da T. Pica | Set 8, 2015
La magnificenza ancestrale dell’isola di Pantelleria è lo scenario della storia narrata da Luca Guadagnino con A bigger splash, nel remake del film francese La Piscina di Jacques Deary (1969). Quattro personaggi si ritrovano su un’isola selvaggia al confine tra l’Europa e l’Africa e gli equilibri iniziano a vacillare dal loro primo incontro. Da un lato, Marianne e Paul, fidanzati in vacanza nel tipico dammuso, dall’altro Harry e Penelope, padre e figlia a conoscenza del loro legame biologico da appena un anno. In questo quadretto con piscina, però, c’è (ancora) una coppia unita da una forza dirompente: quella di Harry (un bravissimo Ralph Fiennes) e Marianne (eterea Tilda Swinton), ex amanti uniti da una storia d’amore lunga sei anni durante e dopo la quale Harry è stato anche il produttore discografico della rockstar Marianne. L’affetto e la complicità viscerale che unisce Harry e Marianne e l’incapacità del primo di mettere la parola “fine” all’amore ancora forte per la “sua” artista sono parte del “fuoco distruttivo” alimentato dal vento caldo e polveroso dell’isola. Guadagnino, con una sapiente regia matura, forte e sicura, vuole raccontare la complessità dello stato delle politiche del desiderio fra persone mature e per farlo si avvale della quinta protagonista: Pantelleria. Un’isola che induce i quattro personaggi a far a cazzotti; un’isola che, anche fisicamente, non gli consente di scappare dai loro desideri costringendoli ad affrontarsi senza scampo anche con la realtà brutale degli abitanti dell’isola, tra i quali ci sono i rifugiati di guerra approdati miracolosamente con i barconi della disperazione. Fondamentale la scelta, suggerita dall’eterea Tilda Swinton al regista, di rendere muto per un fittizio problema di corde vocali il personaggio della rockstar Marianne così da creare un perfetto equilibrio con il logorroico Harry che con la sua instancabile chiacchiera, e nella sua fisicità (tra cui il suo meraviglioso momento dance), esercita una costante pressione psicologica sulla fragile coppia innamorata Paul-Marianne e, inconsapevolmente, sulla figlia. L’attenta osservatrice Penelope (Dakota Johnson), infatti, percependo in Marianne la sua “nemica”, colei che ha rubato il cuore e l’anima a un padre prima sconosciuto e ora emotivamente impreparato, inizia a tessere una tela di piccole provocazioni: con alcune vuole costringere Marianne a parlare, per strapparla al confortevole “rifugio” del suo finto mutismo, con altre, invece, tenterà di ferirla “rubandole” per qualche ora l’amore dell’introspettivo Paul (un immersivo Matthias Schoenaerts). Nel ristretto spazio del dammuso e della sua piscina cristallina – perché nell’acqua si rivela la vera natura dell’uomo finalmente libero – si compie l’implosione dei desideri delle due coppie fino all’apice della tragedia (velatamente e ironicamente anticipata dal gesto giocoso delle mani di Paul intorno al collo di Harry durante la prima cena del quartetto) che il regista, ispirandosi al Falstaff di Giuseppe Verdi, capovolge nel finale con le note dell’opera buffa. Per farlo si avvale del poliedrico Corrado Guzzanti nel ruolo del maresciallo dei carabinieri di Pantelleria perché in questa storia l’elemento umano doveva prelevare sulla legalità e pertanto la legge segue il sentire della massa, del pubblico dei fan della rockstar in luogo dei codici penali. Nonostante il passaggio del film verso i toni finali della burla lasci smarriti e spiazzati e la macchietta del carabiniere sia stata sicuramente stridente, A bigger splash è ben costruito e tutto il cast, avvolto nelle note dei The Rolling Stones, rende la storia ritmata e appassionante anche grazie alla fisicità dei loro gesti e dei loro nudi che li rendono credibili, così come credibile appare la complessità dei loro sentimenti, dei desideri, dei conflitti interiori e della complicità che li lega. Un film che diverte e rapisce da non perdere nell’autunno 2015!
data di pubblicazione 08/09/2015
VOTO: CI HA CONVINTO
da T. Pica | Set 6, 2015
Lascialo andare.Saper lasciar andare una persona, un ricordo, accettare una perdita: questo è il doloroso traguardo che lentamente e faticosamente Anna (l’intensa Juliette Binoche) riconosce a sè stessa al termine dei tre giorni trascorsi insieme alla giovane Jeanne (Lou de Laâge). Alla vigilia della Pasqua del 2004 due estranee, Anna Remigi e Jeanne, due francesi diversamente unite dall’amore per lo stesso uomo, si incontrano per la prima volta nelle terre siciliane del Ragusano: Jeanne è venuta da Parigi per trascorrere qualche giorno con il suo fidanzato Giuseppe, il figlio di Anna. Non appena giunta nell’elegante e decadente casa della famiglia Remigi, la giovane Jeanne percepisce un generale disagio, di non esser giunta al momento giusto e che qualcosa, ma non si comprende esattamente cosa, turba profondamente la madre del suo ragazzo e di coloro che le sono accanto. Ha così inizio L’Attesa di Anna e di Jeanne. Ma cosa attendono? Un evento, una consapevolezza, una persona, una novella. Piero Messina porta in concorso alla 72^ Mostra del Cinema di Venezia una storia, realmente accaduta nel 2006, raccontatagli da un amico qualche anno fa; una storia che, per la delicatezza e la sensibilità, ha toccato intimamente il regista al punto che un giorno ricordandola ha deciso di raccontarla con il suo primo lungometraggio. La non accettazione della morte e la difficile elaborazione di un lutto sono in simbiosi con le nebbie, il vento, l’invadente sole di una Sicilia barocca che talvolta appare, come ricorda nella conferenza stampa Giorgio Colangeli – interprete del personaggio Pietro, il factotum del casale Remigi il quale si rivelerà deus ex machina del racconto -, come una grande tomba. Il film, costruito su un simbolismo costante (l’acqua e l’abisso del lago, il bianco della calce sugli alberi di ulivo, il vestito rosso di Jeanne, le mani giunte della statua della Madonna, il bagno turco, le specchiere barocche oscurate da drappi neri), segue il sopito, lento ritmo della protagonista, Anna, la quale deve risvegliarsi dal suo torpore inerme scegliendo come continuare a vivere: aderire alla realtà, accettandola, oppure rifuggirla, negandola. L’ascensione di Anna, verso la resurrezione della sua anima, e di Jeanne, verso la comprensione della verità, coinciderà con il momento apicale della processione della notte del sabato di Pasqua. Un generale senso di mistero e indecifrabilità, proprio di ogni attesa importante, permea il realismo emotivo del film che, però, in alcune inquadrature, nei primi piani dei personaggi (e delle comparse), nel tappeto mobile di un aeroporto che fa da sfondo ai titoli iniziali e nei toni alti con cui alcuni brani della colonna sonora intervengono da protagonisti nella narrazione, risente dell’ormai inconfondibile stile di Paolo Sorrentino, di cui l’esordiente regista è stato aiuto in ben due film (This must be the place e La Grande Bellezza). Non manca qualche lieve svista registica come il frinire delle cicale nei giorni che precedono la domenica di Pasqua.
data di pubblicazione 06/09/2015
da T. Pica | Set 4, 2015
Italian Gangsters, a metà strada tra il documentario e il saggio, ripropone sul grande schermo uno spaccato della malavita nostrana di un tempo ormai perduto, in una sorta di tributo, quasi nostalgico, alla figura del criminale gentiluomo che ha segnato una parte della cronaca italiana tra la metà degli anni ’30 e la fine degli anni ‘60. In una realtà cinematografica, e non solo, che negli ultimi anni si è catalizzata sulle storie della criminalità del Meridione, la cinepresa di Renato De Maria ha montato, come in un collage, il copioso materiale video messo a disposizione dall’Istituto Luce per narrare la storia di alcuni giovani ragazzi, e delle loro rispettive bande, dediti al crimine tra Milano, Torino e Bologna. Si parla di banditi settentrionali doc – meno brutali e, per questo, meno noti rispetto a Vallanzasca – che negli anni del dopo guerra hanno mosso i primi passi di banditi in erba, parallelamente alla lenta ascesa dell’industria delle città in cui erano nati e cresciuti, fino al loro inesorabile declino tra la fine degli anni ’60 e gli anni ‘70. I racconti della banda Cavallero, Ezio Barbieri, Paolo Casaroli, Luciano De Maria, il bolognese Luciano Lutring e Horst Fantazzini, narrati in modo alternato per bocca di ciascun bandito attraverso i monologhi resi nella forma del teatro di posa dagli attori, tutti davvero bravi, presi in prestito al Teatro dal Regista, sono stati costruiti sulla base delle interviste che gli stessi malavitosi avevano rilasciato, all’epilogo delle loro “carriere”, a giornalisti come Idro Montanelli ed Enzo Biagi e dei giornali dell’epoca. Il tutto, poi, è movimentato e “colorato”, anche visivamente, dalle rocambolesche sequenze delle pellicole di genere, divenute veri cult, di Bava, Di Leo e Deodato in un continuo avvicendarsi con le immagini di repertorio e gli intensi primi piani dei banditi che ricordano le loro imprese, criminali e amorose. Buono l’accompagnamento musicale. Tuttavia il “docu-saggio” non suscita alcuna forma di reazione o coinvolgimento con le gesta di delinquenti ormai sbiaditi e poco pulp.
data di pubblicazione 03/09/2015
da T. Pica | Lug 30, 2015
(Roma, 30 luglio 2015)
Sotto una luna piena stregata Il Padrone della Festa celebra la conclusione del tour del trio Fabi Silvestri Gazzè nell’arena rock della città che ha dato i natali ai 3 cantautori romani.
Un concerto spettacolo durante il quale i 3 amici del Locale dietro piazza del Fico – dove hanno edificato la loro amicizia sperimentando, confrontandosi e crescendo umanamente e musicalmente insieme nonché con gli altri compagni storici Roberto Angelini e Alex Britti – non si sono risparmiati e in oltre 2 ore e mezza di show, nel senso più alto termine, hanno regalato agli oltre 20.000,00 fans emozioni e risate ripercorrendo i brani degli esordi, quelli che ormai sono “classici” della discografia italiana, le hits degli ultimi anni fino ai successi della loro opera prima come “collettivo” ovvero Il Padrone della Festa. Pur essendo un concerto di “addio” come “band” – da oggi ognuno riprenderà la propria strada di cantautore solista – è stata a tutti gli effetti una grande festa, fatta di racconti, di ricordi, aneddoti, sketches condivisi con il pubblico. La serata si apre con Alzo le mani tratta dal loro album, poi i 3 ragazzi si cimentano ciascuno con un proprio brano degli esordi. Si continua in una vera escalation delle più belle foto “dell’album di famiglia” e a sorpresa Niccolò Fabi canta il brano Mentre Dormi di Gazzè, quest’ultimo si cimenta in E’ non è di Fabi, entrambi con un’intensità che per qualche istante ti fa credere che stiano cantando un proprio brano tanto profondo è il feeling e la sensibilità che li lega.
Il palcoscenico si trasforma poi in un ring esilarante per l’incontro di pugilato “Fabi/Gazzè” moderato dallo spassoso arbitro Silvestri in una versione live ricca di sorprese e gags del brano L’Avversario. Dal live de Il Padrone della Festa ogni spettatore, oltre a scatenarsi nel viaggio delle parole e delle note che hanno segnato gli ultimi 18 anni di musica italiana insieme ai bimbi di 5 anni che cantano tutte le canzoni sulle spalle dei papà, viene una gran voglia di condividere e di fare progetti, di lavorare in squadra perchè, per dirla come direbbero la coppia Mazzantini/Castellitto, “nessuno si salva da solo”! Non c’è alcun dubbio: Fabi Silvestri e Gazzè sono i mattatori della musica cantautorale italiana; per bravura, sensibilità, passione, affiatamento, amore tra loro, per il loro lavoro e per il pubblico, in tanti frangenti è stato come rivedere i 3 mattatori Gassmann Manfredi e Tognazzi. Speriamo, quindi, che il concerto di ieri sera sia soltanto un “arrivederci” e che lo sguardo incantato di Niccolò (che a fine concerto non riusciva ad abbandonare il palco completamente rapito dal colpo d’occhio della folla entusiasta), quello “Sornione” di Daniele e il sarcasmo di Max nella sua armatura saracena tornino presto a esibirsi istrionici nei loro virtuosismi alla chitarra e al basso, regalandoci nuove composizioni a 6 mani.
data di pubblicazione 30/07/2015
da T. Pica | Lug 21, 2015
Tra le “casse armoniche” di Renzo Piano spiegate come vele nel cielo che lentamente imbrunisce senza un alito di vento si diffondono le note dell’inconfondibile sound di Ben Harper & The Innocent Criminals. Su un palco minimale l’artista internazionale, tra i più grandi chitarristi viventi degli ultimi anni, si presenta al pubblico come un vecchio amico tornato a trovarci ed è subito palpabile la confidenza e l’atmosfera intima quando si intrattiene per raccontarci subito la sua emozione durante la visita mattutina alla Cappella Sistina. Ultimati i saluti, il “nostro” amico sistema sgabellino e microfono, adagiati su due tappeti dal sapore persiano e vintage, e inizia una lunga “chiacchierata” con quelli che ormai non sono solo classici del suo repertorio, ma della musica mondiale. Da Welcome to the Cruel World, passando per Glory & Consequence, Steal My Kisses, Fight for Your Mind, Diamonds on the inside, fino ai ritmi di With My Own Two Hands che manda tutti gli spettatori in visibilio. Difficile davvero rimanere composti nelle proprie sedute e allora ecco che tutto il pubblico si lancia come in un grande abbraccio verso Ben e gli Innocent Criminals sotto il palco e lungo le gradinate della Cavea ballando e cantando. Non mancano poi le forti emozioni durante l’interpretazione a cappella Amen Omen e la versione acustica di Walk away. Insomma, per quasi due ore il frinio delle cicale del parco confinante di Villa Glori è stato soltanto il tenue sottofondo dei virtuosismi vocali e musicali di Ben e delle simpatiche “canaglie” della sua band che per bravura, espressività e passione rievocano i volti storici dei musicisti di New Orleans e dell’Alabama.
Appagati nel cuore e nello spirito, e nuovamente sopraffatti dalle instancabili cicale romane, dobbiamo solo attendere che l’amico Ben torni presto a trovarci nel “salotto” sotto le stelle della città eterna per presentarci il nuovo album in fase di stesura!
data di pubblicazione 21/07/2015
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