti è perfetta nell’orami perenne ruolo di donna schietta, genuina e nevrotica, ma forse vorremmo vederla cimentarsi anche in ruoli diversi, senza la solita sigaretta nervosa e senza il solito rimmel colato mentre singhiozza. Film da vedere!
data di pubblicazione 25/01/2015
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da T. Pica | Gen 14, 2015
(Teatro dell’Orologio – Roma, 13/25 gennaio 2015)
Al Teatro dell’Orologio di Roma ha debuttato Il diario di Maria Pia, l’Opera, forse, più intima e sentita di Fausto Paravidino che da qualche anno ha incantato i teatri di mezza Europa.
Avvolti da una scenografia minimale ma al contempo inspiegabilmente calda e dolce, l’Autore, regista e protagonista, mette in scena l’ultimo mese e mezzo di vita della madre – interpretata dalla bravissima Monica Samassa – e con la poliedricità mimica e (unica) vocale che lo contraddistingue regala allo spettatore delle perfette miniature, quasi dei carboncini dei personaggi che con lui e Iris sono stati vicino a Maria Pia, intorno al suo letto d’ospedale.
La malattia di Maria Pia le strappa tutto d’un fiato le forze e la dottoressa si ritrova improvvisamente orfana del proprio corpo, della sua dimensione corporea, e priva della vitalità fisica che l’ha sempre caratterizzata in famiglia e tra i colleghi medici.
Ma solo il fisico è sopraffatto dal cancro e ormai inerme. La mente di Maria Pia, seppure annebbiata e talvolta confusa, resiste caparbia e il diario scritto sotto dettatura da Fausto diviene la voce del flusso dei suoi pensieri e dei ricordi. Ma il diario è molto di più: è la testimonianza di quello che la malattia, il suo silenzioso avanzamento verso l’inesorabile evento della morte, con molta probabilità potrebbe determinare nella mente di ognuno di noi. E grazie a questo diario la morte non fa poi così paura. Fausto Paravidino riesce a rappresentare i sentimenti e i flussi che hanno attraversato e fatto compagnia a Maria Pia nel suo ultimo frammento di vita con incredibile leggerezza grazie a un misurato ricorso all’ironia, con cui sdrammatizza le troppo spesso ciniche, fredde parole “calcolatrici” dei medici e delle statistiche. Lo spettatore viene rapito senza rendersene conto dal groviglio di amore, stupore e nostalgie che attraversano la stanza di Maria Pia, ma senza soffrire. Si non c’è sofferenza, non vi è traccia di dolore: né sul volto di Maria Pia, né su quello dei suoi cari, né su quello del pubblico.
Nell’Opera il dolore lascia il posto a pensieri semplici, dolci, talvolta solo apparentemente banali, che confluiscono nel prestigioso ricordo del “caco d’autunno”, disegnato da Maria Pia a 6 anni, e nella giusta distanza con cui alla fine la protagonista rimpiange l’affannosa, talvolta smaniosa, ricerca di una cultura sempre maggiore che poi a conti fatti, in quel letto di ospedale, appare esser stata manieristica, inutile o quantomeno eccessiva. Ma, soprattutto, dal diario di Maria Pia, nel flusso delle sue riflessioni spontanee, irrompe la solenne allegoria del mare di ovatta che lungo il testo si contrappone, in una lotta simbolica, al rullo compressore della malattia. Ognuno di noi ha il suo mare di ovatta in cui ritrovare tutte le cose belle della propria esistenza terrena e forse basterebbe ricordarsi e “accarezzare” questo mare di ovatta un pò più spesso per godere a pieno di ogni nostro istante sulla Terra.
Infatti proprio questo soffice mare di ovatta, con le sue triturine, annienta ogni forma di paura, di sofferenza lungo l’intera rappresentazione fino all’ultimo punto messo da Fausto sul diario.
Ed ecco che, dopo aver assistito partecipe all’intera Opera senza turbamenti, con il punto definitivo della morte di Maria Pia, solo in quel preciso momento, mentre siamo completamente rapiti dalla scena finale, gli occhi sono improvvisamente e sorprendentemente carichi di lacrime che fluiscono quasi singhiozzando. Del tutto inaspettatamente ci si ritrova in lacrime ma senza alcun dolore, senza ansie, in lacrime ma con il sorriso dettato da una strana sensazione di serenità mista a felicità.
Che dire! Con Il diario di Maria Pia Fausto Paravidino da prova di una sensibilità forte, poetica ed assoluta regalandoci un suo momento unico e intimo che, sebbene “sulla carta” degli stereotipi dovrebbe essere doloroso e triste, lascia positivamente scossi dentro. Si esce dal Teatro con gli occhi posticci e umidi, ma senza una briciola di sofferenza…anzi.
Una catarsi unica nel suo genere.
data di pubblicazione 14 /01/2015
Il nostro voto:
da T. Pica | Gen 11, 2015
(Teatro Argot Studio, Roma – 7/25 gennaio 2015)
Il Teatro Argot Studio inaugura il 2015 con l’ultimo Lavoro di Filippo Gili che si conferma autore drammaturgo sapiente. Sul palco dell’Argot si alternano tre spazi: al centro la casa dei genitori (Giovanni e Michela) dei protagonisti, Antonio e Elena, dunque la famiglia riassunta nel momento conviviale dell’incontro/scontro e del racconto. A sinistra lo spazio dell’intimità, dove si sviscerano le paure, i ricordi dei due fratelli (ma anche tra padre e figlia) e a destra l’ambiente freddo e asettico della stanza di ospedale dove i due medici perseguono la loro etica.
L’Opera si apre con quella che solo apparentemente è la “solita” cena di famiglia, una tavolata come tante altre, perché nel ritmo incalzante dei dialoghi iniziali, serrati e precisi, “quattro chiacchiere” (<<ma poi si dice “far quattro chiacchiere” o “fare due chiacchiere”?, “due passi” o “quattro passi”?>>) tirano altre quattro chiacchiere e la famiglia finisce con l’arrovellarsi sulla seguente domanda fatta solo pour parler dalla figlia ai genitori: se fossero costretti a dover scegliere quale dei due figli salvare ciascuno di loro chi sceglierebbe tra i due? Dopo il vortice dei fulminei ed ingenui botta e risposta dei quattro commensali le luci si spengono e si riaccendono quelle bianche al neon della camera di ospedale. Qui due medici comunicano ad Elena e Antonio che i loro genitori sono affetti da una malattia rarissima, talmente rara che pur ricorrendo in un soggetto ogni 6.000.000 questa volta si è palesata ed accanita con due persone che si amano e vivono da 40 anni sotto lo stesso tetto, nello stesso microcosmo di Terra. Fatti gli accertamenti clinici del caso, però, emerge che non entrambi i figli bensì solo Elena può sottoporsi all’unico espianto praticabile e, dunque, fratello e sorella dovranno scegliere in una manciata di giorni quale dei due genitori salvare. Da questo momento ha inizio il dramma, il dilemma tra ragione (o meglio, quel timido frammento di razionalità che fa capolino in situazioni tutt’altro che lucide) e sentimento, tra cinico calcolo e amore viscerale. Fratello e sorella si ritrovano più uniti che mai in un inferno di riflessioni, incubi e notti insonni. Chi sceglieranno e sulla base di quali “parametri”? Lasceranno che la malattia faccia il suo naturale corso e non sceglieranno o butteranno uno dei due genitori giù dalla “fredda” torre? Lasceranno che sia il caso a buttarne uno giù? La loro scelta sarà accettata dai due “ambasciatori” della scienza, che applicano la ricerca, le statistiche e parlano di etica perseguendo il “freddo” scopo di salvare vite umane?
Il Testo di Filippo Gili è davvero ben strutturato e affronta il tema classico e moderno della malattia e delle “Scelte” in modo energico, senza mai cadere nella banalità, nel “già visto e sentito”, senza angosciare misurando sapientemente l’ironia, il sarcasmo, l’amore e il dramma con dialoghi e interrogativi in cui ogni spettatore si immedesima fin da subito. L’Autore e il Regista hanno ben diretto gli attori e davvero ottima è la prova dei due protagonisti, Barbara Ronchi (Elena) e Massimiliano Benvenuto (Antonio): Lei incarna perfettamente il doppio dramma di figlia/bambina – che vorrebbe, come ogni bambina rannicchiata su un divano, soltanto vivere il dolore e gli ultimi momenti dei due genitori insieme – e quello di figlia eroina, a tutti costi dura che anche questa volta è prigioniera del ruolo di donna trentenne “con le palle” che non scende a compromessi; Lui, invece, è perfetto nel ruolo del fratello Antonio il quale alla fine, dopo aver provato a mediare tra la sorella e la “voce della medicina”, rimane ipnoticamente assorto, immobile, e lascia alla sorella – o forse lo aveva lasciato fin dall’inizio – il compito di scuotere e definire gli eventi. Entrambi i protagonisti catalizzano la scena e tengono vivo tutto il testo fino al sipario che cala con l’assordante ultima “goccia d’acqua” che cadendo fa traboccare il vaso del dilemma. Quel vaso ormai colmo di tutte le possibili (ed impossibili) assurde combinazioni di criteri vagliati per approdare alla scelta bramosamente attesa dai due medici. Dall’alto di una fredda torre è una pièce teatrale che potrebbe tranquillamente approdare al grande schermo del cinema d’Autore. Da vedere!
data di pubblicazione 11 /01/2015
Il nostro voto:
da T. Pica | Dic 11, 2014
(Teatro Argot Studio – Roma, 3/14 dicembre 2014)
Dal 3 al 14 dicembre il Teatro Argot Studio si conferma centro sperimentale e culla del teatro tradizionale della scena romana e non è un caso se Sergio Rubini ha scelto proprio questo luogo per portare in scena il Romanzo di Dostoevskij. In un teatro piccolo, il cui pavimento in parchè consumato lascia respirare i passi di coloro che lo hanno solcato, e ancora oggi lo solcano, mossi esclusivamente dalla irrefrenabile e più pura fiamma per l’arte della recitazione, Sergio Rubini e Pier Giorgio Bellocchio danno vita a un apparente “reading” di Delitto e Castigo, strutturando l’Opera in due serate. I due attori realizzano un’interpretazione vibrante dei passi più salienti del testo di Dostoevskij al punto che i fogli che ogni tanto sembrano leggere, sfogliare o che più semplicemente sono arrotolati tra le loro mani o poggiati sul leggio, sembrano essere la sola finzione scenica della rappresentazione. L’atmosfera è intima, buia, la scenografia minimale: un tavolino con una candela, due sedie di legno e qualche giacca e dei cappotti pendono dal soffitto. Poi solo due volti, e a tratti solo due corpi, illuminati nella loro interezza da una calda ma non troppo incisiva luce, accompagnati da qualche sporadico rumore di sottofondo, trasmettono tutta l’ansia, le angosce, il fluire di coscienza, le emozioni del protagonista Raskol’nikov, sapientemente calibrato da Bellocchio, da un lato e l’ipocrisia, i sentimenti, la rassegnazione, lo squallore e, talvolta, l’aridità dei personaggi, femminili e maschili, contro i quali Raskol’nikov si imbatte, tutti egregiamente rappresentati da uno stupefacente Rubini, dall’altro. Sergio Rubini e Pier Giorgio Bellocchio rapiscono il pubblico al punto che l’intervallo che separa (anche) per 3-4 giorni la “serata Delitto” dalla “serata Castigo” non si percepisce bensì rimane intatto il filo narrativo ed emozionale che unisce il massimo pathos degli ultimi minuti del Delitto alla fuga di Raskol’nikov dal palazzo dell’usuraia assassinata che da inizio al Castigo. Lo spettacolo regge interamente sui volti, la gestualità e, soprattutto, sulle perfette modulazioni delle voci dei due attori, il protagonista Raskol’nikov, la voce narrante e i vari personaggi: entrambi emozionano, scuotono, catalizzano lo spettatore in un moto interiore continuo. Nella seconda serata come non citare il cameo della brava ed espressiva Vanessa Scalera – veterana del palco dell’Argot – nei panni del personaggio di Sonia.
Nella realtà odierna, fin troppo spesso insipidamente patinata e vuota, è bello imbattersi in attori navigati e famosi che, nonostante la fama, le luci del grande schermo e gli anni di onorata carriera, amano ritornare alle origini, alle dimensioni di quei teatri/scuola in cui hanno mosso i primi passi, per offrire uno spaccato di vero Teatro. E dove, come nel caso del Teatro Argot di Trastevere, a sipario calato quegli stessi attori, compreso il mattatore Rubini, nell’atrio e nel cortiletto insieme al pubblico fondono le dimensioni “palcoscenico” e “realtà”.
data di pubblicazione 11/12/2014
Il nostro voto:
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