da Antonio Iraci | Dic 5, 2015
Sin da piccoli Dio ci veniva descritto come un vecchio burbero, ma buono, che dall’alto dei cieli, tra nuvole rosate circondato da folte schiere di angeli, cherubini e serafini elargiva la sua misericordiosa benevolenza a noi poveri mortali, disgraziatamente condannati alla privazione di qualsiasi cosa che potesse arrecare un piacere peccaminoso.
Il regista belga Van Dormael ci ha dato invece un’immagine tanto diversa quanto spiazzante, che ci lascia sicuramente sorpresi con una rappresentazione che noi tutti in fondo accarezziamo quasi con una punta di sordida soddisfazione, senza però aver il coraggio di manifestarla, sia agli altri che a noi stessi, per puro timore di essere accusati di blasfemia.
Questo dio (Benoît Poelvoorde) vive a Bruxelles in un modesto e triste appartamentino, che condivide con una sciatta e semidemente moglie (Yolande Moreau) ed una figlia adolescente, di nome Ea (Pili Groyne), furba e ribelle non più disposta a sopportare le angherie di questo padre annoiato e dispettoso, che passa tutto il tempo nel suo studio, sempre in ciabatte e in vestaglia davanti al pc, per inventarsi ogni giorno leggi fastidiose volte ad importunare sadicamente l’umanità da lui stesso creata.
La ragazzina, dopo aver chiesto consiglio al fratello maggiore JC (che sta per Jesus Christus) fugge dalla famiglia in cerca di altri sei apostoli, scelti a caso dagli archivi paterni, per cercare di ristabilire un poco di ordine e soprattutto di felicità tra gli uomini resi disgraziati e tristi dal padre tiranno.
Il film, tra l’onirico ed il demenziale, potrebbe apparire a volte eccessivo e caricato di situazioni al limite dell’accettazione, dove il sorriso potrebbe facilmente generare l’amara considerazione della infelicità di cui risulta sovraccaricata l’intera umanità. Come Ea suole dire ai nuovi apostoli, riuniti per ri-scrivere insieme il “Nuovo Testamento”, ognuno di noi ha una propria musica che nasce dal cuore e solo ascoltando questa musica interiore saremo capaci di capovolgere il nostro destino, impiegando la forza dell’amore, unica leva capace di invertire il senso negativo delle cose.
Van Dormael ci suggerisce quindi una formula da seguire, una sorta di percorso che ci indirizzi verso una via di salvezza da un dio così poco padre ma molto despota, ma che una volta sulla terra, verrà preso a pugni e calci ed esiliato in Uzbekistan a lavorare in una catena di montaggio: una sorte da inferno dantesco dove a lui sarà precluso tutto, compresa la facoltà di fare miracoli.
Buone le trovate, come quella escogitata da Ea di inviare via sms a tutti gli uomini la data della propria morte accompagnate da originali effetti speciali; mentre ci ispira un poco di tenerezza la (ex) bella per eccellenza, Catherine Deneuve, scelta tra i nuovi apostoli e che trova finalmente la propria felicità tra le braccia pelose di un gorilla, riscattato al circo.
In effetti una buona lezione per imparare che la felicità è a portata di mano per ciascuno di noi, basta giocare d’astuzia scambiando ad esempio il nome dei giorni con quello dei mesi e vivere dilatando la concezione del tempo.
Una nota di merito va al regista Jaco Van Dormael, classe 1957, che nasce come clown da circo per poi seguire gli studi di cinematografia a Parigi che lo porteranno a dirigere importanti lavori, in particolare per il teatro ed il cinema rivolto ai bambini. Nel 1991 vince a Cannes il premio per la miglior opera prima con il film “Toto le héros”, mentre riceve riconoscimenti alla 66ma Mostra del Cinema di Venezia con Mr. Nobody, diventato un vero e proprio film cult.
data di pubblicazione 05/12/2015
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da Antonio Iraci | Dic 2, 2015
Finalmente nelle sale l’attesissimo film di Luchetti su Jorge Bergoglio, alias Papa Francesco.
Impresa non semplice per il regista dal momento che ha inteso parlare della vita di un papa vivo e vegeto e pertanto difficile da portare sul grande schermo senza cadere in una compiacente adulazione, proprio in un delicato momento della storia di Santa Romana Chiesa.
In verità non si ha l’impressione che si esalti la santità di un uomo, semmai con obiettività si narra di una parte lunga e significativa della vita di un gesuita, nel periodo drammatico che passò l’Argentina sotto la dittatura di Videla, un uomo Jorge che seppe impegnarsi a difendere i diritti dei poveri e dei perseguitati dal regime.
Il film pertanto inquadra un periodo ben definito della storia di quel paese, ricostruendo sapientemente i gravi crimini del potere anche con l’aiuto di qualche sequenze storica, ma senza mai eccedere al ricorso di lunghe immagini di repertorio.
Narrazione ed ambientazione quindi molto credibili anche per la scelta degli interpreti, quasi tutti rigorosamente argentini, a partire dal protagonista Rodrigo De La Serna, che interpreta alla perfezione Bergoglio per tutto il film, tranne alcune scene che riguardano i momenti immediatamente antecedenti al conclave, queste interpretate da Sergio Hernàndez.
L’interpretazione del giovane Jorge colpisce particolarmente per il suo sguardo intenso e preoccupato, quello proprio di un uomo che ha dovuto convivere con i desaparecidos e le madri di Plaza de Mayo e che comunque non sembrò esente da momenti di connivenza con il regime, scendendo a compromessi pur di non compromettere la vita di altri.
Penso che il film induca a predisporsi, anche per i non credenti, a credere in chi crede. Questa la chiave di lettura suggerita dal regista che senza soffermarsi, per fortuna, su immagini mielose ci porta a conoscere aspetti poco noti di un personaggio della storia di oggi, a prescindere o meno che si tratti del papa.
Bravo quindi Daniele Luchetti, coadiuvato nella sceneggiatura da Martin Salinas, che si è confermato all’altezza dei precedenti impegni cinematografici, molti dei quali hanno già ottenuto importanti riconoscimenti. Prodotto da Taoduefilm (Gruppo Mediaset) e distribuito da Medusa, e già venduto in più di quaranta paesi, il film verrà presentato il prossimo anno anche sul piccolo schermo in versione integrale di quattro puntate, quindi, anche per pura curiosità, andrebbe visto!
data di pubblicazione 02/12/2015
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da Antonio Iraci | Dic 1, 2015
Cristina (Paola Cortellesi) con il marito Michele (Luca Argentero) e i due figli Vittorio e Fortuna, vive la propria vita tranquilla a Bolzano cercando, con tutti i modi possibili, di nascondere in società le proprie origini meridionali.
Un giorno la sua esistenza viene sconvolta dalla notizia che suo fratello Ciro (Rocco Papaleo) è rimasto coinvolto in un processo della camorra ed ha chiesto, in attesa della sentenza, di trascorrere gli arresti domiciliari in casa della sorella.
A questo punto si verranno a generare tutta una serie di situazioni e di sotterfugi, da parte di Cristina, proprio per arginare la disgrazia venuta a turbare la sua vita e quella della sua famiglia.
Alla fine si scoprirà che Ciro non è altro che un ladruncolo sfigato che non ha nulla a vedere con la malavita organizzata camorristica.
Luca Miniero, dopo il successo di Benvenuti (al sud e poi al nord), si è lasciato tentare ancora una volta di portare in scena la contrapposizione tra meridione e settentrione d’Italia, con un film a tratti divertente a tratti banale, tutto giocato sulla bravura di Paola Cortellesi e di Rocco Papaleo, quest’ultimo abbastanza credibile nella figura grottesca attribuitagli dal regista.
Questo film, molto apprezzato dal pubblico, dal sapore tutto nordico ci suggerisce una ricetta semplice, ma d’effetto: rollò di pasta con ricotta e spinaci.
INGREDIENTI: 500 grammi di farina – 5 uova –250 grammi di parmigiano grattugiato – una noce moscata grattugiata – 200 grammi di burro – 600 grammi di spinaci – 500 grammi di ricotta fresca – sale e pepe q.b.
PROCEDIMENTO: Lavorare bene la farina con quattro uova ed un pizzico di sale e lasciare riposare l’impasto per un’ora in frigorifero. Procedere intanto alla preparazione del ripieno, prima cuocendo gli spinaci e poi, dopo averli strizzati bene, mescolandoli a pezzetti con la ricotta, il parmigiano, la noce moscata, un uovo ed un poco di pepe.
Dall’impasto ricavare due quantità uguali e quindi stendere due sfoglie omogenee e di forma rotonda, a questo punto distendere bene il ripieno, arrotolare e sigillare gli estremi in modo da ottenere due rollò uguali e ben chiusi. Avvolgere i singoli rollò in due tovaglioli bianchi, legare gli estremi e fare cuocere in acqua bollente e salata per circa mezz’ora. A questo punto il rollò va tagliato a fette e servito con burro fuso e parmigiano abbondante.
da Antonio Iraci | Nov 27, 2015
Il film di Sergio Rubini si presenta come una pièce teatrale e di fatto lo è visto che nasce proprio in teatro ed è interpretato dagli stessi attori che vediamo sul grande schermo: Fabrizio Bentivoglio, Maria Pia Calzone, Isabella Ragonese e Sergio Rubini stesso.
Dobbiamo parlare ci pone davanti al quesito: ma è sempre proprio necessario parlare? Non sarebbe talvolta meglio lasciare le cose come stanno e continuare la propria vita di coppia senza scendere in profondità o addentrarsi in confidenze scomode? In un salotto bene al centro di Roma, due coppie di amici sembrano sfidarsi in un duello senza esclusione di colpi e la verità che ne emerge farà saltare quel sano equilibrio che fino a quel momento aveva regolato i loro rapporti interpersonali.
Il film, presentato in ottobre durante la decima edizione della Festa del cinema di Roma in uno scenario di pellicole con tematiche spesso dure ed impegnate, è una commedia piena di parole che si incrociano, divertente e senza pretese, che ci fa sorridere e nello stesso tempo riflettere sulle dinamiche di coppia non sempre improntate da un corretto comportamento e forse spesso troppo intaccate da interessi materiali o opportunistici. Ci si chiede se la parola in questo caso sia opportuna, visto che anche il pesce nell’acquario avrebbe qualcosa da ridire.
Tra i temi toccati dal film c’è la fragilità della donna contrapposta a quella, non meno tangibile, degli uomini, dove gli obiettivi sembrano spesso raggiunti ma mai centrati, in uno sforzo di apparire quello che non si è.
Buona la recitazione (teatrale) dei protagonisti che catturano sin dall’inizio l’attenzione del pubblico senza però emulare l’atmosfera claustrofobica del film Carnage di Polansky, al quale sembra veramente inopportuno fare qualsiasi riferimento.
data di pubblicazione 27/11/2015
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da Antonio Iraci | Nov 2, 2015
Film documentario del regista Abel Ferrara, nato nel Bronx ma con origini campane: un ritratto molto crudo e realistico di una città complessa come Napoli, l’immagine di una metropoli e delle sue innumerevoli sfaccettature e contraddizioni, dove realtà e finzione sembrano confondersi.
Notevoli e d’effetto le interviste alle donne recluse nel carcere di Pozzuoli dove si tocca con mano quello che di umano e nello stesso tempo di inafferrabile emerge e dà il vero senso delle loro vite.
Cos’è la camorra?, dice una di loro, la camorra siamo noi…
Il film non sembra ber riuscito, nonostante le buone intenzioni del regista, e fu stroncato dalla critica che manifestò una certa indifferenza mentre il pubblico, pur con un certo scetticismo, mostrò invece un certo interesse.
Napoli ci suggerisce una ricetta molto semplice che è lo spezzatino genovese, ma che con la città di Genova non ha proprio niente a che fare.
INGREDIENTI: 1 kg di spezzatino di manzo – 3 kg di cipolle bianche – olio sale e pepe q.b. – olio d’oliva – un bicchiere di vino bianco – brodo caldo.
PROCEDIMENTO: Soffriggere per 5 minuti una parte delle cipolle insieme allo spezzatino, sfumando con il vino bianco. Una volta che la carne risulta appena rosolata aggiungere il resto delle cipolle e coprire il tutto con acqua o brodo, insaporendo con sale e pepe. Lasciare cuocere per almeno 5 ore a fuoco lentissimo, aggiungendo via via dell’acqua se necessario. Con il condimento ottenuto si può anche condire la pasta con abbondante parmigiano grattugiato.
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