da Antonio Iraci | Gen 24, 2017
(Teatro dell’Opera di Roma, 18/27 gennaio 2017)
Esistono numerosi scritti sulla singolare figura di Lorenzo Da Ponte, uomo di grande talento ed il cui nome è quasi sempre associato a quello di Mozart per aver scritto i libretti delle sue tre opere più significative: Le Nozze di Figaro, Don Giovanni, e per ultima, ma non per importanza, Così fan tutte. Dell’immensa opera musicale di Mozart credo ci sia poco o meglio nulla da dire perché tutti lo conoscono; di Da Ponte, invece, pochi sanno che pur indossando l’abito talare aveva un carattere molto libertino, e conduceva una vita spregiudicata arrivando persino a essere processato con l’accusa di pubblico concubinaggio per aver organizzato festini nei più noti bordelli del tempo. Amico intimo di Giacomo Casanova, dopo la disastrosa parentesi ecclesiastica, condusse una vita tumultuosa che lo portò a lavorare a Londra e poi definitivamente a New York, dove morì novantenne. Prima ancora di tutto questo aveva vissuto a Vienna, richiamato dal celebre compositore Antonio Salieri che lo aveva inserito come poeta di corte presso l’imperatore Giuseppe II. Secondo l’usanza dell’epoca, si richiedeva l’uso tassativo della lingua italiana nelle opere liriche, per cui Da Ponte, esperto di letteratura oltre che dell’intima natura degli intrecci amorosi settecenteschi, non ebbe difficoltà a scrivere libretti per vari compositori, incluso il già noto Mozart. Prendendo spunto dalla messa in scena di Così fan tutte presso il Teatro dell’Opera di Roma, con la regia di Graham Vick e la direzione di Speranza Scappucci, si riaprono alcune controversie interpretative circa l’idea che Da Ponte aveva del gentil sesso che tempo addietro fece insorgere il movimento femminista per quel titolo tanto provocatorio che era stato scelto per l’opera mozartiana. Ancora oggi ci si chiede: Perché così fan tutte e non così fan tutti? Ad un attento esame del libretto potrebbero venir fuori riflessioni interessanti su ciò che Da Ponte aveva da dire sulle donne. Al centro della vicenda le due sorelle ferraresi Dorabella e Fiordiligi che vivono a Napoli, fedeli ai loro rispettivi amanti Ferrando e Guglielmo, in attesa di convolare a nozze che oramai sentono vicine. Don Alfonso, vecchio filosofo, scommette con i due amici che le donne, incluso ovviamente le loro, per natura sono infedeli (E’ la fede delle femmine come l’araba fenice, che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa… Atto primo, Terzetto) e quindi li induce a scommettere cento zecchini sulla loro lealtà, mentre a lui spetterà il compito di dimostrare che anche le loro fidanzate non sono proprio questo esempio di virtù. Don Alfonso architetta un piano in cui Ferrando e Guglielmo simuleranno di dover improvvisamente partire, perché richiamati al fronte. Alle due ragazze non rimarrà che piangere e disperarsi per la partenza in nave dei giovani (Soave sia il vento, tranquilla sia l’onda ed ogni elemento benigno risponda ai nostri desir…Atto primo, Terzettino). Ritornati sulla scena, camuffati da due ricchi e baffuti albanesi, i due cercheranno, aiutati dalla cameriera Despina e dallo stesso Don Alfonso, di conquistare il cuore delle ragazze arrivando persino a simulare di avvelenarsi con l’arsenico pur di non venire respinti. Le due si mostrano invece risolute a difendere con ogni mezzo la promessa d’amore data, rimanendo fedeli ai rispettivi amanti (Come scoglio immoto resta contra i venti e la tempesta, così ognor quest’alma è forte nella fede e nell’amor… Atto primo, Aria). A questo punto l’astuta Despina impartisce loro una pratica lezione di vita convincendole che non c’è nulla di male ad accettare la corte di due giovani belli e danarosi e che il divertirsi un poco con loro non ha alcuna rilevanza dal momento che i fidanzati, lontani da casa, sicuramente si daranno anche loro da fare (E piuttosto che in vani pianti perdere il tempo, pensate a divertirvi…far all’amor come assassine e come faranno al campo i vostri cari amanti…Atto primo, Recitativo). Solo verso la metà del secondo atto le due ragazze cederanno alle promesse d’amore dei nuovi spasimanti e acconsentiranno di convolare con loro a nozze, dimenticando Ferrando e Guglielmo. Ma un improvviso contrordine farà sì che i due giovani rientrino dal campo di battaglia sorprendendo le due ragazze sul punto di stipulare un contratto nuziale, tutto organizzato per burla da Don Alfonso. Di fronte alla disperazione di Dorabella e Fiordiligi, che smascherate confesseranno di essersi lasciate raggirare, ai due giovani non resterà che confessare comunque il loro amore e tornare alle rispettive fidanzate per sposarle. Esaminando a fondo il libretto, contrariamente all’opinione comune che accusava Da Ponte di avere scarsa considerazione delle donne, emerge invece un desiderio palese di prendere le loro difese in quanto vittime inermi delle insidie e dei raggiri degli uomini. Dietro frasi esilaranti e spesso a doppio senso, il librettista esalta quindi la saggezza e la rettitudine femminile in contrapposizione alla irruenza maschile, indice di evidente immaturità. Sarà infatti compito delle donne smascherare gli uomini per evitare di cadere nei tranelli che loro stessi hanno ingenuamente organizzato a scopo di seduzione.
Così fan tutte costituisce pertanto un perfetto gioco di simmetrie e di bilanciati contrappunti che pongono i protagonisti in un perfetto equilibrio di azione e reazione. E’ vero che alle fine Dorabella e Fiordiligi cederanno alle lusinghe dei due falsi pretendenti, ma solo dopo aver resistito invano alle macchinazioni del cinico Don Alfonso (V’ingannai, ma fu l’inganno disinganno ai vostri amanti, che più saggi omai saranno…abbracciatevi e tacete tutti quattro ora ridete, ch’io già risi e riderò… Finale secondo atto, Don Alfonso).
Mentre la musica mozartiana raggiunge vertici di assoluta perfezione, lo spettatore viene introdotto per mano verso un grande finale che solo un uomo colto e licenzioso come Da Ponte poteva immaginare. Il concertato di chiusura racchiude infatti una sapiente morale, un insegnamento a tutti coloro, fedeli o infedeli, che mal si predispongono nei confronti della vita: Fortunato l’uom che prende ogni cosa pel buon verso e tra i casi e le vicende da ragion guidar si fa. Quel che suole altrui far piangere fia per lui cagion di riso e del mondo in mezzo ai turbini bella calma troverà… Proprio saggio questo Da Ponte!
data di pubblicazione:24/01/2017
da Antonio Iraci | Gen 18, 2017
Ernst Lossa è un tredicenne orfano di madre e con un padre senza fissa dimora, appartenente al gruppo nomade degli jenisch. A causa della sua natura ribelle, Ernst viene identificato come soggetto dai comportamenti disturbati e, dopo aver trascorso molti anni nei riformatori, viene internato in una unità psichiatrica diretta dal dottor Veithausen. Ci troviamo nella Germania nazista, e nella clinica dove si trova il ragazzo vengono applicate alla lettera le direttive di un documento firmato da Hitler e denominato “T4” che prevede una sorta di “eutanasia” per coloro che possiedono malattie mentali o ereditarie, con un grado di disabilità ritenuto irrecuperabile. Ernst prenderà atto di quanto sta accadendo ai bambini del reparto, dove lui stesso è ricoverato, e cercherà di opporre resistenza, denunciando senza mezzi termini i crimini di cui giornalmente è testimone. In questo luogo senza speranze, Ernst troverà nella piccola Nandl il suo grande amore.
Al regista tedesco Kai Wessel va riconosciuto, senza dubbio alcuno, il merito di aver regalato al pubblico, con questo suo ultimo e ben riuscito film, un piccolo capolavoro traghettandoci nella storia di una delle tante vittime della efferata logica nazista,. Il linguaggio cinematografico utilizzato è asciutto e senza retorica, con una sequenza di immagini crude e realistiche che riescono a raggiungere, al tempo stesso, momenti di altissima e sconfinata poesia. Qui, forse per la prima volta, non si parla di persecuzione degli ebrei, ma di “eutanasia” per nascondere quella che fu, senza mezzi termini, una eliminazione sistematica di una parte della popolazione tedesca ritenuta disabile e quindi incapace di contribuire attivamente allo sviluppo del paese. I medici, esecutori principali di questi crimini, decidevano chi eliminare sottoscrivendo diagnosi che attestassero l’incurabilità dei loro pazienti, in prevalenza bambini, che venivano soppressi solo perché colpevoli di consumare risorse che lo Stato avrebbe potuto indirizzare a scopi economicamente più validi. Attraverso l’occhio attento di Ernst, lo spettatore stesso si trova ad essere testimone di questi atroci delitti perpetrati all’interno della clinica psichiatrica dove erano ricoverati centinaia di pazienti, gente inerme e quindi incapace di un benché minimo atto di ribellione. La fotografia, nel suo rigore, non lascia spazio a sbavature ma si focalizza sulla essenzialità di situazioni vere, come a non voler dare spazio a equivoci interpretativi sul trattamento disumano a cui erano sottoposti i malati. Il regista, raccontandoci questa storia vera, porta a conoscenza delle nuove generazioni un aspetto assai poco noto delle atrocità del nazismo che si potrebbe considerare come un “precedente metodologico” che verrà applicato successivamente anche nei confronti degli ebrei. Oltre a questo aspetto, che si potrebbe definire storico, c’è un altro elemento degno di riflessione che, prendendo spunto dalle condizioni di quei degenti, riguarda invece la società di oggi e di come viene affrontato il problema della disabilità, e della diversità in generale, senza volerla minimizzare ma neanche farne oggetto da esibire. Il diversamente abile di oggi è colui che un tempo era il diverso, e questo cambio di terminologia dovrebbe assumere in ognuno di noi un significato molto profondo. Cast di alto livello, ottima l’interpretazione di Sebastian Koch nella parte del dottor Veithausen (recentemente lo avevamo apprezzato nel film In nome di mia figlia accanto a Daniel Auteuil), di grande impatto emotivo la performance dei bambini-pazienti ed in particolare quella di Ivo Pietzcker nel ruolo del giovane Ernst Lossa, con la sua carica di umanità in quel suo prendersi cura dei più deboli. Commovente il suo istinto di sopravvivenza, pur in una situazione evidentemente senza scampo, quando di notte guardando il cielo già si immaginava in America insieme alla sua Nandl, proiettato verso un futuro migliore.
data di pubblicazione:18/01/2017
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da Antonio Iraci | Gen 18, 2017
Marie e Boris, in crisi dopo quindici anni di matrimonio, hanno deciso di separarsi. Anche se lei non sopporta più neanche la vista del marito, di fatto però devono vivere forzatamente ancora sotto lo stesso tetto in quanto lui non ha un lavoro stabile e non può permettersi di trasferirsi altrove. Marie, sempre di cattivo umore, trova ogni possibile pretesto per umiliare Boris di fronte alle loro due bambine, creando situazioni imbarazzanti e fastidiose per entrambi. Alle base dei loro litigi la questione economica da concordare: lui promette di andarsene una volta ottenuta una congrua somma di denaro a titolo di indennizzo per i lavori di ristrutturazione fatti a suo tempo nella casa dove abitano, di cui lei è proprietaria.
Il film Dopo l’amore del belga Joachim Lafosse, molto acclamato nello scorso Festival di Cannes dove è stato presentato nella Sezione Quinzaine des Realisateurs, ci fa riflettere sulle dinamiche di coppia in crisi e come le stesse possano improvvisamente trasformarsi in un crescendo di rancore e odio. I due protagonisti certamente si sono un tempo amati ma oggi nessuno dei due è disposto a sopportare la presenza dell’altro. Ogni discorso iniziato, ogni semplice parola pronunciata, diventano pretesto per scatenare una lite furiosa che solo la presenza delle loro due bambine riesce talvolta a mitigare. La scene si svolgono prevalentemente in uno spazio chiuso, ma non claustrofobico, delimitato dall’interno della casa e del piccolo giardino antistante, il tutto ben protetto dalla vita che si svolge all’esterno. La storia non può che definirsi banale: le questioni economiche che poi diventano il fulcro su cui poggia l’oggetto del contendere di una coppia in crisi non può che ritenersi argomento scontato, non a caso il titolo originale scelto dal regista è L’économie du couple che rimanda non solo alle diatribe sul denaro, ma soprattutto alla gestione vera e propria del rapporto affettivo con i figli, con la richiesta ossessiva del rispetto dei tempi e degli spazi rigorosamente assegnati a ciascuno dei due coniugi. Di fronte a tanta acredine lo spettatore non sa da che parte schierarsi perché l’apparente cattiveria di Marie trova le sue ragioni nel fatto che Boris è incapace di mantenere la famiglia e accumula debiti su debiti che lei regolarmente salda. Molto credibili Bérénice Bejo e Cédric Kahn nel ruolo dei protagonisti: lei ben conosciuta per il film The Artist di Michel Hazanavicius che le valse il Premio César come migliore attrice e ne Il passato di Asghar Farhadi dove vinse a Cannes il premio come migliore attrice; lui meglio noto in Francia come sceneggiatore e regista e meno come attore (Un amore all’altezza di Laurent Tirard).
data di pubblicazione:18/01/2017
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da Antonio Iraci | Gen 13, 2017
Emad e Rana sono felicemente sposati ed il loro è un rapporto molto stabile sia nell’ambito domestico, che in quello teatrale dove entrambi sono impegnati come protagonisti sulla messa in scena del celebre dramma Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller. A causa di un cedimento strutturale dell’edificio dove abitano, sono costretti a trasferirsi temporaneamente in un appartamento messo generosamente a disposizione da un altro attore della compagnia. La casa in precedenza era abitata da una donna con un vissuto che i vicini ritengono poco raccomandabile, dato il frequente via vai di uomini che andavano a trovarla. Per una circostanza meramente fortuita Rana viene aggredita in casa da un uomo mentre è in bagno a fare una doccia: da quel momento la coppia comincia avere dei “cedimenti strutturali” come simbolicamente evidenziano le crepe sui muri della loro camera da letto.
Asghar Farhadi, regista, sceneggiatore e produttore iraniano noto in campo internazionale, nel 2011 è stato insignito dell’Orso d’oro a Berlino per il film Una separazione, successivamente premiato anche ai Golden Globe e con l’Oscar come miglior film straniero. Con Il Cliente Farhadi propone una attenta riflessione su un dramma nato all’interno del nucleo familiare, ma che si relaziona con un contesto sociale più generale, quello del suo paese, dove ancora risultano molto evidenti le contraddizioni che caratterizzano l’atteggiamento comune dei confronti delle donne. Rana, la protagonista femminile, apre incautamente la porta di casa ad uno sconosciuto convinta che sia il marito, ma l’aggressione da parte dell’intruso, che immediatamente fugge, la umilia profondamente per essere stata vista nuda dai vicini accorsi in suo aiuto sentendo le sue grida. Ciò che pensa la gente è la sua vera violenza. Emad, il marito, dal canto suo rimane sconvolto per quanto accaduto, ma di fronte all’ostinazione della moglie di non voler sporgere denunzia alla polizia, inizia da solo una caccia spietata verso l’aggressore con il reale intento di lavare l’oltraggio subito. E’ dunque la vendetta l’unica cosa che lo interessa. Lentamente l’intesa tra marito e moglie sembra sgretolarsi, alimentata solo da senso di paura, sfiducia ed onore ferito.
L’abilità cinematografica del regista, oltre ad evidenziare uno studio profondo sulla personalità dei due protagonisti, si basa sulla capacità di saper porre lo spettatore di fronte a due drammi distinti, ma per alcuni tratti convergenti, che riguardano rispettivamente l’accaduto e ciò che invece viene rappresentato nell’azione teatrale, in cui i due si trovano a recitare in coppia.
In entrambi ci si focalizza sulla figura maschile, ancora troppo egocentrica nel tessuto sociale: l’uomo, al centro della scena, vede mettere in seria discussione i propri principi etici e non si riconosce in una società in rapida evoluzione, non riuscendo o non volendo essere al passo con i tempi. Bravissimi gli interpreti.
data di pubblicazione:13/01/2017
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da Antonio Iraci | Gen 12, 2017
Clara, critica musicale oramai in pensione, vive accudita da una fedele domestica nell’ Aquarius, un vecchio stabile di pochi piani attorniato dai grattacieli che danno sul lungomare di Recife. Clara è l’unica inquilina rimasta all’intero dello stabile in quanto tutti gli altri proprietari hanno già da tempo venduto i propri appartamenti ad una società immobiliare, dai traffici poco chiari, che intende rilevare in blocco l’intero edificio per costruire abitazioni di lusso. La donna vedova e con i figli oramai sistemati, si troverà a lottare con caparbia ostinazione contro Diego, giovane ambizioso e responsabile del progetto, allo scopo di difendere la casa dove ha sempre vissuto, circondata dai propri affetti e dai ricordi legati ad una giovinezza oramai lontana.
Era il 1985 quando apprezzammo Sonia Braga ne Il bacio della donna ragno di Hèctor Babenco, a distanza di nove anni da quando nel 1976 la vedemmo per la prima volta nel film di Bruno Barreto Donna Flor e i suoi due mariti, basato sull’omonimo romanzo di Jorge Amado: lo sguardo intenso di allora, appena ventiseienne, non è cambiato ed oggi l’attrice brasiliana ritorna sul grande schermo, dopo anni di assenza, quanto mai in forma, e non solo fisicamente. Nel film Aquarius di Kleber Mendonça Filho interpreta una donna caparbia e battagliera, pronta a tutto pur di difendere il proprio appartamento e, soprattutto, quanto di ricordi in esso custoditi, contro una bieca speculazione edilizia decisa a raggiungere il proprio tornaconto a qualsiasi costo. Clara, ammalatasi da giovane di cancro al seno, ne porta ancora orgogliosamente i segni devastanti come “a non voler dimenticare” tutto del passato, le cose belle e quelle brutte, che l’hanno trasformata in quella che è orgogliosamente oggi. Una donna a cui gli anni non hanno affatto cancellato quel suo fare spigliato carico di una esuberante dose di sensualità, in ogni movimento dei fianchi, della folta chioma corvina, mantenendo intatto il ritratto tipico di donna brasiliana ancora piena di vita e che della vita si nutre.
Il film si regge prevalentemente sulla forte personalità del personaggio di Clara e sul carisma della sua splendida interprete, mentre la sceneggiatura appare agli occhi dello spettatore alquanto sfruttata nei suoi tratti essenziali: la speculazione che divora tutto come un cancro, tentando di spazzare via assieme alle vecchie mura dell’Aquarius ricordi e affetti, e la divisione del film (troppo lungo) in tre capitoli come le fasi della vita di Clara, proiettando ricordi del passato, integri e ben custoditi, nello sfacelo del presente corrotto e devastante, sono tutti elementi che nel loro insieme non brillano certo per originalità.
Sicuramente vincente è la splendida colonna sonora che accompagna le scene: famosi brani brasiliani degli anni ottanta che ci rimandano ai tempi d’oro della bossa nova quando anche in Italia imperversavano Carlos Jobim, Joao Gilberto, Toquinho e tanti altri ancora, brani che fanno da supporto ad una ambientazione ricca di saudade e sensualità.
data di pubblicazione:12/01/2017
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