da T. Pica | Apr 3, 2015
(Teatro dell’Orologio – Roma, 31 marzo 2015 / 12 aprile 2015)
“Ma perché quando studiavo al Liceo non mi hanno portata a vedere spettacoli come quello in scena al Teatro dell’Orologio di Roma fino al 12 aprile?”. Questo mi sono domandata mentre riscoprivo la bellezza e la profondità della scrittura di Luigi Pirandello. Fabrizio Falco porta in scena Partitura P: un vero e proprio pentagramma – reso perfetto grazie alla simbiosi con il musicista Angelo Vitaliano che dialoga “live” con l’Attore creando suggestive atmosfere – in cui l’Attore/Autore compone la partitura delle tre novelle di Luigi Pirandello: i) L’uomo dal fiore in bocca, ii) Una giornata e iii) Il treno ha fischiato. Fil rouge che unisce le tre opere percorrendole come in un unico viaggio dell’anima è il “treno” che attraversa le tre storie lungo il binario della vita, che passa attraverso la complessità dell’animo umano, l’incessante giuoco tra l’essere, l’apparenza e la maschera e l’artificio come vie di fuga dall’arida e grigia realtà. Nella prima pagina dello “spartito” un viaggiatore che ha perso il treno e si ritrova suo malgrado a ciondolare alla stazione diviene il confidente de L’uomo dal fiore in bocca. Un uomo che proprio con un perfetto sconosciuto riesce a dichiarare la sua avversità verso la moglie, a lui così devota e con lui così premurosa, e per la vita. Il tema dell’apparenza e dell’immaginazione come strumento per rifuggire la realtà, divenire un’altra persona, avvicinarsi e “attaccarsi” alla “vita degli altri” per riuscire a disprezzare la pochezza della vita terrena e della società che lo circonda e forse illudersi di soffrire meno quando la morte, che si è affacciata lasciandogli in bocca quel fiore (un epitelioma), tornerà da lui per compiere il suo disegno. A scandire le giornate angosciate e tormentate del protagonista il tic tac della pendola della sala da pranzo – sala perfetta e ordinatissima come perfetta e ordinatissima è tutta la casa custodita e conservata dalla devota moglie -: il “tic tac” e l’ordine perfetto come sinonimi di alienazione e vita stantia. Dal treno perso dal confidente dell’Uomo con il fiore in bocca nel pentagramma prende poi ritmo un altro treno dal quale un uomo viene improvvisamente “espulso” – treno come simbolo della sua vita ordinata e retta dentro rigidi e rassicuranti binari – e si trova smarrito nel buio della notte fuori dal tracciato apparentemente perfetto di quei binari. Magistrale sunto del surrealismo Pirandelliano in Una giornata assistiamo rapiti al sogno del protagonista che proprio attraverso la visione onirica, e la buia notte, ripercorre tutta la sua vita terrena fino alla sua morte. Ed è qui, in questo preciso momento in cui il protagonista ripete ossessivamente vecchi figliuoli, vecchi figliuoli che senza alcuna soluzione di continuità Fabrizio Falco, con grande maturità artistica, diviene l’ilare e ritmato protagonista della terza novella, Il treno ha fischiato. Il pentagramma si chiude così con il treno – sempre inteso come vita, dinamismo, sangue che scorre brillante nelle vene – che fischiando stura le orecchie del sig. Belluca riportandolo alla vita, alla riscoperta della natura, dei suoni, degli odori. Il treno della Partitura di Fabrizio Falco esordisce con un uomo prossimo alla morte che si “allena” a detestare la vita, passa per Una giornata che riassume una vita intera, dalla nascita fino all’epilogo, e termina in un impeto positivo e ottimista con il sig. Belluca che grazie a quel lontano fischio del treno si riaffaccia entusiasta alla vita e diviene consapevole della forza dell’immaginazione: sarà sufficiente immaginare/ricordare quel fischio per ritornare alla vita ogniqualvolta il sistema grigio, alienato e burocratizzato, fondato sulla falsa apparenza, dovesse imprigionarlo di nuovo. Una Partitura P da vedere che fa riscoprire la modernità di Pirandello e correre agli scaffali della libreria per rileggere, e conoscere, le sue Novelle. Assolutamente da vedere!
data di pubblicazione 03/04/2015
Il nostro voto:
da T. Pica | Mar 25, 2015
(Teatro Argentina – Roma, 18 marzo 2015/19 aprile 2015)
Al Teatro Argentina, si proprio al Teatro Argentina e non al Teatro dell’Opera o al Teatro La Scala di Milano, è in scena Carmen. L’opera secolare e indimenticabile di Bizet assume una veste completamente inedita. Anzitutto, al posto dell’orchestra tradizionale, tipica di ogni opera lirica che si rispetti, prende posto nel golfo mistico la poliedrica Orchestra di Piazza Vittorio che assume nella narrazione diretta da Mario Martone un ruolo fondamentale grazie all’espressività e la poliedricità dei suoi componenti. Subito dopo il golfo mistico dei musicisti – che mai come in questa occasione diviene simbolo del Golfo di Napoli come crocevia di culture, volti, colori e artisti provenienti da tutto il mondo – si sviluppa la scena, anch’essa inconfondibilmente rievocativa dei vicoli partenopei nonché dei paesaggi realizzati dagli artigiani di San Gregorio Armeno. Lo spettatore si imbatte nella Carmen gitana (magistralmente interpretata da Iaia Forte) alla quale fa da contraltare il “soldatino forestiero” del Nord Italia (Roberto De Francesco). La storia è tremendamente attuale e per nulla lontana dai tristi fatti di cronaca nera che vedono sempre troppo spesso le donne vittime dei loro compagni. Mario Martone e Enzo Moscato, con la complicità dei colori, dei suoni e delle voci dei musicisti dell’Orchestra di Piazza Vittorio rivoluzionano l’opera lirica di Bizet, che rimane appannata sullo sfondo. Le musiche riscritte per l’occasione, e solo in parte ri-arrangiate ispirandosi al pentagramma lirico, sono le vere protagoniste del ritmo della storia portata in scena e creano un connubio inscindibile con i colori sfavillanti e luccicanti (delle lampadine, degli abiti di scena) contrapponendosi alla drammaticità della storia e alla tragedia del femminicidio. Questo, infatti, si consuma durante il chiasso e le risate di una processione guidata dalla torre decisamente kitsch, dotata di Madonnina illuminata, dalla quale un cantante neomelodico e un cantante arabo (forse tunisino o egiziano) – anch’esso decisamente neomelodico – intrattengono la folla dei “devoti” napoletani. Il tema della malavita, della disperazione, della “stupidità” dell’amore che supera il limite degenerando in gesti tragici, della rassegnazione di chi è nato e cresciuto nella Napoli arida dei sobborghi e, solo per questa circostanza storico-temporale-geografica, non fa nulla per provare a migliorare, a ribellarsi ad essere migliore, sono ben sintetizzati nella rappresentazione. L’Opera, però, prende inoltre le distanze dai Libretti di Bizet perché la Carmen di Martone non muore, non tace bensì, per mano del folle amante Josè, viene soltanto resa cieca. E così Carmen, seppur privata dei suoi luminosi occhi azzurri, non rimane al buio, non rimane la silente vittima del suo amante-carnefice. Carmen vive ed con le sue parole, le sue denunce, continua e continuerà a dar voce al suo pensiero che è sempre stato profondo a dispetto della sua immagine superficiale di prostituta. Carmen dunque come donna viva e pensante, forte, diviene il messaggio di speranza e di lotta avverso i soprusi e le violenze contro le donne e il femminicidio. Nella rappresentazione, purtroppo, non convince l’interpretazione del personaggio di Josè, un po’ giù di tono, spento, che non corrisponde al Josè mosso dalla cieca passione omicida per la sua Carmen. L’Opera realizzata dal talento di Martone e Moscato catalizza sicuramente l’attenzione per tutti i 75 minuti ma, forse, il merito va principalmente alla bellezza e al ritmo delle composizioni musicali (accompagnate da una valida Iaia Forte in veste di cantante) che rievocano non solo atmosfere gitane ma anche arabeggianti quasi a ricordare proprio quelle Terre in cui ancora troppo spesso alla donna è negata voce, è negato spazio, nella famiglia come nella società, in nome di un finto ed ottuso rispetto.
data di pubblicazione 25/03/2015
Il nostro voto:
da T. Pica | Mar 23, 2015
“Tesoro ma non hai cenato?” … “si ma ora ho fame!”. Con questo scambio finale di battute tra madre e figlia (Anna Galiena e Jasmine Trinca) volgono al termine gli ultimi minuti del nuovo film diretto da Sergio Castellitto che si svolge nel tempo di una serata a cena fuori tra una coppia in crisi. Nessuno si salva da solo riporta sul grande schermo un tema caro ai registi italiani degli ultimi anni, ovvero quello delle nuove famiglie dei trentenni contemporanei: coppie sempre troppo spesso segnate dallo scontro tra passione e precarietà – d’animo e lavorativa – che finisce con il rendere il nucleo familiare sempre più fragile e utopistico. Gaetano e Delia (i 2 protagonisti interpretati da Riccardo Scamarcio e Jasmine Trinca) appartengono a due realtà familiari socialmente diverse eppure uguali: nell’infanzia e nell’adolescenza di entrambi ha inciso il peso di figure genitoriali che sotto profili differenti sono state tradizionali e al contempo anomale e che, in modi diversi, li hanno segnati profondamente. E proprio questo è il primo messaggio del film: la famiglia ci segna. Se un genitore o entrambi, anche in buona fede o semplicemente per distrazione, ci provocheranno un trauma ecco che quel gesto, quell’episodio, il clima domestico ci segnerà per sempre e segnerà quello che proveremo a costruire come compagno/a, come marito/moglie e come genitore. Accanto al “giuoco delle parti” dei personaggi delle famiglie dei due protagonisti, nella narrazione della loro storia assume un peso specifico l’elemento del cibo – ma per fortuna con sfumature decisamente soft rispetto a quelle dell’ultimo lavoro di Saverio Costanzo, Hungry Hearts -: i sintomi di un’intolleranza alimentare sono l’occasione che fa incontrare il “tamarro” Gaetano con la nutrizionista Delia; i di lei problemi con il cibo durante il liceo – scaturiti dalla presenza troppo sexy, femminile e ingombrante della mamma (un’impeccabile Anna Galiena nel ruolo di madre, nonna e suocera). E, prima di tutto, è proprio una cena al ristorante – apparentemente finalizzata all’organizzazione delle prime vacanze estive da figli di genitori separati dei piccoli Cosimo e Nicola – a dare inizio alla narrazione della loro storia d’amore. Che la sceneggiatura di Margaret Mazzantini proiettata sul grande schermo grazie all’occhio sensibile di Sergio Castellitto, che si destreggia come piace e lui tra continui flash back, avrebbe colpito lo spettatore e che Nessuno si salva da solo non potesse lasciar indifferenti era ovvio. Tuttavia, questa volta la storia non convince fino in fondo: Gaetano non persuade come grande innamorato di Delia, considerato che cade nel banale clichè tradendola con la biondina svampita, sciocca e sbiadita. Così come non convince l’interpretazione di Scamarcio – rigido nella sua immagine a volte un po’ troppo piena di sé – e di Jasmine Trinca (sicuramente 10 e lode per i primi piani dei suoi occhi che riempiono i silenzi del film) la quale affettata in una recitazione talvolta troppo di maniera finisce con il mangiarsi le parole fino a non rendere nell’unico momento di sincerità in cui Delia – rigida, dura e bugiarda anche con se stessa – scoppia a piangere con rimmel colato. L’interpretazione dei due attori non tocca tutte le corde giuste e non arriva fin dove Castellitto è capace di arrivare (come fece, ad esempio, con Penelope Cruz in Non ti muovere). Un po’ frettoloso il ruolo del deus ex machina affidato ai personaggi di Roberto Vecchioni accompagnato dalla splendida e magnetica Angela Molina. Durante l’intera cena la coppia di mezza età, appassionata, sorridente e complice, fa da contraltare alla tensione, alle accuse, agli insulti con tanto di lanci di gelato in faccia della giovane coppia neo separata. E proprio l’uscita dal ristorante insieme ai due sconosciuti e i pochi tratti di strada percorsi con loro ascoltando il verbo filosofeggiante di Vecchioni diventano il tavolo in cui si rimescolano le carte della partita di cuore e sentimenti tra Gaetano e Delia. Alle 4 del mattino Gaetano accompagna a casa Delia, la bacia sulla guancia e ne va. Ed è così che a Delia, sotto le note e la voce toccanti Lucio Dalla, viene improvvisamente una gran fame: cibo e amore, cibo e passione. Perché il vero amore non fa venir solo le sdoganate “farfalle nello stomaco”, ma spesso quando lo incontri, o quando lo ritrovi, viene un sanissimo e gustosissimo appetito. E la poesia di Lucio Dalla di quell’“appetito” è la colonna sonora per eccellenza.
data di pubblicazione 23/03/2015
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da T. Pica | Mar 6, 2015
(Teatro dell’Orologio, Roma – 5/8 marzo 2015)
Fragile. Con questa parola scritta sullo schienale di una vecchia poltrona si accendono le luci sull’Edipus rielaborato in chiave decisamente originale da Leo Moscato con la stupefacente interpretazione di Eugenio Allegri. Un unico protagonista sul palco per rappresentare la tragedia greca per antonomasia attraverso il metateatro. Inizialmente pare che vada in scena la storia di un attore che, abbandonato dalla prima attrice della sua compagnia teatrale – e via via dall’intera compagnia di attori – si ritrova malinconico e un po’ posticcio a rappresentare, sotto la regia maldestra di un distratto “ragazzo”, una versione rocambolesca dell’Edipo. Dopo pochi istanti di smarrimento, però, ecco che quello che apparentemente sembrava un attore di commediole sul viale del tramonto lascia tutti esterrefatti. Da solo veste i panni di tutti i personaggi della tragedia: il re Laio, la regina Giocasta e Edipo e il coro del popolo di Tebe. Una rappresentazione surreale dove il protagonista da vita con estrema credibilità e trasporto ai 3 personaggi chiave dell’Edipo con la sola “complicità” dei fantocci che a rotazione assumono le fattezze dell’uno e poi dell’altro personaggio per fargli da spalla. L’intero spettacolo, recitato con un linguaggio nuovo, frutto dell’abile commistione della lingua latina con il dialetto lombardo/veneto e qualche parola della lingua italiana corrente e colorita, riesce a dare una veste nuova alla tragedia lasciandola al contempo immutata. Anche nell’epilogo il protagonista (ovvero il solo membro superstite della compagnia teatrale “unipersonale”) dismessi i panni dei personaggi rappresentati torna a rannicchiarsi sulla vecchia poltrona con la scritta “fragile” e si rimette sul naso la sfera rossa del pagliaccio. Fragile è l’animo umano, fragili sono i sentimenti, fragili sono le passioni che muovono gli eventi tragici e lieti, fragile è l’arte dell’attore come ahimè troppo spesso è fragile il rispetto e l’attenzione riservata dalla società al mestiere dell’attore e al Teatro.
Ma l’Arte non demorde e contro quella fragilità, sdrammatizzata proprio da quel pallino rosso sul naso del commediante – come a dire “anche io non mi prendo troppo sul serio nel rappresentare la tragedia di Edipo” – e ribadita orgogliosamente sulla poltrona come ad avvisare “attenzione, trattare con cura, con il giusto rispetto riservato alle cose delicate e preziose”, si sfodera l’energia, la forza, la brutalità delle passioni e delle parole che hanno reso indimenticabile fino ai giorni nostri la tragedia di Edipo portata abilmente in scena al Teatro dell’Orologio.
data di pubblicazione 06/03/2015
Il nostro voto:
da T. Pica | Mar 4, 2015
(Caffè Letterario – Roma, 2 marzo 2015)
Nella vita – ci sono cose – nella vita – ci sono – cose – nella vita – molte cose – che non vorresti vedere – nella vita – ci sono cose – che non avresti mai immaginato – cose (…). Con questi fulminei tasselli di un mosaico vocale dal ritmato eco/rimbalzo tra le quattro attrici protagoniste, si apre la rappresentazione Mosaico di Donna – Vetustà scritto da Cecilia Bernabei. Il testo, espressione di un maturo lavoro di drammaturgia, incanta e regala al pubblico un ritratto universale ed eterno del significato di essere “donna” e della sua condizione immutata nel tempo attraverso i profili, a tratti classici e a tratti inediti, di cinque personaggi femminili appartenenti a paesi, epoche e contesti sociali differenti e lontani tra loro, ciascuno simboleggiato da un oggetto che ne sintetizza superficialmente l’immagine tradizionale tramandata dalla storia. I tasselli del Mosaico di Donna iniziano ad essere ordinati partendo da Penelope, la quale dopo aver ripetuto annoiata le sue famigerate qualità di donna forte e paziente tramandate nei secoli, finalmente da voce alla sua vera essenza, fatta anche di paure e fragilità. Penelope scende dal piedistallo dove era stata “imprigionata” come sommo esempio di virtù, di devozione assoluta e si confessa per quello che è: una donna complessa e semplice, una donna come tutte le altre donne. Con estrema lucidità si ribella alla (sola) immagine di moglie e madre perfetta confessando una sua debolezza che sino ad oggi è stata omessa (probabilmente) per mano di quel disperato bisogno patriarcale di tappezzare la storia e la società con il mito e la leggenda di donne stereotipate come virtuose e impeccabili. Fa poi il suo ingresso la debole, confusa e agitata Messalina. Dall’icona di donna balzata agli onori della cronaca e degli archivi storici esclusivamente per le sue trasgressioni, i suoi adulteri e le vendette di palazzo, la Messalina di Cecilia Bernabei si sofferma sui dolori, sui traumi subiti – non curati e consolati da amore e rispetto e per questo, poi, degenerati – da una quattordicenne costretta dall’imperatore Caligola a sposare un uomo trent’anni più anziano di lei, corrotto, zoppo (Claudio). Tuttavia, la luce fatta sulle sofferenze e i drammi interiori di Messalina non riescono a restituirle alcuna dignità e benevolenza tanto che persino il terzo personaggio femminile, Rosvita di Gendersheim, la condanna con il crocifisso tra le mani senza alcun accenno di perdono cristiano. Ma anche Rosvita, apparentemente dedita alla morigerata vita di Chiesa, non fu solo religiosa devozione a Dio. La poetessa si ribellò con discrezione, grazie alle sobrie spoglie dell’abito monacale e ai silenziosi corridoi dei monasteri, alla figura di donna sottomessa e silente per dare voce al suo pensiero e trattare, nonostante fosse una donna, temi osteggiati come il peccato, il demonio, la corruzione attraverso la scrittura e il Teatro, assumendo una veste eversiva per gli anni del buio Medioevo. E’ poi il turno dell’eterea Costanza D’Altavilla, una “lady di ferro”, emblema della razionalità stratega che così operò mossa dalla passione e dall’amore sconfinato di moglie e di madre; amore che poi si mostra al pubblico come la sua più grande debolezza: per amore divenne “schiava” del ruolo integerrimo di sovrano calcolatore, guida inarrestabile e tenace del suo popolo. A completare il Mosaico giunge la poetessa Christine De Pizan annunciatrice del progetto “La città delle Dame”: progetto estremamente attuale – e ancora oggi utopistico – di una città in cui accogliere tutte le donne che vogliano condividere le proprie storie, fatte di drammi, successi, sofferenze, soprusi e amore. Una città delle donne e per le donne che, grazie alla loro stessa forza, il loro coraggio, la loro pazienza, dovrà poggiare su fondamenta d’acciaio per accoglierle, sostenerle e proteggerle. Una città in cui si cureranno le ferite, tuteleranno i diritti e i sogni di tutte le donne (ancora oggi troppo spesso violati, infranti, calpestati e soffocati), si darà spazio al confronto delle esperienze per farne tesoro. C’è l’intero universo femminile in questo spettacolo strutturato in un atto unico da non perdere. Così come da non perdere è la lettura del testo che si spera di trovare presto nelle librerie!
data di pubblicazione 04/03/2015
Il nostro voto:
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