da T. Pica | Lug 24, 2016
(Taormina, 2 luglio 2016 – serata Rai Uno, 23 luglio 2016)
A chiusura della stagione cinematografica settembre 2015/giugno 2016, come ogni buona stagione o anno scolastico che si rispetti, si tirano le somme e si danno le “pagelle”. I “professori” sono i membri del Sindacato Nazionale dei Giornalisti Cinematografico i quali, presieduti dall’energica Laura Delli Colli, hanno in gran parte confermato gli orientamenti dei Premi David di Donatello 2016. A presentare la serata da una cornice storica e intensa la giovane Matilde Gioli, scoperta da Virzì nel film Il capitale umano, che come una fatina tutta d’argento vestita ha condotto con professionalità la premiazione.
La pazza gioia di Paolo Virzì si è aggiudicato sei Nastri su dieci candidature: per la regia, per le migliori attrici, Valeria Bruni Tedeschi (vincitrice poi anche del Nastro per lo Stile) e Micaela Ramazzotti, per i costumi e la sceneggiatura condivisa da Paolo Virzì con Francesca Archibugi. Il film di Virzì pare aver ormai siglato un profondo legame e amore tra le due protagoniste, così come una vera amicizia e un legame d’affetto speciale è stato manifestato tra i due attori Luca Marinelli e Alessandro Borghi destinatari in comunione del Nastro d’Argento Persol per Personaggi dell’anno con il film Non essere cattivo di Claudio Calligari ai quali la platea dell’Anfiteatro e i due giovani talenti del cinema italiano hanno dato il loro commosso saluto. Non essere cattivo è stato anche premiato con il Nastro Miglior film dell’anno. Sempre Alessandro Borghi si è visto assegnare il nuovo Nastro Rivelazione dell’anno, intitolato al ricordo della talent scout agente di attori come Claudio Santa Maria e Stefano Accorsi, Graziella Bonacchi. Con il film Io e lei Maria Sole Tognazzi (insieme a Marciano e Cotroneo) si è aggiudicata il Nastro per il miglior soggetto e il Premio Nastri-Porsche Tradizione e Innovazione. Greta Scarano e Luca Marinelli, rispettivamente con Suburra e Lo chiamavano Jeeg Robot, sono stati premiati con i Nastri per i Migliori attori non protagonisti. Stefano Accorsi si aggiudica il Nastro come miglior attore protagonista per Veloce come il vento, mentre le sua coprotagonista, la giovanissima Matilda De Angelis è stata segnalata con il Biraghi per gli attori alla prima affermazione. Gabriele Mainetti, con Lo chiamavano Jeeg Robot, ha vinto il Nastro come Miglior regista esordiente. Il palco si affolla quando ai magnifici 7 protagonisti di Perfetti sconosciuti, con il regista del film Paolo Genovese e la squadra dei produttori (Marco Belardi, Raffaella Leone, Giampaolo Letta), è andato il Nastro speciale per il miglior cast insieme a quello per la canzone, andato a Fiorella Mannoia coautrice oltreché interprete con Chiodo e Bungaro. Il regista Paolo Genovese ha dichiarato di essersi sentito il Leonardo di Caprio del cinema italiano che dopo esser stato in nomination per 7 anni è riuscito finalmente a vincere il Nastro, paragonabile appunto all’Oscar hollywoodiano. Perfetti sconosciuti si è anche aggiudicato il Nastro per la miglior Commedia dell’anno. Tra gli altri premi speciali si ricorda il Premio Nino Manfredi, consegnato dalla moglie Erminia, a Carlo Verdone e Antonio Albanese per il film L’abbiamo fatta grossa. Juliette Binoche ha ringraziato con un video messaggio inviato dalla sua tournee francese l’assegnazione del Nastro europeo per L’attesa di Piero Messina, che le ha regalato l’occasione di un viaggio personale interiore straordinario. Infine Piero Valsecchi, premiato con il Nastro Miglior produttore, per Chiamatemi Francesco, Non essere cattivo e Quo vado?, si è tolto un sassolino nei confronti di quella critica giornalistica e di quegli addetti ai lavori che snobbano o criticano Checco Zalone ed ha sentenziato che il suo talento e il valore delle sue opere sarà riconosciuto dai posteri.
Che dire, il Cinema italiano pare aver messo quest’anno tutti d’accordo e le nuove leve del grande schermo sembrano davvero intimamente rispettose dell’arte del mestiere dell’attore e unite senza invidie e scaramucce da divi immaturi. La commedia è tornata in auge e tutto il cinema italiano sembra prometterci ancora grandi sogni, emozioni, risate e speranza per le prossime stagioni.
data di pubblicazione: 24/07/2016
da T. Pica | Mag 12, 2016
Chi non ha sognato, almeno una volta nella sua vita, di vivere libero come il piccolo Mowgli de Il Libro della Giungla? Dopo generazioni cresciute ascoltando e fantasticando sulle storie dell’opera letteraria di Rudyard Kipling, poi divenute per la memoria visiva di tutti quelle narrate dal cartone di Walt Disney, finalmente le avventure di Mowgli sono approdate al lungometraggio. Il Libro della Giungla di Jon Favreau colpisce per la straordinaria bellezza delle immagini, dei paesaggi, della natura e della sua forza emozionante o distruttiva quasi in simbiosi con i sentimenti che pervadono gli abitanti delle giungla. La storia del piccolo cucciolo d’uomo, ben interpretato dal giovanissimo Neel Sethi, adottato dalla Lupa Raksha – nome che in sanscrito vuol dire “protezione” – e cresciuto nel branco dei lupi come uno dei loro cuccioli, non diverge molto dal racconto del cartoon, fatta eccezione per alcuni particolari tra cui la morte del lupo Akela presente solo nel film. Durante la lunga siccità che ha messo in ginocchio tutti gli animali della giungla, la spietata tigre Shere Khan – doppiata nella versione italiana dall’impeccabile Alessandro Rossi –, accecata dal desiderio di vendetta, dichiara guerra a Mowgli, colpevole solo di essere il figlio dell’uomo che anni addietro gli cagionò la perdita di un occhio, e dichiara aperta la sua caccia non appena la tregua della “pietra della pace” cesserà con il ritorno delle piogge. Ha così inizio il viaggio di Mowgli verso il villaggio degli uomini dove Bagheera – Ben Kingsley nella versione originale, mentre nell’adattamento italiano incanta con la voce di Toni Servillo -, la pantera nera che lo aveva ritrovato abbandonato ancora in fasce nella giungla e lo aveva salvato affidandolo al branco dei lupi, ha deciso di riportarlo per proteggerlo dalla “persecuzione” di Shere Khan. In questo viaggio Mowgli crescerà ma non diventerà un uomo che cade nella “tentazione” del fiore rosso, la temuta arma del fuoco che spesso per colpa degli uomini devasta la natura della giungla mietendo vittime. Infatti, non entrerà nel villaggio dei suoi simili e dopo essere scampato alle grinfie del serpente Ka (Scarlett Johansson e Giovanna Mezzogiorno) e al rapimento del gigante orango King Louie (con la voce Cristopher Walken e, nella versione italiana, di Giancarlo Magalli), il cucciolo d’uomo fronteggerà coraggiosamente la tigre Shere Khan per l’ultima resa dei conti senza agire con le “armi” dell’uomo bensì con la destrezza e il coraggio proprio di un lupo.
Il film è uno spassoso alternarsi di messaggi positivi, momenti ironici e ludici con momenti toccanti, il tutto ben miscelato con picchi di adrenalina e suspense che lo rendono godurioso e accattivante anche per quegli adulti che quasi avevano dimenticato quanto fosse bello passeggiare per la giungla a piedi nudi canticchiando ti bastan poche briciole, lo stretto indispensabile e i tuoi malanni puoi dimenticar… insieme all’orso Ballo impiastricciato di miele.
data di pubblicazione:12/05/2016
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da T. Pica | Apr 25, 2016
Cosa accade quando durante il G8 i Ministri dell’Economia delle nazioni più potenti del mondo si riuniscono al cospetto del direttore del Fondo Monetario Internazionale per adottare una delibera che potrebbe sconvolgere la vita di milioni di famiglie e persone per interminabili decenni? Una risposta prova a darla Roberto Andò attraverso una visione intimista, decisamente algida e patinata, del consesso calcolatore e glaciale di Economi, che lascia sullo sfondo i numeri e i tecnicismi propri della finanza internazionale.
Il direttore del FMI, Daniel Rochè (Daniel Auteuil) convoca nel lussuoso hotel di Heilingendamm – in Germania – anche tre personaggi estranei alla sfera politica e al mondo della finanza: Claire Seth (Connie Nielsen) una scrittrice di bestsellers per bambini, la rock star Michael Wintzl (Johan Heldenbergh) e Roberto Salus un monaco certosino italiano (Toni Servillo). I tre “forestieri” dovrebbero conferire al G8 quella sensibilità, quella umanità in grado di rendere i “distanti” Ministri, adagiati nel loro Olimpo, più vicini ai diffidenti “occhi” dei vari substrati della società contemporanea e alle problematiche “terrene”. Fin da subito, però, si intuisce che il monaco enigmatico e sibillino, Roberto Salus, sarà l’elemento disturbante della rigida perfezione che permea il sofisticato albergo e il programma del G8. Il monaco certosino votato al silenzio è stato infatti invitato dal direttore Rochè per un’urgenza personale ben precisa: confessarsi con il monaco perché non è abituato a perdere tempo e guarda sempre al futuro per anticipare il tempi.
Subito dopo la confessione l’inaspettata morte del direttore del FMI innesca la silenziosa “scalata” del monaco al tavolo del G8 ma, soprattutto, al cuore e alle coscienze dei Ministri che si sono piegati all’approvazione unanime della delibera del G8. Riuscirà Salus a rendere davvero collegiale e condivisa la manovra finanziaria scuotendo e mutando i programmi del tavolo di élite in cui spaesato – ma contenutisticamente non del tutto “estraneo” – si è suo malgrado seduto? Il Certosino, nella sua soffice, e “pesante”, candida veste si muove tra i corridoi, le sale, i giardini del grand hotel, ascolta i Ministri indispettiti forte di un libro che stringe sotto il braccio: la favola The wise child della scrittrice Claire, come lui impegnata ad osservare i ministri e le loro dinamiche più intime cogliendone le frastagliate fragilità. Roberto Salus si confronta, scontra con i potenti del mondo economico internazionale, e raccoglie anche la segreta confessione del Ministro italiano (Pierfrancesco Favino, già noto ai panni del Ministro debole e corrotto di Suburra), sbattendogli in faccia la copertina di una favola – The wise child appunto – che forse, come quelle di Esopo e Fedro, potrebbe aiutarli a ritrovare le proprie radici, l’onestà e il coraggio perduti.
Con questo film Roberto Andò e il suo “mattatore” prediletto, Toni Servillo, abbandonano i toni ironici e dinamici che avevano caratterizzato Viva la libertà per soffermarsi su una sceneggiatura decisamente più statica. Evidenti le analogie con le inquadrature e le dimensioni lussuose e algide di Youth, e non solo, di Paolo Sorrentino dettate, oltre che dalla natura del paesaggio teutonico circostante, anche dall’interiorità di personaggi posta in primo piano. Il summit del G8 e l’indagine sulla morte del direttore del FMI rimane in una dimensione metafisica, inafferrabile. La storia, dal simbolismo che omaggia anche la filmografia di Alfred Hitchcock, è molto lenta e, pur assumendo in modo via via più evidente, i toni del noir e del thriller, rimane priva del ritmo incalzante che dovrebbe accompagnare la tensione in ascesa.
Il finale rimane sospeso e irrisolto, lasciandoci in un limbo tra onirico e realtà sugellato dall’immagine francescana del monaco Salus che riparte con il cane rottweiler che si è ribellato ed ha abbandonato il padrone, il ministro della finanza tedesca. Che sia anche questo un velato messaggio? Ad ogni spettatore la sua chiave di lettura.
Ottima come sempre l’interpretazione di Toni Servillo che ipnotizzando lo spettatore lo aiuta a non perdersi nelle silenziose digressioni del film.
data di pubblicazione: 25/04/2016
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da T. Pica | Apr 22, 2016
La matricola Tracy (Lola Kirke), approdata alla Grande Mela per studiare al College, non riesce a trovare la sua dimensione, accademica e umana, come aspirante scrittrice in una città e in un ambiente universitario che non sembrano ricambiare le sue aspettative e le sono ostili. Brooke (Greta Gerwig), trentenne tuttologa si occupa di tutto e di niente; è sempre al verde ma progetta, nell’ordine, di aprire un ristorante con all’interno tante altre attività, la propria vita di moglie e madre vestale del focolare (pur essendo single) e fa public relations su Twitter e Instagram.
In questa fase di comune difficoltà e smarrimento Tracy e Brooke si incontrano, complice l’imminente matrimonio tra i loro genitori fissato per il giorno del Ringraziamento. Le due protagoniste, prossime a divenire sorellastre, appartengono a due generazioni diverse, così come diverso è il loro modo di approcciare la vita, progettare e relazionarsi con il prossimo. Eppure, nella frenetica New York che si prepara al Thanksgiving Day, le due aspiranti sorelle entrano fin da subito in sintonia. Una sintonia dettata non dalla convenzione della futura (eventuale) parentela acquisita, ma dalla sensibilità con cui, sotto la maschera delle ragazze/donne determinate e sicure di sé che non si accontentano, si “riconoscono” nella massa avvertendo, inconsciamente, di poter contare l’una sull’altra e si sostengono seppur ciascuna con i propri limiti.
Mistress America – che poi è anche il titolo del breve racconto scritto da Tracy ispirandosi a Brooke con cui l’“anonima” matricola sarà ammessa al circolo universitario dei letterati delle valigette – è un film divertente, ben articolato, dai dialoghi tanto spassosi quanto veri. Tra le luci colorate delle avenues newyorkesi e le irresistibili musiche elettroniche anni ’80 composte da Dean Wareham e Britta Phillips – quasi cucite addosso al look in perfetto stile “Sophie Marceau” di Tracy – il film pone l’accento sull’incomunicabilità e la competizione tra i giovani e sulla generale sensazione di disagio e inadeguatezza offerta dalla società moderna ai ventenni e ai trentenni che vogliono farcela da soli in America, come in ogni altra parte del globo, con la giusta leggerezza ed ironia. Tra dialoghi pungenti, battute geniali – sono quelli che non hanno niente da fare tutto il giorno che ti dicono di essere sempre impegnati e non avere un minuto di tempo per te – e qualche nota che strizza l’occhio alla lacrimuccia, Mistress America ribadisce un’amara verità: coloro che, come Tracy e Brooke, non si adeguano al “modello” di chi rinuncia a mettersi in gioco e a rischiare – spaventato/a dalla competizione anche all’interno di una relazione di coppia – in favore della tranquillità dell’“accontentarsi”, sono inevitabilmente destinati a rimanere isolati.
data di pubblicazione: 22/04/2016
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da T. Pica | Feb 13, 2016
Dopo i trentottenni di Immaturi e Immaturi il viaggio, Paolo Genovese ci regala un’altra fotografia generazionale tremendamente vera e attuale: quella dei quarantenni smartphone dipendenti.
Per Perfetti sconosciuti il regista strizza l’occhio alla dimensione della pièce teatrale che nell’ultimo anno ha già caratterizzato pellicole italiane argute e profonde come Il nome del figlio di Francesca Archibugi e Dobbiamo parlare di Sergio Rubini: un salotto e una tavola imbandita alla quale siede un gruppo di persone unite da legami affettivi di lunga data. In una serata come tante Eva e Rocco (Kasia Smutniak e Marco Giallini), coppia ovviamente in crisi, organizzano una cena per assistere all’eclissi totale di luna insieme ai loro amici di sempre: i neo sposini Cosimo (Edoardo Leo) e Bianca (Alba Rohrwacher), Lele (Valerio Mastrandrea) e Carlotta (Anna Foglietta) e Peppe (Giuseppe Battiston) che anche questa volta si presenterà in versione single senza la sua Lucia. Dopo i saluti di benvenuto e le prime scaramucce scherzose – presagio di una tensione latente tra mariti e mogli e tra le stesse coppie – Eva, in concomitanza con l’inizio dell’eclisse, propone un gioco: tutti i commensali dovrebbero lasciare per l’intera durata della serata il proprio cellulare sul tavolo per condividere con tutti gli altri i messaggi (sms e whatsapp) e le chiamate in viva voce. I telefonini sono le scatole nere della nostra vita pubblica privata e segreta. E quale momento migliore se non durante il silenzioso avanzare del “dark side of the moon” per mettere tutti i telefonini con i loro segreti sul “piatto” della vita e dei sentimenti che primeggia sulla tavola imbandita con gnocchi e polpettine? I sette protagonisti accetteranno il gioco perverso che inevitabilmente rivelerebbe (o rivelerà) tante piccole e grandi verità scomode e talvolta fatali? Non solo tradimenti fisici, ma pregiudizi, riti – come la partita del calcetto – e “patti di sangue” tra amici, affermazione professionale, rapporti con i figli, identità sessuale, insicurezze e molto altro travolgerà i sette amici e il pubblico in un’inevitabile osmosi tra vita reale e grande schermo, ottenuta anche grazie alla complicità dell’effetto Sliding doors, a un paio di colpi di scena e alla maturità dei sette attori, ognuno perfetto nel proprio ruolo. Al termine della proiezione il film di Genovese – che dopo i primi 20 minuti un pò spenti si riprende ed è accolto con l’applauso unanime di una sala gremita – costringe con il sorriso a guardare dentro noi stessi: con quale lato della nostra identità personale e della nostra vita di coppia – apparenza o verità (spesso il lato oscuro) – vogliamo davvero convivere? Vogliamo gettare la maschera e guadare gli occhi della persona che abbiamo accanto senza il “filtro” di un comodo paio di occhiali da sole, oppure proseguire incuranti delle verità che intuiamo o ignoriamo preferendo non sapere? Che si voglia vivere in un modo o nell’altro non a caso il leitmotiv musicale del film è proprio I will survive di Gloria Gaynor. Infatti, posto che tutti noi dovremmo imparare a lasciarci nella vita, due sole sono le strade: quella un po’ più caotica di chi sopravvivrà all’interno di rapporti – affettivi e di coppia – trascinati e di facciata e quella meno affollata di chi, una volta preso il coraggio di lasciarsi, sopravvivrà al dolore per poi tuffarsi in una vita nuova al posto delle tante finte vite parallele intrecciate nelle schede sim. In ogni caso l’imperativo sarà I will survive!
data di pubblicazione:13/02/2016
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