da Antonio Iraci | Gen 3, 2016
Film cult (decisamente mélo) degli anni sessanta, egregiamente interpretato da Anouk Aimée e Jean-Louis Trintignant, ottenne importanti riconoscimenti di critica cinematografica e persino l’Oscar come miglior film straniero per il 1966 e, soprattutto, grande successo al botteghino.
Anne Gauthier e Jean-Luc Duroc sono due vedovi che si incontrano per caso nella scuola dove studiano i loro figli. Lui corteggia lei teneramente, ma anche con sincera passione, dimostrando amore e rispetto nei confronti della donna che ancora conserva vivo il ricordo del marito, da poco scomparso.
Merito del regista è quello di aver trattato questo argomento con assoluta freschezza creando, senza volerlo, dei miti e dei simboli che a suo tempo fecero tendenza, come la musica di Francis Lai che divenne presto uno dei dischi più venduti nel mondo, ripresa come sottofondo musicale sino ai giorni nostri.
Anche il film, regolarmente riproposto, continua ad avere successo tra il pubblico anche di ultima generazione, non risultando né datato né superato come stile di ripresa cinematografica, consacrando Claude Lelouch tra i migliori registi del nostro tempo.
Il film, ambientato nel nord della Francia, ci suggerisce questa ricetta dal sapore bretone: filetto di maiale al cartoccio.
INGREDIENTI: 1 filetto di maiale di 1 kg circa – 100 grammi di patè di fegato – 50 grammi di panna liquida – mezzo bicchiere di vino madeira o porto – 3 foglie di alloro – sale e pepe q.b.
PROCEDIMENTO: spalmare il filetto con il patè e cospargere con un poco di sale e pepe bianco. Disporre il tutto sopra un foglio di alluminio, aggiungendo il vino, la panna liquida e le tre foglie di alloro. Quindi, chiudere bene il cartoccio e lasciare cuocere al forno per circa 40 minuti ad una temperatura di 200 gradi. Affettare e servire ancora caldo, accompagnando il tutto con un contorno di purè di patate o con una insalata di stagione.
da Antonio Iraci | Gen 1, 2016
Esce nelle sale italiane il nuovo film del giapponese Hirokazu Kore-eda già presentato in concorso all’ultima edizione del Festival di Cannes e che trova ispirazione, con un libero adattamento, dal best seller manga Umimachi’s Diary di Yoshida Akimi.
Il regista risulta già noto al pubblico italiano per Like father, like son del 2013, vincitore a Cannes con il Premio della giuria, e prima ancora per Nobody knows, anch’esso premiato a Cannes nel 2004, film che aveva a suo tempo spiazzato tutti raggiungendo un consenso inaudito da parte della critica cinematografica più accreditata.
Il film presenta una storia semplice: tre sorelle (Sachi, Yoshino e Chika) vivono da sole in una casa alquanto fatiscente nella cittadina balneare di Kamakura, ognuna vive la sua indipendenza economica ed affettiva, non corrisposte però dai rispettivi uomini, incapaci di affrontare un rapporto sentimentale stabile e duraturo e quindi poco attenti alla sensibilità delle ragazze, da anni abituate ad arrangiarsi dopo essere state abbandonate dalla madre e dal padre.
In occasione del funerale di quest’ultimo, vengono a conoscenza della sorellastra di tredici anni che conquista subito, con la sua semplicità e la sua grazia, il cuore delle tre sorelle che non esitano a proporle di trasferirsi e andare a vivere insieme a loro.
Da questo momento inizia una nuova vita per la giovane Suzu che si inserirà in punta di piedi nella nuova casa, andando d’accordo con le sorelle, diverse tra di loro per carattere, ma che comunque la amano e la rispettano, manifestando nei suoi confronti una grande dedizione senza trascurare di seguirla in questa sua fase adolescenziale.
Apparentemente il film si snoda in maniera molto lenta e misurata, senza colpi di scena che possano suscitare nello spettatore una attenzione per tematiche sorprendenti, lasciando tutto esitante come pennellate tenui in un contesto rarefatto tipico del paesaggio giapponese, dove i colori sembrano sfumare e confondersi tra di loro senza una definizione chiara dei contorni.
Ma non si tratta di superficialità, di un minimalismo proprio per non affrontare i problemi o per affrontarli in maniera poco decisa, nel film Little sister i temi importanti ci sono tutti, come quello dell’abbandono o della sopravvivenza affettiva, solo che vengono trattati in maniera delicata, quasi sospesi nel tempo in attesa del momento opportuno per trovare la loro soluzione.
I rapporti interpersonali, non esenti da astio o da abnegazione, rimangono avvolti sempre da una certa compostezza e vengono affrontati nel silenzio, con minor sofferenza possibile e senza urtare la sensibilità degli altri.
Tutto un gioco di riverenza e rispetto reciproco che trova rari casi di abbandono come di fronte a tavole imbandite di pietanze fumanti, dove sembra soffermarsi volutamente il regista, quasi a sottolineare un momento di intimità familiare, un momento di grande coesione tra le sorelle così diverse tra di loro e che davanti al cibo si trovano finalmente insieme e in sintonia.
Anche nel finale il tempo rimane incerto nel vuoto, sulla spiaggia disseminata di conchiglie le quattro sorelle si incontrano e si muovono, saltellando tra le onde che si infrangono sull’arenile, suggellando così la tacita promessa di rimanere per sempre unite e rimuovendo l’amaro che rimane in fondo al cuore, per un affetto perduto o che forse non si è mai posseduto.
data di pubblicazione 01/01/2016
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da Antonio Iraci | Dic 21, 2015
Daniel Morales (Samy Naceri) da fattorino in una pizzeria diventa un tassista guidando, in maniera molto spericolata, la sua Peugeot truccata per le strade di Marsiglia.
L’imbranato poliziotto Emilien (Frédéric Diefenthal), perdutamente innamorato della bella collega Petra (Marion Cotillard), un giorno si trova per caso sul taxi di Daniel riscontrando la sua guida a dir poco temeraria che in poco tempo lo fa incorrere a diverse gravi infrazioni stradali.
Il poliziotto a questo punto coinvolge Daniel nell’inseguimento per la cattura di una banda di ladri tedeschi offrendo in cambio il suo aiuto per evitargli la perdita della licenza e quindi del suo lavoro.
Il film, diretto da Pirès, con soggetto e sceneggiatura di Luc Besson, risulta molto gradevole e ha avuto molto successo nelle sale francesi e nel mondo, raggiungendo un inaspettato record di incassi e ottenendo due premi César per il miglio montaggio ed il miglior sonoro.
Marsiglia, con il suo sole ed i suoi sapori decisi, ci suggerisce questa ricetta: zuppa di finocchi e marroni alla provenzale.
INGREDIENTI: 500 grammi di castagne – 1 kg di finocchi – 100 grammi di fichi secchi- 250 grammi di panna da cucina – peperoncino – preparato per brodo – sale e pepe q.b.
PROCEDIMENTO: pulire e tagliare i finocchi in fettine sottili e farli cuocere in un brodo ristretto. Bollire a parte le castagne, pelarle e passarle a setaccio in modo tale da ottenere una purea omogenea. Aggiungere quindi le castagne e i fichi secchi a pezzetti ai finocchi insieme alla panna in modo da ottenere una zuppa densa e vellutata, aggiungere un poco di peperoncino, sale e pepe q.b.
Servire la zuppa calda accompagnata, se si preferisce, da crostini di pane.
da Antonio Iraci | Dic 20, 2015
(Teatro dell’Orologio – Roma 8/20 dicembre 2015)
In un appartamento, in un palazzo residenziale un tempo abitato da gente di élite, ma oggi quasi abbandonato, una coppia invita a cena un’altra coppia di vicini, da poco trasferiti, per iniziare a fare conoscenza.
All’inizio della serata, con i primi convenevoli d’uso, tutto sembra procedere normalmente, ma presto si verranno a creare delle situazioni grottesche al limite della follia pura che impegneranno i quattro personaggi in una lotta che ha tutta l’aria di diventare un gioco al massacro, e non solo verbale.
Le argomentazioni che si incrociano con un ritmo incalzante cadranno presto in un vuoto assoluto, rivelando l’assenza totale di contenuti in ognuno di loro e dove anche le apparenze non troveranno più alcun fondamento di essere, negando una qualsiasi, sia pur minima, parvenza di credibilità.
Anche le verità indiscutibili sembrano venir meno, relegate ad un ruolo marginale, perché è l’illusione che regna e che porta a vedere qualcosa dove non c’è nulla da vedere.
Ben si inserisce questa pièce nel contesto sociale di oggi per indurci a prendere coscienza, semmai non lo avessimo oramai da tempo sperimentato sulla nostra propria pelle, che il mondo con le sue stranezze e contraddizioni poggia sul niente, rivelando una falsità nei rapporti interpersonali ed una palese aggressività che ha oramai compromesso gli affetti più cari, incluso quelli inerenti allo stesso nucleo familiare.
Scritto e diretto da Max Caprara che interpreta anche uno dei protagonisti insieme a Michele Bevilacqua, Veronica Milaneschi e Giada Pranti, lo spettacolo trova un suo ritmo proprio anche con qualche nota divertente in un contesto di scena dove gli spazi sembrano ben studiati per sottolineare la gabbia sociale, in cui metaforicamente ci troviamo reclusi, senza lasciare intravedere una facile via di fuga.
data di pubblicazione 20/12/2015
Il nostro voto:
da Antonio Iraci | Dic 17, 2015
(Teatro dell’Orologio – Roma, 8/ 20 dicembre 2015) Scena nera e claustrofobica, alternanza di fari abbaglianti e di bui angoscianti, un uomo completamente nudo, pronto all’atto finale: un kamikaze. Ma cosa spinge quest’uomo al sacrificio? Un atto di ribellione e di odio politico-religioso o piuttosto la disperazione per aver perso tutto, incluso gli affetti più cari? L’uomo quindi in solitudine estrema, al quale non rimane nulla, nessun riferimento, nessun luogo amico se non un contesto arido e spoglio dove anche la natura sembra ostile e matrigna. L’urlo che invade la scena, minimalista all’inverosimile, è un urlo di disperazione e di rabbia, di impotenza dell’uomo verso un qualcosa che lo sovrasta impassibile e tiranna, che pretende tutto e che prende tutto senza dare risposte o spiegazioni, solo perché è giusto che sia così. Quindi tutto all’insegna dell’essenzialità sia nell’azione scenica che nella narrazione che pur nella sua complessità di contenuti, si presenta dura e dolce nello stesso tempo con un cambio di registro e di toni che il protagonista regge alla perfezione, trasmettendo allo spettatore un pathos incredibilmente forte e d’effetto. Ascoltando attentamente il testo di Giuseppe Massa, impresa spesso di non facile attuazione per l’assordante intervento di voci e suoni fuori campo, risulta inevitabile non prendere le parti del kamikaze, unico uomo degno di tale nome in un contesto di maiali, così come veniamo definiti noi disgraziati occidentali. Buona anche la regia di Giuseppe Isgrò, che è riuscito dal niente a creare una atmosfera scenica dove non sembra mancare nulla per iniziare un processo di liberazione catartica (qui vale la pena menzionare le tre susseguenti minzioni in scena aperta) per arrivare infine all’atto supremo del sacrificio. Woody Neri, diplomato presso la Scuola di Teatro di Bologna “Alessandra Galante Garrone”, ha alle spalle un repertorio vastissimo dove ha sempre confermato la sua eccezionale bravura, attore che senza dubbio è destinato ad una carriera in teatro di sicuro successo. Veramente molto bravo!
data di pubblicazione 17/12/2015
Il nostro voto:
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