da Antonio Iraci | Lug 26, 2015
(Roma-Teatro 1 Cinecittà, 18 aprile/20 settembre 2015)
Quando nel lontano giugno del 1985 la rivista americana National Geographic pubblicò in copertina il ritratto della ragazza afghana, scattato da Steve McCurry in un campo profughi a Peshawar in Pakistan, in pochi avrebbero scommesso che quella foto avrebbe girato il mondo e sarebbe poi stata utilizzata, come indiscussa icona, nelle brochure di Amnesty International per le proprie campagne a tutela dei diritti umanitari.
Quella stessa ragazza, rimasta sconosciuta per quasi 17 anni, fu poi casualmente ritrovata, ancora con i segni della speranza tracciati sul volto e con quello sguardo straordinario, rimasto immutato, che aveva commosso e impressionato l’intero pianeta.
Da quell’immagine si può risalire a Steve McCurry, nato in un sobborgo di Filadelfia nel 1950, oggi fotografo di fama mondiale che sin dai primi anni di attività è stato capace di distinguersi per il coraggio oltre che per le sue doti professionali.
Tutto ciò emerge dai suoi primi reportages quando riuscì ad attraversare il confine tra Pakistan ed Afghanistan per andare a fotografare quel paese devastato dalla recente invasione russa, quando riuscì a fissare per la prima volta quei volti umani che con lo sguardo riuscivano a raccontare le proprie storie di disperazione e dolore.
Lui stesso affermava che se si è pazienti, se si impara ad aspettare, la gente dimentica di aver di fronte la macchina fotografica ed allora ci si accorge quasi per magia che la loro anima esce allo scoperto per mostrare la sua vera essenza.
Quanto affermato lo si può osservare se si percorrono gli spazi bui della mostra curata da Biba Giacchetti, su allestimento di Peter Bottazzi, al Teatro 1 di Cinecittà, in cui lo spettatore può scoprire l’impareggiabile produzione fotografica di McCurry di questi ultimi anni.
Questa mostra conduce in effetti “oltre lo sguardo” per raccontare, attraverso l’immagine di quei volti, la storia che sta oltre lo sguardo stesso di chi osserva e, a sua volta, è osservato attraverso l’obiettivo.
In questo fotografare McCurry non si limita quindi a fissare l’attimo infinitesimale dello scatto, ma partendo da questo punto accompagna lo spettatore in uno spazio temporale infinito, dove il soggetto stesso ne risulta parte integrante e mai casuale.
La mostra si dipana attraverso un percorso non tracciato, un labirinto senza via di fuga dove le immagini si scoprono via via che si procede, conquistati dai colori e dalla luminosità dei volti che ci raccontano l’umanità stessa presente in quegli angoli più nascosti del mondo, dove c’è guerra e morte, ma anche speranza: una vita vissuta, una storia non inventata.
Non a caso lo stile cinematografico di McCurry ben si inserisce in un contesto come Cinecittà, luogo sacro per molti cineasti e dove lui stesso aveva studiato da ragazzo coronando il sogno di tanti giovani americani di poter accedere a quegli studios resi famosi dai registi italiani di riconosciuta notorietà.
La mostra merita una visita, non fosse altro perché ci porta dentro un mondo di sogni e fantasia, in uno spazio magico dove ci si lascia dietro il trambusto della vita quotidiana per tuffarsi da protagonisti in un’ avventura da non dimenticare.
data di pubblicazione 18/04/2015
da Antonio Iraci | Giu 17, 2015
(Festival Internazionale del Film di Roma 2014 – Alice nella città)
Questo film ci porta nel favoloso mondo di Amelie, questa volta in Giappone. Amelie torna a Tokyo dove è nata da genitori belgi e dove ha passato i primi cinque anni della sua vita. Piena dell’entusiasmo dei suoi vent’anni, intraprende nella grande metropoli una nuova entusiasmante vita, cercando di integrarsi al massimo in questa città. L’incontro con Rinri, anche lui ventenne, farà conoscere ad Amelie un Giappone diverso, e quando l’amore impacciato di lui si paleserà con i ritmi propri di quella cultura, ad Amelie non resterà altro che accettare un fidanzamento in regola ed una promessa di matrimonio, anche se l’idea la terrorizza. Tokyo fiancèe, uscito nelle sale italiane con il titolo Il fascino indiscreto dell’amore, purtroppo però si perde strada facendo: i personaggi potevano essere meglio tracciati ed assumere un caratteristica più peculiare. Mentre sembrano azzeccate le location: Tokyo appare con diverse belle sfaccettature, alcune anche poco patinate ed inedite, fondamentale la scena di repertorio dello tsunami che assume un ruolo fondamentale nel racconto. Consenso del pubblico che sembra aver apprezzato questa love story, una volta tanto non a lieto fine… Ma non basta.
data di pubblicazione 17/06/2015
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da Antonio Iraci | Mag 28, 2015
Film cult super premiato a Venezia, capolavoro di Altman che ci presenta un’America falsa, indifferente, direi anche molto cinica.
Varie storie si intrecciano (titolo originale: short cuts) tutte brevi ma montate ad incastro come in un complicato puzzle, storie che vanno e vengono e si esauriscono. Le vite interiori che osserviamo ci lasciano sbigottiti, con l’amaro in bocca, e ci danno un volto insolito di questa America del grande benessere sociale. Un quadro tutto americano che valeva più di venti anni fa, quando il film uscì nelle sale, ma che vale esattamente anche per l’oggi di oggi. La sostanza non è cambiata.
Il cast? Tutto di altissimo livello: Anne Archer, Jack Lemmon, Madeleine Stowe, Tim Robbins, Andie MacDowell, Julianne Moore, Robert Downey Jr., Lily Tomlin, Jennifer Jason Leigh, tanto per citarne alcuni.
Tutto eccezionale tanto che la giuria di Venezia istituì un premio speciale da assegnare all’intero cast.
L’America ci suggerisce a tavola il tacchino, ma la ricetta che proponiamo ha un sapore speciale, non da Thanksgiving: il brasato di tacchino.
INGREDIENTI: una coscia di tacchino già tagliata aperta (per quattro persone)- una cipolla – 300 grammi di funghi champignons – due carote – sale e pepe q.b. – olio d’oliva q.b. – un litro di vino rosso.
PROCEDIMENTO: Fare soffriggere in abbondante olio d’oliva la cipolla insieme alla coscia del tacchino, facendo rosolare bene da entrambi i lati. Aggiungere i funghi e le carote tagliate a pezzetti. Dopo tre minuti di cottura aggiungere il vino rosso, sale e pepe e lasciare cuocere a fuoco medio e a lungo fin a quando il vino non si sarà ristretto, formando una salsa abbastanza vellutata.
Da servire tiepido, tagliando a fette il brasato, anche con un contorno di purè di patate.
da Antonio Iraci | Mag 27, 2015
Quinto film di Salvatores, che a suo tempo riscosse un notevole successo tra il pubblico, e non solo in Italia, tanto da meritarsi un premio Oscar come migliore film straniero.
Al di là della trama, con questo film il regista sembra avviare un nuovo genere italiano, imponendo alla cinematografia nostrana un proprio stile.
Un gruppo di soldati italiani (principali interpreti: Diego Abatantuono, Claudio Bigagli, Giuseppe Cederna, Claudio Bisio, Gigio Alberti) durante il periodo fascista, si trova a presidiare un’isola greca abitata solo da anziani e donne. Tra queste anche la bellissima prostituta Vassilissa (Vanna Barba) la quale fa l’amore con tutti, ma alla fine si innamora del timido e riservato soldato Farina.
Rimasti completamente isolati, non avendo più contatti radio con il resto del mondo, i soldati passano il tempo oziando.
Successivamente, per caso da un pilota costretto ad atterrare sull’isola per una avaria all’aereo, apprendono che Mussolini non è più al potere e che l’Italia viene adesso liberata dagli Americani.
Mentre tutti tornano finalmente a casa, Farina sposa la bella Vassilissa e rimane a vivere con lei sull’isola.
Questo assolato film di Salvatores, dal sapore tutto mediterraneo, ci suggerisce questa ricetta estiva piena di colore: l’insalata di riso.
INGREDIENTI: 600 grammi di riso flora speciale per insalate – un peperone giallo – un peperone rosso – 200 grammi di provolone dolce – 100 grammi di provola affumicata – 300 grammi di pisellini surgelati – 1 scatola di mais – 2 wurstel – 100 grammi di cetriolini sotto aceto – sale e pepe q.b.- olio d’oliva e aceto bianco.
PROCEDIMENTO: Tagliare i due peperoni, il formaggio, i wurstel ed i cetriolini a pezzetti. Bollire il riso con una cottura al dente, scolare bene e lasciare raffreddare.
Aggiungere i pisellini, precedentemente bolliti in acqua salata, il mais e gli altri ingredienti, tutti a freddo e poi condire come una normale insalata con sale, pepe, olio d’oliva ed una spruzzata di aceto. Riporre in una zuppiera e lasciare per qualche ora a riposare in frigo. L’insalata di riso va servita fredda.
da Antonio Iraci | Mag 25, 2015
(Teatro Due – Roma, 23 maggio 2015)
Il Teatro, da sempre, è qualcosa che unisce, provoca, denuncia, diverte, cura.
Con lo spettacolo messo in scena dai detenuti di Rebibbia di ieri abbiamo appreso che il Teatro è anche capace di abbattere ogni barriera e di unire chi sta al di qua con quelli che stanno al di là delle sbarre.
La Compagnia nasce da un laboratorio teatrale che l’Associazione Culturale CAPSA Service organizza da qualche anno all’interno della Casa di Reclusione, tra i detenuti comuni, con l’intento di dare voce alle persone che stanno scontando una pena.
Gli stessi detenuti hanno scritto il testo del lavoro ora portato in scena, con la regia di Daria Veronese, composto di brani e poesie letti al pubblico e alternati con una azione scenica che assume spesso un tono divertente e nella stesso tempo realisticamente umano.
Lo spettatore non può fare a meno di essere affascinato da questi frammenti di vita dove non traspare alcuna ombra di astio o aggressività ma al contrario un delicato sentimento di speranza di venir fuori al più presto per abbracciare gli affetti lasciati fuori e riprendere le cose semplici della vita come bere una tazza di caffè al bar.
Qui non c’è spazio per commiserazione, ma semmai com-passione, intesa come condivisione empatica di emozioni comuni.
Un bravo agli attori ed un plauso agli organizzatori all’interno del Penitenziario per aver saputo rendere possibile qualcosa di straordinario e potrei dire finalmente socialmente utile.
data di pubblicazione 25/05/2015
Il nostro voto:
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