da Antonio Iraci | Ott 16, 2016
(11^ FESTA DEL CINEMA DI ROMA – ROMA, 13/23 ottobre 2016)
Dublino, inizio anni Ottanta. Il quindicenne Conor (Ferdia Walsh-Peelo) vive in famiglia una situazione generalizzata di crisi: il fratello maggiore si rifiuta di andare al college, la sorella vive isolata nel suo mondo, i suoi genitori non vanno più d’accordo e non ci sono più soldi in casa. Messo di fronte alla dura realtà, il ragazzo è costretto, suo malgrado, a studiare in un istituto più economico dove è in vigore una severa disciplina e dove soprattutto imperversa il bullismo tra gli studenti di cui un ragazzo sensibile come lui è facile preda. Un giorno, di fronte alla scuola, incontra lo sguardo di Raphina (Lucy Boynton), ragazza molto bella di cui subito si innamora. Per conquistare il cuore della giovane, il ragazzo si inventerà che ha una band e visto che ancora questa band non esiste deciderà con caparbia determinazione di costituirne una, raccogliendo altri ragazzi squinternati come lui, ma con tanta voglia di suonare. Il film, leggero e divertente, riporta alla memoria quel periodo d’oro del pop in cui tutti i ragazzi erano desiderosi di formare un proprio gruppo emulando i Duran Duran, The Cure, Spandau Ballet, Jam e tante altre band allora in voga. Mentre l’Irlanda attraversa un periodo economico disastrato e cercare fortuna a Londra sembra essere la soluzione ultima a tutti i problemi, i ragazzi provano a dimostrare innanzitutto a sé stessi che la musica può tirarli fuori dalle preoccupazioni e farli diventare più grandi. Sotto la guida del fratello maggiore Brendon (Jack Reynor), Conor riuscirà a vincere la sua battaglia personale conquistandosi, grazie alle sue esibizioni canore, una buona reputazione a scuola e l’affetto della sua amata Raphina. Sing Street è una piacevole piccola commedia musicale presentata all’ultimo Sundance Film Festival, dove ha ottenuto un buon consenso tra i giovani, trascinati dalle musiche prevalentemente composte negli anni Ottanta da una band di cui faceva parte lo stesso regista.
data di pubblicazione:16/10/2016
da Antonio Iraci | Ott 15, 2016
(11^ FESTA DEL CINEMA DI ROMA – ROMA, 13/23 ottobre 2016)
Con la proiezione del film Afterimage, la Festa del Cinema di Roma ha voluto rendere un meritato omaggio alla figura di Andrzej Wajda, scomparso appena qualche giorno fa all’età di novant’anni. Considerato uno dei capiscuola del cinema polacco, ha portato sul grande schermo le vicende che hanno caratterizzato la storia travagliata del suo Paese, dal dopoguerra ai giorni nostri. Wajda, senza mai scendere a compromessi, ha spesso affrontato nei suoi film argomenti molto scomodi andando incontro alle ostilità delle autorità, soprattutto nel periodo in cui la Polonia era sottomessa in tutto al regime totalitarista sovietico. Ed è proprio con riferimento a questo momento storico, quando la realtà socialista si impose come unica forma di espressione, che il suo film narra gli ultimi anni del famoso pittore Władislaw Strzemiński, docente all’Accademia delle Belle Arti e fondatore del Museo d’Arte Moderna in Łódź, ben conosciuto in campo internazionale per essere stato amico di artisti quali Malevič, Chagall e Rodčenko. Per il suo rifiuto di allinearsi alle idee del regime, che intendeva l’arte come strumento utile alla propaganda, il pittore venne allontanato dall’insegnamento ed espulso dal circolo degli artisti polacchi, morendo di lì a poco in miseria, ridotto ad arredare le vetrine dei negozi pur di ottenere la tessera alimentare. Wajda, utilizzando le stesse parole che l’artista usa con i propri studenti che continuarono a seguire le sue preziose lezioni in segreto, fornisce una interessante lettura sulla Teoria della Visione, elaborata dallo stesso Strzemiński, e più in generale sulla sua concezione dell’arte astratta: la stessa, proprio per sua natura, quale parte integrante della vita dell’uomo, non può essere delimitata da una idea univoca, soprattutto se imposta da una entità diversa dal soggetto che la elabora. Di Afterimage (letteralmente “immagini residue” ovvero la percezione di ciò che rimane nella memoria dopo aver ammirato un’opera d’arte) colpisce la fotografia diretta da Pawel Edelman, che sin dalla prima bellissima scena ha saputo trasferire sul colore lo stesso stato d’animo dei personaggi. Inizialmente i toni delle immagini sono luminosi e allegri, ma via via che si procede nella narrazione la loro intensità sembra dissolversi per uniformarsi alle tonalità più spente e cupe degli esterni. Molto curati i dialoghi, profondi e toccanti, e la scenografia che trasmette l’idea dell’atmosfera vissuta in quegli anni dall’artista, egregiamente interpretato da Bogusław Linda, uno tra i più famosi attori del cinema polacco. La sua interpretazione di Strzemiński ci restituisce l’immagine di un uomo sicuro delle proprie idee e delle proprie azioni, che non si è lasciato intimidire da nessuna forma di costrizione esterna, rifiutandosi di incanalare il proprio pensiero negli schemi rigidi imposti dal sistema.
Film di una bellezza struggente.
data di pubblicazione:15/10/2016
da Antonio Iraci | Ott 13, 2016
(11^ FESTA DEL CINEMA DI ROMA – Roma, 13/23 ottobre 2016)
Doña Flor è una dipendente statale, meticolosa sino all’inverosimile, che trasferisce le proprie frustrazioni personali sul malcapitato pubblico che ogni giorno ha a che fare con lei per il disbrigo di pratiche personali. La sua vita scorre lenta e monotona in assoluta solitudine. Persino Manuelito, il suo gatto, unico essere vivente che sembra darle un minimo di affetto, un giorno improvvisamente “decide” di morire. La donna, nel tempo libero, trova anche una inspiegabile attrazione verso l’acqua e decide di frequentare una piscina pubblica solo che il terrore di immergersi la paralizza lasciandola in uno stato di sconforto senza limite. Il gesto inaspettato di una donna, che alle docce le si avvicina per toccarla sulle spalle con una spugna, la risveglierà da questo suo eterno letargo affettivo e la spingerà verso un pianto liberatorio. Per ovvi motivi il film segue la lentezza propria del personaggio, predisponendo lo spettatore a momenti di puro torpore, e la ripetitività delle azioni induce a concentrarsi sul senso oscuro della solitudine, soprattutto quando vissuta non per libera scelta. Natalia Almada, fotografa e documentarista messicana, ci porta in un mondo intimo, impenetrabile ma dove è tangibile il desiderio di apparire, una volta tanto, in qualcosa per qualcuno.
data di pubblicazione:13/10/2016
da Antonio Iraci | Ott 13, 2016
(11^ FESTA DEL CINEMA DI ROMA – Roma, 13/23 ottobre 2016)
Ramona, perdon Ray, ha sedici anni, si sente un ragazzo e vuole essere un ragazzo come tutti gli altri: indossa pantaloni e maglioni larghi, camice a quadri di pesante flanella e scarponi gialli. A scuola si comporta secondo la sua vera natura, provando sentimenti verso una sua compagna, nel quartiere viene visto girovagare con il suo skateboard, adottando il tipico look di un giovane dell’East Village newyorkese. Ray (Elle Fanning) vive in una famiglia di sole donne dal momento che sua madre Maggie (Naomi Watts) da anni non ha più contatti con il suo uomo, e la nonna Dolly (Susan Sarandon) vive da sempre un equilibrato ménage con la sua compagna Frances (Linda Emond). Una famiglia, più o meno, come tante altre che si trova ad affrontare il delicato problema della crescita di un figlio adolescente: non tanto nella ricerca del proprio orientamento sessuale, quanto piuttosto nella determinazione di riconoscere la propria identità e prendere atto di essere nato in un corpo che non gli appartiene. Il film di Gaby Dellal si fa subito amare per la delicatezza con la quale vengono affrontate le diverse dinamiche all’interno del nucleo familiare. In casa tutte sono animate da buoni sentimenti e rispettano la decisione, oramai inconfutabile, presa da Ray di iniziare la terapia ormonale che lo spingerà in una nuova dimensione dove non sono ammessi ripensamenti. Tutte, ognuno a modo proprio, sono pronte ad affrontare questa sfida che le impegnerà in prima persona anche a confrontarsi con problemi di identità nei confronti di sé stesse. Film divertente ed intelligente che però nel contempo coinvolge lo spettatore in tematiche che possono risultare anche molto forti per chi è ancora legato a schemi sociali preconfezionati dove c’è poco spazio per la tolleranza e il rispetto delle scelte altrui. La sceneggiatura, curata dalla stessa regista insieme a Nikole Beckwith, è bene equilibrata e mette in risalto la recitazione dell’intero cast che, inutile dirlo, raggiunge altissimi livelli. Elle Fanning, bravissima nel ruolo di Ray, è un transgender felice di poter finalmente affrontare comportamenti e tematiche maschili e ci insegna che è anche bello presentarsi a casa con un occhio nero dopo aver fatto a cazzotti per strada. Il film andrà in sala il 24 novembre.
data di pubblicazione:13/10/2016
da Antonio Iraci | Ott 13, 2016
Dopo la morte dell’unico figlio, soldato al fronte, una coppia di berlinesi prende coscienza della vera missione del nazismo ed avvia una costante resistenza che consiste nel lasciare in posti strategici cartoline anonime per sensibilizzare la popolazione a ribellarsi a Hitler e al suo regime.
L’ultima edizione della Berlinale ci ha regalato questo piccolo gioiello cinematografico, firmato dall’attore e regista svizzero Vincent Pérez e fedelmente tratto dall’ultimo romanzo che lo scrittore tedesco Hans Fallada scrisse nel 1946. Il film narra dei coniugi Anna (Emma Thompson) e Otto Quangel (Brendan Gleeson), che vivono in una Berlino euforica dopo il successo dell’offensiva contro la Francia da parte delle truppe naziste. Dopo aver ricevuto la notizia che il loro unico figlio è morto al fronte in un’ imboscata la coppia, di comune accordo, inizierà un’accanita resistenza pacifica impegnandosi nella distribuzione, in luoghi pubblici e privati, di cartoline scritte a mano da loro stessi e contenenti messaggi di propaganda contro il regime. Il film, tratto da una storia vera, è da considerarsi un omaggio alla memoria di Otto ed Elise Hampel, che pagarono con la vita il coraggio di opporsi al fanatismo dilagante, affrontando i pericoli generati dalla loro azione e sfidando la spietata caccia avviata dalla Gestapo nei loro confronti. Splendida l’ambientazione scenografica in una Berlino del 1940, quando ancora serpeggiava per strada la convinzione di essere prossimi a vincere la guerra, senza il benché minimo sospetto della catastrofe che, di lì a pochi anni, avrebbe portato alla disastrosa capitolazione della Germania. Ottima la fotografia che ha usato luci al naturale, con una pellicola dai toni sgranati, proprio per rendere quanto mai realistica l’atmosfera grigia e cupa della Berlino di quegli anni. Il regista, che per la verità è noto ai cinefili più per le sue performances da attore, non ha voluto solo narrare una storia sulla resistenza come realmente accaduta, ma è entrato intenzionalmente dell’intimo dei personaggi coinvolti nella vicenda, esaminando soprattutto le sfumature comportamentali dei coniugi che in questa azione comune trovano una nuova intesa affettiva, perduta dopo la morte del figlio. Particolarmente toccante l’interpretazione di Emma Thomson che, entrando nella psicologia del ruolo interpretato, riesce alla perfezione a coinvolgere emotivamente il pubblico in sala. Nonostante il film non abbia ottenuto alcun riconoscimento al Festival berlinese, ha ottenuto però un grande consenso da parte della stampa internazionale allora presente che lo giudicò molto positivamente consigliandone la visione.
data di pubblicazione:13/10/2016
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