da T. Pica | Ott 20, 2015
Durante le torride giornate estive che si susseguono identiche a tante altre a Casteljaloux, nel Sud Ovest della Francia, la tranquillità del piccolo borgo, e in particolare quella di Chantal (Céline Sallette) e del suo nuovo compagno Jacky (Eric Cantona), viene interrotta dal ritorno di Jeannot (un bravissimo Sergi López). L’uomo, logorroicamente alticcio a tutte le ore, ha scontato tre anni di prigione ed è tornato per riprendersi ciò che “gli appartiene”, ovvero l’“amata” Chantal. Il dramma della gelosia e della possessività dell’amore malato palpitano all’unisono in una vera e propria tragedia greca moderna. Alla semplicità e alla bellezza struggente dei paesaggi e degli scorci della campagna francese – le distese di girasoli raggianti, i notturni di luna sul lago – e ai ritmi pacati e sereni della vita del paesino bucolico si contrappone un costante pathos, carico di una latente violenza prossima all’esplosione, dettato dall’ossessione di Jeannot per Chantal e per chiunque altro osi chiamarla Chantal. A far da contorno alla storia il personaggio del giovane Romain (Victorien Cacioppo) che frequenta il corso di teatro di Chantal per preparare un provino decisivo. L’esordio alla regia di lungometraggi dell’attore Laurent Laffargue, seppur con qualche perplessità proprio sulla storia in secondo piano del giovane Romain e dei suoi compagni di corso – dove si inserisce il cameo come attore di Laffargue -, convince e risente inevitabilmente dell’esperienza teatrale del regista. Les Rois Du Monde è indubbiamente ben interpretato da tutti gli attori e la dolorosa storia di Chantal, purtroppo sempre attuale, angoscia anche lo spettatore tra pochi ed istantanei momenti di humor, tipicamente d’oltralpe, e i toni della tragedia che culminano nell’epilogo omerico di Achille che trascina il corpo di Ettore.
data di pubblicazione 20/10/2015
da T. Pica | Ott 19, 2015
La matricola Tracy (Lola Kirke), approdata alla Grande Mela per studiare al College, non riesce a trovare la sua dimensione, accademica e umana, come aspirante scrittrice in una città e in un ambiente universitario che non sembrano ricambiare le sue aspettative e le sono ostili. Brooke (Greta Gerwig), trentenne tuttologa si occupa di tutto e di niente; è sempre al verde ma progetta, nell’ordine, di aprire un ristorante con all’interno tante altre attività, la propria vita di moglie e madre vestale del focolare (pur essendo single) e fa public relations su Twitter e Instagram. In questa fase di comune difficoltà e smarrimento Tracy e Brooke si incontrano, complice l’imminente matrimonio tra i loro genitori fissato per il giorno del Ringraziamento. Le due protagoniste, prossime a divenire sorellastre, appartengono a due generazioni diverse, così come diverso è il loro modo di approcciare la vita, progettare e relazionarsi con il prossimo. Eppure, nella frenetica New York che si prepara al Thanksgiving Day, le due aspiranti sorelle entrano fin da subito in sintonia. Una sintonia dettata non dalla convenzione della futura (eventuale) parentela acquisita, ma dalla sensibilità con cui, sotto la maschera delle ragazze/donne determinate e sicure di sé che non si accontentano, si “riconoscono” nella massa avvertendo, inconsciamente, di poter contare l’una sull’altra e si sostengono seppur ciascuna con i propri limiti. Mistress America – che poi è anche il titolo del breve racconto scritto da Tracy ispirandosi a Brooke con cui l’“anonima” matricola sarà ammessa al circolo universitario dei letterati delle valigette – è un film divertente, ben articolato, dai dialoghi tanto spassosi quanto veri. Tra le luci colorate delle avenues newyorkesi e le irresistibili musiche elettroniche anni ’80 composte da Dean Wareham e Britta Phillips – quasi cucite addosso al look in perfetto stile “Sophie Marceau” di Tracy – il film pone l’accento sull’incomunicabilità e la competizione tra i giovani e sulla generale sensazione di disagio e inadeguatezza offerta dalla società moderna ai ventenni e ai trentenni che vogliono farcela da soli in America, come in ogni altra parte del globo, con la giusta leggerezza ed ironia. Tra dialoghi pungenti, battute geniali – sono quelli che non hanno niente da fare tutto il giorno che ti dicono di essere sempre impegnati e non avere un minuto di tempo per te – e qualche nota che strizza l’occhio alla lacrimuccia, Mistress America ribadisce un’amara verità: coloro che, come Tracy e Brooke, non si adeguano al “modello” di chi rinuncia a mettersi in gioco e a rischiare – spaventato/a dalla competizione anche all’interno di una relazione di coppia – in favore della tranquillità dell’“accontentarsi”, sono inevitabilmente destinati a rimanere isolati.
data di pubblicazione 19/10/2015
da T. Pica | Ott 10, 2015
(Teatro Argot Studio – Roma, 6/18 ottobre 2015)
Una Fata-Farfalla, appena uscita dal suo bozzolo dove ha studiato assennata per 20 giorni, si affaccia alla vita in un bosco rigoglioso, carico di colori e di speranza: il mondo. Un manuale è tutto quello che ha per gestire al meglio la sua vita lunga un solo giorno e per imparare a usare le sue splendide ali. La vita della protagonista di Effimera (una bravissima Dacia D’Acunto), il monologo inedito di Stefano Benni presentato al Teatro Argot, è un impeccabile sunto della vita dell’uomo. Soltanto che Dacia D’Acunto è talmente credibile come fata-farfalla, o streghetta del bosco, che nelle ultime battute dell’opera pensi: “ma una farfalla mi sta aprendo gli occhi sulla cecità e l’ottusità degli uomini e su quanto tempo sprechiamo inutilmente?”. Ebbene si.
Il monologo di Benni, dal linguaggio come sempre geniale, carico di ironia – Nessun fiore regalerebbe mai un uomo alla sua ragazza -, cinismo, parole inventate e costruite creando un nuovo vocabolario dell’assurdo, condensa nell’unico giorno di vita della Fata-Farfalla quello che l’uomo pigramente a volte compie solo in parte durante la sua intera esistenza. A rendere simili La vita fugace e quella apparentemente infinita, rispettivamente, della Farfalla del bosco e degli uomini ci sono i desideri: il “desiderio” è il topos del monologo. Ci sono desideri semplici, altri più complessi, desideri neri, ma comunque non vi è essere della Terra che non trascorra la sua vita alimentando, perseguendo, realizzando, distruggendo desideri. Il desiderio come motore delle nostre giornate, fonte di fantasia. Ma il desiderio, per la nostra pigrizia e le nostre paure, si tramuta spesso in una pericolosa “rete” in cui non la ragazza-farfalla, che consapevole della sua brevissima vita non ne sprecherà nemmeno un istante, bensì l’uomo cade facilmente sprecando il suo tempo apparentemente infinito. Quanto tempo sprechiamo a desiderare per poi rimandare a un altro giorno la realizzazione di ciò che vorremmo? Quanto tempo sprechiamo a immaginare cosa vorremmo e potremmo fare, come realizzare un desiderio per rimanere paralizzati nello “stagno” del “poi ci provo” e accorgersi che invece “domani” è troppo tardi? Con la sua leggerezza, con i suoi occhioni incorniciati nei capelli rosso rame Fata-Farfalla scruta il mondo, le sue meraviglie per assaporare ogni istante e meraviglia della vita e nella sua semplicità vitale prova a destarci dal nostro torpore, dalla pigrizia con cui viviamo nell’inganno di una vita infinita. Forse il giusto compromesso potrebbe essere un mondo tra l’effimero e l’infinito, dove non si muore ma si resta incantati. Ma, appunto, è una realtà utopistica, un lusso che non possiamo permetterci e per questo dobbiamo vivere come ci insegna l’Effimera Farfalla ormai donna.
data di pubblicazione 10/10/2015
Il nostro voto:
da T. Pica | Ott 8, 2015
(Piccolo Eliseo – Roma, 8 ottobre/1 novembre 2015)
Una sorprendente Iaia Forte porta sul palcoscenico appena restaurato del Piccolo Eliseo di Roma un incorreggibile e spregiudicato Tony Pagoda. L’emblema del machismo partenopeo, frutto della “penna” di Paolo Sorrentino con il romanzo Hanno tutti ragione, si muove sul palco attraverso il camaleontico corpo di un’attrice decisamente femminile e intensa. Il pubblico del teatro diviene il pubblico dell’evento top della carriera del cantante melodico Tony Pagoda: il concerto al Radio City Music di New York al cospetto nientepopodimeno di Frank Sinatra in persona! La cocaina, l’alcool, il disprezzo per tutte le comuni banalità con cui tutte le persone conosciute “hanno ragione” ispirano il flusso di coscienza dell’apparentemente arido cantante. E così nell’attesa tra le quinte e il camerino e sul palco del Radio City Music al cospetto della leggendaria The Voice, Tony si scatena: tra una canzone e un ballo esibizionista da voce ai suoi ricordi, alle sue gesta di latin lover senza scrupoli. Ma, tra una sigaretta e una canzone, tra un apprezzamento colorito e le irresistibili considerazioni ciniche, Tony svela anche il suo lato fragile e umano di uomo romantico ancora, e per sempre, innamorato di un’unica donna: Beatrice; di uomo “ispirato” dalle sfumature, che solo un’anima sensibile può vedere e apprezzare. Ma non c’è modo di trovar pace. E così, dopo la sconvolgente emozione dell’incontro con Frank Sinatra che lo va a salutare in camerino dopo il concerto, Tony è inevitabilmente attratto dalla “calamita” dell’effimero peccaminoso e non può che abbandonare l’estasi della realizzazione di un sogno, l’idillio del successo canoro, per precipitarsi nel torbido dell’insoddisfazione perenne – del resto il successo sta sul cesso – abbandonandosi ad una solitaria notte brava con 3 prostitute che poi, però, si risolve in una fonte di riflessioni e di bilanci sulla sua vita: tutto è stato troppo…o troppo poco. I temi dell’effimero, dell’apparenza, del sogno come ritorno all’infanzia e delle fragilità umane ricorrono nella rappresentazione dei primi due capitoli di Hanno tutti ragione. La solitudine, contrastata perseguendo in tutte le sue possibili forma la “comunicazione”, e la debolezza di un uomo che, fin dalla scomparsa dei suoi genitori, è cresciuto celando la sua sensibilità e l’amore per le sfumature della vita dietro un’ostentata sicurezza fatta di gestualità volgare e pacchiani anelli d’oro; l’asfissia della mondanità vissuta galleggiando in apnea, il percepirsi come un uomo che è una vita che manca, riflettono il malessere dello sfavillante Tony Pagoda che altro non è che la caricatura di se stesso e di tutti quegli uomini che “armati” di machismo e bullismo testosteronico, tendono, per una puerile vergogna, a insabbiare le ferite e le fragilità dell’anima sminuendo continuamente la donna e la vita. Ovviamente è geniale che dietro un simile maschilista e la sua tracotanza ci sia Iaia Forte che parla, gesticola e balla proprio come farebbe Mr. Pagoda. Soltanto durante la simbolica narrazione dell’atto sessuale tra Tony e le 3 prostitute si percepisce che dietro quel macho c’è la bravissima Iaia Forte con le sue movenze e i passi gitani rievocativi della Carmen di Enzo Moscato che ha interpretato nella scorsa stagione teatrale. Ma non è tutto. Iaia “Pagoda” è anche una vera cantante che incanta e coinvolge un pubblico emozionato in una versione davvero intensa di Nun è peccato. Una grande prova di teatro da non perdere!
data di pubblicazione 08/10/2015
Il nostro voto:
da T. Pica | Set 22, 2015
Con il film Per amor vostro Giuseppe Gaudino, regista e cosceneggiatore poliedrico, ha realizzato un affresco di Napoli passionale, misterioso e torbido, decisamente visionario e vero.
La “devozione” e l’incomunicabilità avvolgono l’intera storia di Anna (Valeria Golino), che poi altro non è che la storia di Napoli. Anna si sente una cosa da niente e “sopravvive” in un vortice alimentato dal suo innato senso di abnegazione per gli altri. In questa affannosa quotidianità trascorsa in bilico e solo talvolta scossa dal vento che soffia dal mare (il cambiamento), Anna si è dimenticata di se stessa, nasconde la sua bellezza, vede tutto grigio in una passiva rinuncia alla vita. La protagonista parla con i suoi occhi e quando è insieme ai suoi 3 figli, tra cui Arturo sordomuto, alimenta sempre il dialogo anche attraverso la musica e con il linguaggio dei segni; invece quando torna a casa suo marito, il violento Giuseppe Scaglione (Massimo Gallo), si ripiomba nel dramma dell’incomunicabilità e Anna torna prigioniera di un mutismo soffocante che la rende inconsciamente complice dei traffici illeciti del compagno. In questo degrado esistenziale, l’abnegazione di Anna per il prossimo comincia a vacillare quando il bel Michele Migliaccio (Adriano Giannini), il protagonista della soap opera per la quale Anna lavora come “gobbo” responsabile della stesura dei cartelloni con le battute degli attori, inizia a gratificarla prima come professionista e, poi, come donna, regalandole emozioni e sensazioni ormai sopite. Si innesca così un dualismo tra l’illusione del rifugio patinato delle quinte del set e la grigia, amara realtà familiare che scuote profondamente Anna fino a lacerarla in un’ascesa ancestrale verso il ritorno alla vita e ai colori, verso la riconquista della propria dignità e il coraggio di cambiare le cose. L’affrancazione di Anna dal male è veicolata da quello che appare come un possibile nuovo “amore”, ma passa attraverso gli “inferi” egregiamente rappresentati da Gaudino tra le catacombe di Napoli, le grotte popolate di ossa, teschi, lumini e sbiadite immagini sacre fino ai fumi della solfatara di Pozzuoli. La devozione di Anna, bella, spenta e timorosa, si fonde con la devozione di Napoli per la Madonna e San Gennaro, per le superstizioni, con una città dove sembra che tutti sopravvivano e non vivano, facendo finta di non vedere il marciume. Finzione e realtà si dissolvono in un’unica dimensione che si rivela nella sua essenza solo alla fine della storia sorprendendo lo spettatore. Il sacro si mescola con un profano primitivo anche attraverso il simbolismo onirico delle colombe bianche, dell’acqua che investe i piedi di Anna e che scende sui volti delle “anime dannate” che “popolano” il suo sonno e suoi pensieri rendendo palpabile l’ansia, l’angoscia e i turbamenti con cui la protagonista, trattata come “una cosa da niente” fin dall’infanzia, lotta per ritrovare la sua libertà. Con Per amor vostro Gaudino esprime una regia sicuramente innovativa, contaminata di neorealismo e con qualche sfumatura noir, realizzando un film a tratti allegoria che deve molto alla bravura del cast e in particolare all’interpretazione di una Valeria Golino – in tre momenti graficamente “convertita” nell’affresco di una Madonna -, la quale rievoca alla memoria un’altra “mamma intensa”: l’inarrivabile Anna Magnani.
data di pubblicazione 22/09/2015
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