da Antonio Iraci | Gen 6, 2017
Florence Foster Jenkins, ricchissima ereditiera e figura di spicco del “jet set” newyorkese degli anni quaranta, è intimamente convinta di essere dotata di un buon talento vocale per diventare una eccellente cantante lirica. Nella realtà però il suo canto è gracchiante e sgradevole, privo di una qualsiasi coloritura timbrica e di una benché minima tecnica sonora. Incoraggiata dal (poco) fedele marito St. Clair Bayfield e da Cosmé Mc Moon, il pianista personale che l’accompagna nelle disastrose esibizioni musicali, Florence riuscirà ad organizzare un recital personale alla famosa Carnegie Hall con il pretesto di intrattenere le truppe impegnate al fronte, durante il secondo conflitto mondiale. Il prevedibile fiasco porterà con sé la consapevolezza che il fermo e irrinunciabile desiderio canoro di Florence era solo una chimera e che i successi sinora ottenuti erano solo una farsa organizzata dal consorte con la complicità di un pubblico compiacente e di una critica abilmente manipolata.
Il film di Stephen Frears (regista britannico che ha firmato pellicole quali Le relazioni pericolose, The Queen e il meno convincente Philomena) racconta al grande pubblico la vera storia di una donna dell’alta borghesia di New York, melomane ed amica personale di Arturo Toscanini, convinta di possedere una voce e doti di cantante che in realtà non possedeva. Questa sua convinzione, affettuosamente sostenuta dal coniuge che la assecondava in tutto perché convinto che il canto era l’unica arma per arginare una brutta malattia che affliggeva la consorte da anni, è anche il punto di forza di questa donna che divenne una sorta di fenomeno, incidendo dischi e tenendo concerti che divennero dei veri e propri “eventi” mondani. Tuttavia Frears porta sul grande schermo una storia non originale: essa è già stata raccontata nel film Merguerite presentato nel 2015 alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, poco apprezzato nelle sale seppur abbia vinto diversi Cèsar (tra cui quello a Catherine Frot nei panni della protagonista), la cui produzione più modesta ha richiesto tempi di lavorazione meno lunghi della attuale versione inglese. Nel cast di Florence oltre al “mostro” Meryl Streep, sono altrettanto (se non di più) indiscutibilmente bravi il mai troppo lodato Hugh Grant, perfetto nel ruolo del marito, e Simon Helberg in quello del pianista che scende ad incredibili compromessi pur di lavorare: sono loro che fanno raggiungere alla pellicola quel sufficiente grado di piacevolezza e divertimento che coinvolge il pubblico sino agli ultimi (stucchevoli) acuti di Florence. Ma, nonostante le candidature dei tre interpreti ai Golden Globe, la sceneggiatura esile del film evidenzia principalmente l’aspetto alquanto caricaturale dei personaggi che, seppur facciano sorridere lo spettatore, distolgono dal dramma reale di questa donna malata, che riesce a vivere la sua viscerale passione per il bel canto grazie ad un marito che a modo suo l’ha amata e le ha consentito di vivere e raggiungere una, sia pur apparente, felicità stonando e strepitando. Florence dopo la sua morte divenne famosa davvero: inevitabile epilogo di ogni artista che si rispetti.
data di pubblicazione:06/01/2017
Scopri con un click il nostro voto:
da Antonio Iraci | Dic 22, 2016
Il film tratta di un ritiro, poi trasformatosi in una orgia erotico-culinaria, di quattro amici che si chiudono in una villa, nei dintorni di Parigi, con l’intento di mangiare fino alla morte. Il primo dei quattro è Ugo (Ugo Tognazzi) chef di un ristorante, di cui è anche proprietario, che decide di suicidarsi a causa dei continui battibecchi con la moglie. Poi c’è Michel (Michel Piccoli) importante produttore televisivo, divorziato e molto stanco delle vita che conduce. Segue Marcello (Marcello Mastroianni) pilota, con la fissazione per il sesso. Infine Philippe (Philippe Noiret) magistrato che vive ancora con la vecchia balia che lo custodisce gelosamente impedendogli di avere rapporti con le altre donne. I quattro amici quindi si riuniscono in questa villa, facendo grandi scorte di cibo e predisponendosi a grandi abbuffate che li porteranno alla morte. Nella loro ferma determinazione suicida verranno aiutati da Andréa (Andréa Ferréol) che era entrata nel giardino della villa per accompagnare una scolaresca in visita. Avendo subito intuito il motivo di quella strana riunione tra amici decide di rimanere con loro per aiutarli nel loro intento fino alla morte di tutti e quattro. Il film presentato a Cannes fu subito stroncato dalla critica e pesantemente censurato per le esplicite scene di sesso nonché per alcune situazioni ritenute veramente volgari e offensive. Stranamente fu invece accolto molto favorevolmente dal pubblico che ne diede una lettura sociale, una spietata critica alla società dei consumi e del benessere, condannata ad una inevitabile autodistruzione, passando da una degradazione dell’uomo in tutte le sue manifestazioni della vita comune. Non a torto il film sembrò anticipare di un paio d’anni un altro “Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pasolini, anch’esso salvato dall’ira dei critici proprio per il coraggio dimostrato dai due registi di saper affrontare, in maniera graffiante, delicati temi della società moderna. Ugo, nel film, tra le tante pietanze prepara un pasticcio di fegato che ci suggerisce questo patè, ottimo per farcire dei crostini molto saporiti da servire come antipasto.
INGREDIENTI: 600 grammi di fegatini di pollo – 150 grammi di burro – una cipolla bianca grande – 2 foglie d’alloro – mezzo bicchiere di cognac – sale e pepe qb.
PROCEDIMENTO: Fare sciogliere a fuoco lento in una terrina il burro e aggiungere la cipolla bianca finemente tritata e lasciarla imbiondire. Aggiungere i fegatini ben lavati e fare cuocere a fuoco più sostenuto per circa mezzora insieme alle foglie d’alloro, con un poco di sale e pepe. A fine cottura aggiungere il mezzo bicchiere di cognac e lasciare sfumare. Appena i fegatini si saranno intiepiditi frullare il tutto e sistemare in una forma e conservare in frigo. Il patè, prima di essere usato spalmato sui crostini, va comunque portato a temperatura ambiente.
da Antonio Iraci | Dic 22, 2016
Alla vigilia dei Giochi Olimpici di Roma del 1960, in un piccolo paesino calabro, un ragazzo appena tredicenne chiamato Mimì (Santo Polimeno) di famiglia molto disagiata, si allena come atleta di nascosto al padre (Diego Abatantuono) che invece gli impone di studiare per raggiungere una posizione sociale e migliorare la condizione economica familiare. La madre (Thérèse Liotard), accordasi della passione del figlio, lo difende energicamente e prende posizione contro il padre despota. In aiuto del ragazzo interverrà Felice (Gian Maria Volontè) che pur lavorando come autista di corriera, troverà il tempo per diventare l’allenatore personale di Mimì. Il ragazzo seguirà attentamente tutte le gare podistiche delle Olimpiadi entusiasmandosi ancora di più e convincendosi che quello sarà l’obiettivo della sua vita. Infatti Mimì riuscirà a realizzare il suo sogno e riuscirà ad ottenere la sua prima vittoria da campione proprio a Roma durante i giochi della Gioventù. Il film colpisce per la delicatezza del tema trattato e per la naturalezza della recitazione del giovane, scelto dal regista in maniera del tutto casuale tra gente non professionista dello schermo. Ottima anche la recitazione di Gian Maria Volontè che ottenne anche un premio secondario al Festival di Venezia di quell’anno, specialmente per l’uso molto appropriato dell’espressione dialettale locale. La Calabria, con i suoi contrasti di sapori, ci propone una ricetta saporita: panzerotti calabri.
INGREDIENTI: 400 grammi di farina bianca “00” – un dado di lievito di birra – latte qb – 200 grammi prosciutto cotto – 200 grammi mortadella – 200 grammi mozzarella per pizza – olio per frittura – sale e pepe qb.
PROCEDIMENTO: Aggiungere alla farina piano piano il latte tiepido dove è stato fatto sciogliere il lievito di birra. Aggiungere un pizzico di sale e lavorare bene il tutto sino ad ottenere un impasto morbido. Lasciare riposare. Intanto preparare il condimento tagliando a listarelle sottili il prosciutto, la mortadella e la mozzarella, aggiungere un poco di pepe. Dividere l’impasto in piccole porzioni, spianare con il mattarello in modo da ottenere dei ravioli del diametro di circa 12 centimetri. A questo punto riempire i panzerotti con il ripieno già preparato e richiudere a mezza luna stando bene attenti che i bordi, precedentemente inumiditi, siano ben sigillati. Una volta preparati si può procedere alla frittura. Sistemare i panzerotti su carta da cucina assorbente e servire poi ben caldi.
da Antonio Iraci | Dic 20, 2016
Il film presenta il ritratto di famiglia di un ricco imprenditore milanese, includendo i riti e le convenzioni borghesi che si consumano entro le mura domestiche. Emma (Tilda Swinton) moglie russa del ricco industriale Tancredi Recchi (Pippo Delbono), vive nel lusso della villa al centro di Milano (la dimora è la famosa villa Necchi Campiglio, oggi gestita dal FAI) insieme ai tre figli Gianluca (Mattia Zaccaro Garau), Elisabetta (Alba Rohrwacher) e Edoardo (Flavio Parenti). Mentre Gianluca segue le orme paterne anche nell’attività imprenditoriale, Edoardo invece è di carattere simile alla madre, lontano dalla mentalità cinica e borghese propria del suo ambiente. Insieme al suo amico Antonio (Edoardo Gabbriellini) decidono di aprire un ristorante in campagna sulla costa ligure approfittando delle esperienze di chef di Antonio. L’incontro casuale di questi con Emma, che poi si consoliderà in una appassionata storia d’amore, romperà definitivamente i falsi equilibri su cui poggiava la già traballante struttura familiare, tra agi e ipocrisie tipiche di un certo ambiente borghese milanese. Antonio, di basso ceto sociale, è l’unico quindi che non appartiene a questo contesto e pertanto è l’unico che riesce a risvegliare i sentimenti di Edoardo, come amico, e di Emma, come amante segreta. La vicenda avrà un epilogo fatale, ma metterà finalmente chiarezza all’interno del nucleo familiare. Ottima l’interpretazione di Tilda Swinton che riesce perfettamente ad interpretare la figura di una esotica padrona di casa costretta a reprimere le proprie emozioni per uniformarsi al modus vivendi dell’alta borghesia milanese. Sulla tavola della famiglia Recchi si alternano pietanza raffinate e semplici come questo timballo di mezze maniche con verza al forno.
INGREDIENTI: 400 grammi di mezze maniche rigate – 500 grammi di verza lessata – 200 grammi di pancetta affumicata – 150 grammi di provola dolce – 50 grammi di burro – 4 uova – 3 cucchiai di panna fresca – sale e pepe qb.
PROCEDIMENTO: Sbattere le uova con la panna, salare e pepare. Rosolare la pancetta con il burro, unire la verza già lessata tagliata a listarelle, la provola a dadini e cuocere per circa due minuti. Lessare la pasta molto al dente e condirla con la crema di uova e panna e con la verza saltata. Imburrare una teglia e versarvi la pasta. Fare cuocere al forno a 200 gradi per circa 30 minuti, qualche minuto sotto il grill per gratinare un poco. Servire le mezze maniche non eccessivamente calde ma dopo averle fatte riposare un poco fuori dal forno.
da Antonio Iraci | Dic 9, 2016
Shun Li (Zhao Tao) è una immigrata cinese che lavora in una fabbrica tessile facendo turni massacranti pur di ripagare il suo debito e poter far venire in Italia suo figlio rimasto intanto in Cina. Trasferitasi a Chioggia, inizia a lavorare come barista in una osteria frequentata essenzialmente da vecchi pescatori, dove, dopo un periodo di sbandamento a causa della poco padronanza della lingua, farà amicizia con un uomo da tutti chiamato il Poeta (Rade Serbedzija). Li inizierà con lui, immigrato dalla Jugoslavia molti anni prima, una intensa relazione che non troverà approvazione né da parte degli italiani né da parte dei cinesi. Per non compromettere la possibilità di far arrivare suo figlio, Li interrompe bruscamente la relazione con il Poeta e va a lavorare in una fabbrica. Con grande gioia un giorno la donna verrà arrivare improvvisamente suo figlio dalla Cina e subito pensa che sia stato il Poeta ad aiutarla segretamente. Il film che nasce da una storia vera, affronta anche metaforicamente il problema dell’integrazione degli immigrati attraverso il racconto di come vivono e pensano. Ambientato quindi in luoghi reali e con personaggi reali, il film sviluppa un linguaggio tutto proprio attingendo proprio dal genere documentario anche per la scelta linguistica, dal momento che viene utilizzato il dialetto di Chioggia. Presentato alla 68° edizione del Festival del Cinema di Venezia, ottenne un premio secondario proprio per la delicatezza dell’argomento trattato, nonché altri premi internazionali e infine anche un David di Donatello a Zhao Tao, quale migliore attrice protagonista. Pur ambientato tra i vecchi pescatori veneti, il film ci suggerisce una ricetta dal tocco un poco cinese in quanto si tratta di un filetto di maiale in agrodolce.
INGREDIENTI: 600 grammi circa di filetto di maiale – 2 radicchi trevigiani – 40 grammi di burro – ½ bicchiere di vino bianco – 1 cipolla bianca – 50 grammi di burro – 3 spicchi d’aglio – una spruzzata di aceto bianco – 1 cucchiaio di miele d’acacia – una manciata di uvetta – 1 rametto di rosmarino e 4 foglie di salvia – due cucchiai d’olio extravergine d’oliva – sale e pepe qb.
PROCEDIMENTO: Lavare il radicchio, eliminare la parte dura e tagliarlo a spicchi molto sottili. Tritare la cipolla e stufarla in una casseruola con l’olio. Unire quindi il radicchio, aggiungere il miele e quando inizia a caramellare spruzzare l’aceto. Fare sfumare bene, salare e pepare, quindi aggiungere l’uvetta precedentemente ammollata a fare cuocere il tutto a fiamma bassa per circa 6 minuti. Intanto salare e pepare bene il filetto e rosolarlo bene in una casseruola con il burro, l’aglio in camicia schiacciato. Sfumare poi con il vino ed aggiungere il rosmarino intero a la salvia sminuzzata. Fare cuocere per circa 8 minuti rigirando spesso la carne. Fare riposare un paio di minuti ed affettare il maiale che verrà servito con il radicchio brasato.
Gli ultimi commenti…