da Antonio Iraci | Feb 16, 2016
(Berlino, 11/21 febbraio 2016)
Questa quinta giornata della Berlinale ci ha regalato un piccolo capolavoro cinematografico firmato dall’attore e regista svizzero Vincent Pérez: Alone in Berlin. Tratto dall’ultimo romanzo scritto nell’autunno del 1946 da Hans Fallada (tradotto in italiano in Ognuno muore solo), il film narra dei coniugi Anna (Emma Thompson) e Otto Quangel (Brendan Gleeson), che vivono in una Berlino euforica dopo il successo dell’occupazione della Francia da parte delle truppe naziste. Dopo aver ricevuto la notizia che il loro unico figlio è morto al fronte in una imboscata, avvenimento che cambierà completamente le loro vite, la coppia inizierà un’accanita resistenza impegnandosi nella distribuzione, in luoghi pubblici e privati, di cartoline scritte a mano da loro stessi contenenti messaggi di propaganda opposta al regime. Il film, tratto da una storia vera, è da considerarsi un vero e proprio omaggio alla memoria dei coniugi Otto e Elise Hampel, che in effetti pagarono con la vita il loro coraggio di opporsi al fanatismo dilagante in una atmosfera di sospetto e di violenza. Una segnalazione particolare va alla splendida ambientazione in una Berlino del 1940, quando ancora serpeggiava per strada la convinzione di aver vinto la guerra, e non vi era il benché minimo sospetto dell’imminente catastrofe che, di lì a pochi anni, avrebbe portato alla disastrosa capitolazione della Germania. Divina nella parte di Anna è Emma Thomson, che ha sicuramente affascinato la giuria presente in sala e coinvolto l’intero pubblico. Non ci sarebbe da stupirsi se il film fosse in lizza per essere premiato con l’Orso. Da segnalare nella stessa giornata di oggi Morte a Sarajevo del regista bosniaco Danis Tanovic, Oscar 2002 per No Man’s Land. Il film è ambientato in un Hotel di Sarajevo in occasione di una cerimonia ufficiale a livello europeo per ricordare i cento anni dall’attentato, compiuto dal serbo-bosniaco Gavrilo Princip in cui morirono l’Arciduca Francesco Ferdinando e la moglie Sofia, che diede l’avvio alla prima guerra mondiale. Dal percettibile sapore politico, Morte a Sarajevo è quasi una satira verso una Europa che ancora oggi, dopo anni, non sa prendere il giusto avvio dibattendosi tra verità e bugie ancora irrisolte. Ultimo film in Concorso per oggi è stato Crosscurrent, del regista cinese Yang Chao, che narra di un viaggio intrapreso dal giovane capitano Gao Chun per risalire controcorrente, a bordo della sua barca mercantile, il grande fiume Yangtze sino alla sua sorgente. Questa spedizione, oltre ad avere una finalità commerciale dagli aspetti poco chiari, rappresenta per il giovane una sorta di missione spirituale per aiutare la trasmigrazione dell’anima del padre, appena morto, oltre che per ricercare la compagna della propria vita. Il racconto è accompagnato dalla recitazione di poesie di vari autori cinesi che, di tanto in tanto, ci danno esempi di grande saggezza, senza tuttavia risparmiarci qualche involontario sbadiglio…
data di pubblicazione:16/02/2016
da Antonio Iraci | Feb 14, 2016
(Berlino, 11/21 febbraio 2016)
Con la presentazione del film in Concorso Cartas da Guerra del regista portoghese Ivo M. Ferreira è iniziata la quarta giornata della Berlinale. Il film è un epistolario tra il medico militare Antonio, inviato in Angola a combattere una guerra per conto del proprio paese, e la sua amata moglie, incinta al momento del distacco e rimasta ovviamente ad attenderlo in Portogallo. La fotografia in bianco e nero, curata da João Ribeiro, è di grande effetto, mentre la continua lettura fuori campo della corrispondenza quotidianamente inviata è forse l’unica vera pecca del film che, se da un lato potrebbe risultare lirica, dall’altro finisce con il tediare lo spettatore distogliendolo dalla giusta concentrazione che le sue straordinarie immagini richiederebbe. Il protagonista Antonio (Miguel Nunes) e gli altri “commilitoni” riescono a delineare un’idea chiara dell’atrocità di quel conflitto, che ha trasformato gli uomini in insetti che lottano per la sopravvivenza.
A seguire è stata la volta di 24 Weeks, per la regia della tedesca Anne Zohra Berrached che nel 2013 aveva partecipato alla Berlinale con il film Zwei Mütter (Due Madri) segnalato dalla critica internazionale per l’intensità del tema trattato, che anche con questa nuova pellicola affronta una tematica tutta al femminile. Astrid, cabarettista molto apprezzata dal pubblico, rimasta incinta di un bambino che risulterà affetto dalla sindrome di Down, dovrà affrontare da sola il conflitto morale legato alla scelta se abortire nella ultime settimane di gestazione. La protagonista Julia Jentsch ci offre un’ottima performance perché riesce a trasmettere tutta la sofferenza interiore di una donna che si rende conto quanto dalla sua decisione dipenda non solo la vita del bambino che sente già in grembo, ma anche la propria esistenza e quella delle persone che la circondano.
Ultimo film in Concorso per questa quarta giornata è stato Being 17 del regista francese André Téchiné che porta sul grande schermo le turbolenze affettive di due adolescenti, Damien e Thomas, entrambi diciassettenni, che sono compagni di classe e si odiano a morte, cercando ogni minimo pretesto per prendersi seriamente a pugni. Per una serie di circostanze, complice la madre di Damien che cercherà in tutti i modi di far nascere un’amicizia sincera tra i due, questi affronteranno presto i turbamenti tipici dell’età e finiranno con il seppellire l’ascia di guerra e trasformare il loro rapporto in qualcosa di più profondo. Molto convincente la performance dei due ragazzi, interpretati da Kacey Mottet Klein (Damien) e Corentin Fila (Thomas), che hanno saputo dare una giusta attendibilità al racconto senza cadere in un’inutile retorica, ma portando invece la loro storia in un contesto di assoluta normalità, abbattendo quei pregiudizi di diversità che molti oggi ancora non riescono a fare.
data di pubblicazione:15/02/2016
da Antonio Iraci | Feb 14, 2016
(Berlino, 11/21 febbraio 2016)
In questo terzo giorno di proiezioni, è bastato il film italiano di apertura per rimettere su una buona carreggiata l’andamento delle pellicole in Concorso alla Berlinale. Il regista Gianfranco Rosi, con il suo documentario Fuocoammare, ha puntato direttamente al cuore del pubblico che, a fine spettacolo, ha manifestato il proprio assenso con un prolungato applauso. L’isola di Lampedusa, più vicina alle coste libiche che a quelle siciliane, rappresenta metaforicamente per i migranti africani il punto di arrivo, ma anche quello di partenza, per iniziare una nuova vita e guadagnarsi la dignità di uomini. Tutto viene visto attraverso l’occhio attento di Samuele, un isolano di dodici anni, poco avvezzo ai libri scolastici ma molto svelto ad usare la fionda perché, come lui stesso con grande saggezza afferma, solo con passione si possono affrontare le grandi e piccole cose della vita. Il pubblico non può che lasciarsi affascinare dalla delicatezza del film e nello stesso tempo non può che sentirsi un poco in colpa per aver forse evitato, con inconsapevole determinazione, di prendere coscienza della più grande tragedia umana che si sta perpetuando. Ecco dunque che questo nuovo documentario di Rosi, dopo il grande successo di Sacro Gra premiato a Venezia nel 2013 con il Leone d’Oro, diventa un messaggio politico verso coloro che ignorano il problema o, peggio ancora, verso chi preferisce che siano gli altri ad affrontarlo, scrollandosi di dosso ogni tipo di responsabilità. Ottima la fotografia curata dallo stesso regista che ci ha fatto entrare concretamente nella realtà dell’isola: qui non c’è finzione, ma ogni cosa è vera ed il linguaggio cinematografico usato è di altissimo livello. Non ci sarebbe da stupirsi se il film riuscirà ad ottenere dalla giuria quel riconoscimento che senza ombra di dubbio merita.
Secondo della giornata L’avenir della regista francese Mia Hansen-Løve. La pellicola tratta dei problemi generazionali che Nathalie (Isabelle Huppert), professoressa di filosofia in un liceo parigino, deve affrontare con gli studenti e le persone a lei care: nel film sembra che il mondo, che ruota attorno alla protagonista, non scalfisca minimamente le sue convinzioni piccolo borghesi ed alquanto intellettualoidi, che la portano ad evitare il confronto con una realtà che certamente le risulta scomoda. A conferire all’intera narrazione una buona dose di credibilità è l’interpretazione della bravissima Isabelle Huppert.
Terzo ed ultimo film in Concorso è stato Mahana (The Patriarch), del regista neozelandese Lee Tamahori, che tratta della disputa tra due famiglie maori rivali, e del rigido ed inoppugnabile potere di comando che il capostipite esercita su tutti i componenti del nucleo familiare. Solo il nipote quattordicenne Simeon, grazie ad una ferma convinzione per ciò che egli ritiene giusto, avrà la forza di fronteggiare il nonno sgretolando pian piano quella gerarchia patriarcale oramai obsoleta. Buona l’ambientazione così come il cast per la maggior parte costituito da attori maori, che ci traghettano in una realtà a molti di noi sconosciuta, dove la tradizione e la coesione domestica sembrano costituire le fondamenta dell’organizzazione sociale di un intero popolo.
data di pubblicazione:14/02/2016
da Antonio Iraci | Feb 13, 2016
(Berlino, 11/21 febbraio 2016)
Dopo l’apertura frizzante con il film dei fratelli Coen, la seconda giornata della Berlinale 2016 si presenta sottotono, almeno a giudicare dalla perplessità manifestata dal pubblico in sala alla proiezione di ben 3 dei rimanenti 22 film in Concorso.
Hedi, il primo lungometraggio del tunisino Mohamed Ben Attia, nonostante la produzione di prestigio dei fratelli Dardenne, maestri in ambito cinematografico che non necessitano certo di presentazioni, sembra a chi scrive una pellicola pretenziosa che, nonostante le palesi intenzioni del regista, non riesce a centrare l’essenzialità di uno script molto realistico. Hedi, il protagonista, classico uomo rimasto bambino a causa di una madre che gli ha organizzato tutto nella vita, incluso il matrimonio con una donna che lui quasi non conosce, fortuitamente incontrerà la bella Rim che gli farà perdere letteralmente la testa, facendogli pregustare il sapore dell’indipendenza oltre che del vero amore. Ben presto tuttavia Hedi si renderà conto che la tanto agognata libertà ha un prezzo da onorare e che lui non è all’altezza della situazione. L’interpretazione di Majd Mastoura nel ruolo del protagonista non sempre risulta convincente, mentre più spontanea quella di Rym Ben Messaoud nella parte di Rim, anche se non sufficiente a sollevare le sorti di un film poco coinvolgente. E’ stata poi la volta di Boris sans Béatrice di Denis Côté, canadese di nascita ma di casa alla Berlinale, che ha presentato la storia di Boris Malinovsky (James Hyndman), un improbabile uomo di successo senza scrupoli morali, che si trova ad affrontare la depressione della moglie (Simone- Elise Girard), ministro nel governo canadese; quale conditio sine qua non affinché la moglie possa riacquistare la sua salute mentale, l’uomo si lascerà convincere da un personaggio misterioso a rivedere la sua vita dissoluta da Don Giovanni ed a prendersi seriamente cura della propria anima. L’introspezione che il protagonista pretende di affrontare, per rivedere se stesso e la propria esistenza, è decisamente poco chiara, così come l’osservanza di una sorta di dovere coniugale che gli farà guadagnare la salvezza della moglie, che lui dice di amare seriamente nonostante i continui tradimenti. E’ stato poi il turno di Midnight Special di Jeff Nichols, che ha fortunatamente contribuito in maniera decisiva a sollevare l’umore del folto pubblico accorso, forse anche per la presenza in sala della giuria e della splendida Meryl Streep in veste di Presidente. Protagonista un bambino di otto anni di nome Alton (Jaeden Lieberher), dotato di poteri paranormali che si materializzano in una luce accecante che promana dai propri occhi e mediante la quale comunica con entità di un altro mondo al quale lui stesso appartiene. I suoi genitori, normalissimi terrestri, cercheranno di proteggerlo dagli interessi di altri che lo vogliono avvicinare solo per carpire i segreti dei suoi poteri, ed utilizzarli per il proprio tornaconto. Ottima l’interpretazione del protagonista e soprattutto quella del padre Roy (Michael Shannon) che sono riusciti a dare credibilità ad una storia che, al contrario, ha il sapore dell’incredibile. Peccato che la storia di questa sorta di E.T. dei giorni nostri, non ci coinvolga e non ci emozioni come fece Steven Spielberg tanti anni fa…
data di pubblicazione:14/02/2016
da Antonio Iraci | Feb 11, 2016
(Berlino, 11/21 febbraio 2016)
Se il filosofo e sociologo tedesco Herbert Marcuse avesse visto con noi il film Ave, Cesare! presentato oggi in Concorso in apertura della Berlinale e firmato dai fratelli Coen, avrebbe sicuramente rivisto al meglio le proprie teorie sul capitalismo e sulla manipolazione delle masse da parte della cultura dell’intrattenimento.
Il film, ambientato nei famosi Studios hollywoodiani di celluloide degli anni cinquanta, dove contemporaneamente western, musical e polizieschi di ogni genere si mescolano tra di loro, sembra irridere a situazioni, a volte assai grottesche, che trovano sempre una soluzione pur di far andare avanti quanto previsto in copione, seppur nella confusione più totale.
Il risultato è una divertente satira socio/culturale del tempo, che solo la maestrìa dei fratelli Coen sa cogliere in pieno senza cadere nel banale o nella prevedibilità, e così Ave, Cesare! pur non atteggiandosi volutamente a divenire un classico d’autore, diventa invece un film autoriale grazie all’abilità di questi due registi che hanno saputo cogliere l’essenza del tema annunciato.
Di gran livello il cast, che va da Josh Brolin a George Clooney, da Alden Ehrenreich a Ralph Fiennes, e poi ancora Jonah Hill, Scarlett Johansson, Frances McDormand, Tilda Swinton, Channing Tatum, ed anche se alcuni di loro sono impegnati solo in piccoli camei, tutti insieme determinano una ottimo risultato finale.
Il messaggio che ci arriva è quello che le cose semplici, paradossalmente, sembrano essere quelle più sbagliate e che invece proprio dal caos nasce l’ordine e la felicità, dove anche la luna piena che si rispecchia nell’acqua può così all’improvviso dileguarsi, basta semplicemente… tuffarvisi dentro.
data di pubblicazione:11/02/2016
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