da Antonio Iraci | Set 29, 2017
(Teatro India – Roma, 28/30 settembre 2017)
Al via la XXIV edizione del Garofano Verde presso lo spazio del Teatro India di Roma con due lavori che hanno molto interessato il folto pubblico in sala.
Il primo è stato Artemy di Simone Carella con Angelo Di Genio, Francesco Martino e Emanuela Villagrossi. I due protagonisti Anton e Artemy si ritrovano dopo venticinque anni casualmente sullo stesso treno diretti entrambi verso la città russa di Samara. Questo incontro sarà il pretesto per far affiorare ricordi di un passato non proprio felice visto che i due, allora studenti, si erano amati ma che per i pregiudizi generali incontrati erano stati costretti loro malgrado a vivere di nascosto la loro storia d’amore. Il testo risulta ben costruito tanto da fargli aggiudicare il Primo Premio nella sezione Testo Teatrale del Festival Colline di Torino, la cui Giuria era presieduta da Valter Malosti. Discreta la recitazione degli attori anche se un volume leggermente più alto avrebbe sicuramente favorito la comprensione dei dialoghi, serrati e ben cadenzati, ma che talvolta arrivavano al pubblico sfumati.
Del tutto diverso il secondo lavoro in programma: Biglietti agli amici di Pier Vittorio Tondelli a cura di Massimiliano Civica, che ne ha curato la presentazione in una forma, tra l’ironico e il tragico, che ha subito conquistato l’attenzione del pubblico. I 24 biglietti scritti agli amici, uno per ogni ora del giorno e della notte, con la supervisione di un angelo per ciascun giorno della settimana, costituiscono una summa del pensiero dello scrittore emiliano, scomparso tragicamente nel 1991 all’età di 36 anni. I biglietti sono stati letti da Carmelo Alù, che ha saputo ricreare con un timbro di voce freddo e distaccato una sorta di mantra elegiaco, quasi a sottolineare l’idea cosmica dell’abbandono, unico vero ineluttabile destino che segue l’uomo e l’universo intero. Un omaggio sentito e non patetico a uno scrittore che con il suo libro Altri libertini, riuscì a diventare un personaggio cult tra giovani negli anni Ottanta.
data di pubblicazione: 29/9/2017
Il nostro voto:
da Antonio Iraci | Lug 5, 2017
(Teatro India – Roma, 4 e 5 luglio 2017)
In questo primo scorcio del nuovo millennio abbiamo imparato obtorto collo a prendere familiarità con nuove espressioni artistiche che attraverso la pura sperimentazione ci hanno insegnato a digerire, non senza la necessaria concentrazione, quello che in termini architettonici viene definito come decostruttivismo. La forma viene scomposta nei suoi vari elementi primari per generare un caos che diventa, con un ossimoro, proprio l’elemento regolatore dei singoli frammenti e ne costituisce paradossalmente il nuovo legante. Prélude, spettacolo di danza ideato della coreografa Cristina Kristal Rizzo e presentato al Teatro India nell’ambito della rassegna il Teatro che Danza, sembra ricalcare questo concetto di base rivisitando, con una propria personale visione, l’idea di ensemble per lasciare spazio ad ogni singolo elemento danzante di manifestare la propria individualità. Qui preludio ed epilogo si sovrappongono senza soluzione di continuità. I protagonisti, tutti di elevata bravura, riempiono con i loro incessanti movimenti una scena vuota e semibuia, come monadi che esistono in maniera autonoma, tutte concentrate a rappresentare se stesse in una ricerca spasmodica di libertà mediante un’attività di attrazione-repulsione. Più che apprezzabile l’iniziativa del Teatro di Roma che con questo progetto, già iniziato il 13 giugno e che durerà fino a metà luglio e poi con una breve ripresa a settembre, ci presenta le nuove tendenze della danza contemporanea frutto del lavoro di giovani coreografi e danzatori provenienti da diversi paesi, ognuno con le proprie peculiarità nate in ambienti totalmente eterogenei. Ben riuscito il lavoro di Cristina Kristal Rizzo che si è avvalsa della collaborazione di Simone Bertuzzi/Palm Wine per la selezione musicale e di Caned Icoda per i costumi. Sicuramente un’esperienza interessante per il folto pubblico in sala, indotto ad elaborare un’astrazione dal proprio immaginario di danza e spinto a indagare un campo espressivo del tutto nuovo, affascinante e decisamente conciliabile con l’inquietudine del presente.
data di pubblicazione:05/07/2017
Il nostro voto:
da Antonio Iraci | Giu 22, 2017
(Teatro Brancaccio – Roma, 20 giugno 2017)
Sfiniti ma soddisfatti, i settanta attori dell’Accademia di Spettacolo L’Arte nel Cuore, riconosciuta a livello regionale e unica nel suo genere in Europa con l’obiettivo di abbattere ogni barriera che si contrappone tra la persona diversamente abile ed il resto del mondo, si sono esibiti nella nota commedia shakespeariana affrontando un testo certamente molto gravoso, ma che non ha minimamente smorzato il loro naturale entusiasmo di recitare, ballare e cantare di fronte ad un pubblico vero che li ha seguiti con vivo interesse e partecipazione.
Il lavoro è frutto di un costante impegno da parte di questi giovani attori, tutti normo-dotati e disabili, che si trovano insieme in un progetto di integrazione artistica che da dieci anni viene portato avanti da questa singolare Accademia i cui promotori, sotto la presidenza di Daniela Alleruzzo, sono infatti convinti che dove c’è talento non possano esistere pregiudizi che in qualche modo vadano ad impedire l’inserimento di soggetti disabili in un contesto lavorativo cinematografico e televisivo, al fine di seguire un percorso artistico professionalmente valido.
I corsi di studio spaziano dalla recitazione al doppiaggio, dal canto alla danza e vengono tenuti da docenti con spiccate capacità didattiche, supportati da una equipe psico-pedagogica che garantisce presenza costante ed sostegno durante lo svolgimento delle varie attività. Rispetto agli anni passati in cui venivano scelte commedie più leggere e divertenti, quest’anno è stato selezionato un testo singolare e con un intreccio narrativo non facile che prevede la comparsa di diversi personaggi mitologici in un contesto fiabesco e classico al tempo stesso. Veramente impeccabile la prova degli attori in un ambito scenico pieno di luci e colori a cura di Pasquale Cosentino.
Singolari anche i costumi ideati da Annalisa di Piero e le coreografie di Francesca Cinanni e Carmen De Sandi, che hanno contribuito egregiamente ad alleggerire il testo rendendolo più fruibile dal folto pubblico in sala.
Le tre ore di spettacolo sono volate via in un attimo, creando una atmosfera incandescente dovuta sia all’entusiasmo generale sia, purtroppo, alla mancanza totale di aria condizionata, unico neo di questa piacevolissima serata.
data di pubblicazione:21/06/2017
da Antonio Iraci | Giu 14, 2017
Ci troviamo in Normandia, inizio ‘800. Julien de Lamare, nobile squattrinato, viene presentato all’unica figlia del barone Le Perthuis des Vauds, Jeanne, con l’intento di combinare il matrimonio tra i due. La bella e aristocratica fanciulla si innamora subito dell’avvenente giovane e, con l’assenso dei genitori, accetta appassionatamente di sposarlo. Ben presto Julien si rivelerà un incorreggibile fedifrago e la sua falsità porterà Jeanne, divenuta nel frattempo madre del piccolo Paul, verso un lento inesorabile declino che lascerà spazio solo ai bei ricordi di una vita passata, unica risorsa per la quotidiana sopravvivenza ad un’esistenza segnata oramai solo da solitudine e miseria.
Tratto dalla prima opera completa di Guy de Maupassant del 1883, in cui lo scrittore non esitava ad affrontare con amaro realismo la società del suo tempo e le ipocrisie che la caratterizzavano, il film del regista francese Brizé mette in luce tutte le componenti espressive tipiche del romanzo dell’800, di cui lo stesso Maupassant ne fu il precursore. In effetti viene rispettata la dinamica propria del racconto, che sebbene molto articolato, non tralascia di ricorrere ad uno stile narrativo di sintesi, lasciando allo spettatore il compito di colmare quei vuoti temporali volutamente creati al fine di ricompattare, con la propria immaginazione, gli intrecci che caratterizzano l’intera vicenda. Tutto ciò si realizza attraverso un montaggio perfetto che risulta funzionale al pathos che il film intende trasmettere: i lunghi piano sequenza ed il formato adottato mettono bene in evidenza l’espressione dei volti e ci fanno cogliere, in maniera quasi impercettibile, il dramma interiore che travaglia nell’intimo l’animo dei protagonisti. A fare da contrappunto a questo universo quasi claustrofobico, il regista manda immagini di spazi aperti ed assolati in un quotidiano, frutto solo di ricordi di una spensieratezza che fu, che hanno lo scopo di seppellire una sofferenza oramai radicata che invece lascia poco spazio ad ogni tentativo di felicità. Jeanne (magistralmente interpretata da Judith Chemla), sarà costretta ad affrontare senza soluzione di continuità i colpi di un destino triste e spietato dove prima il marito e poi il figlio, le due persone che ama di più al mondo, non le lasceranno altro che il rifugiarsi nei ricordi di una vita spensierata perché non contaminata dal mondo esterno. Ma questi stessi ricordi sembrano incupire ancora di più il presente perché riportano la sventurata a rivivere i momenti in cui credeva solo nell’amore e nella verità, e non conosceva menzogna e tradimenti.
A dispetto dell’ambientazione che ricalca la mentalità dell’epoca, il film si lascia seguire con interesse per la splendida interpretazione degli attori, per la fotografia e la ricercatezza dei costumi.
Sembra inoltre indovinata la scelta di distribuire la pellicola in lingua originale con i sottotitoli, elemento questo che aggiunge un tocco di ulteriore raffinatezza al ben riuscito lavoro di Brizé.
data di pubblicazione:14/06/2017
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da Antonio Iraci | Giu 1, 2017
Claire è una ostetrica che da vent’anni svolge il suo lavoro in maniera ineccepibile. La donna è una madre single che ogni giorno deve affrontare i normali problemi sia in campo lavorativo che personale, perché il suo lavoro è seriamente a rischio a causa della chiusura del reparto maternità e nella vita privata perchè deve confrontarsi con le nuove scelte esistenziali del figlio ancora giovane. Improvvisamente irrompe nella sua vita Béatrice, una donna settantenne ancora bella che in passato era stata l’amante del padre, e che tenterà di ricucire un rapporto affettivo con la riluttante Claire che per ovvi motivi non era mai nato in passato.
Il film Quello che so di lei (titolo originale Sage Femme) ci parla di due mondi contrapposti: quello meticoloso e ordinato di Claire (Catherine Frot) e quello sregolato e godereccio di Béatrice (Catherine Deneuve). Le due differenti personalità si scontrano dando l’impressione che non ci siano i presupposti per trovare alcun punto di contatto, né tantomeno per provare ad instaurare un rapporto affettivo vero considerato il ruolo di Béatrice, che anni addietro era stata l’amante del padre di Claire e quindi causa di dolore per l’intera famiglia. Il rifiuto iniziale da parte di Claire che, dopo anni di totale assenza, certamente non può ora accettare l’affetto di questa donna oramai settantenne a lei di fatto sconosciuta, pian piano si trasformerà in un rapporto prima di rispetto e poi alla fine di genuina tenerezza. Da donna integerrima che ha sempre svolto il suo lavoro con assoluta dedizione, troverà proprio nella forza e nel temperamento trasgressivo di Béatrice, impulso e coraggio per affrontare la realtà con la necessaria consapevolezza di chi non può arrendersi di fronte alle scelte irresponsabili degli altri. E se per professione ha sempre avuto il compito di dare la vita, con Béatrice Claire si troverà ad affrontare un compito ben più complesso e nuovo per lei.
Merito indiscusso di Martin Provost è stato quello di aver scelto per questo suo film due donne così diverse per carattere e provenienza lavorativa, la prima Catherine dal teatro e l’altra Catherine dal cinema, riuscendo a combinare quel giusto mix che ha dato uno sprint particolare all’intera narrazione, altrimenti di scarso impatto emotivo. La Deneuve sembra proprio recitare se stessa nel ruolo di una donna settantenne ancora bella, che sa godere della vita ben consapevole che la decadenza fisica è dietro l’angolo e che bisogna procedere tempestivamente all’assalto al buffet prima che venga sparecchiato definitivamente. In occasione della presentazione del film all’ultima edizione della Berlinale, il regista in conferenza stampa ha voluto confidare ai giornalisti che il film, del quale aveva scritto per la prima volta l’intera sceneggiatura, era stato voluto per ricordare ed omaggiare l’ostetrica che lo aveva fatto nascere e che gli aveva salvato la vita con una tempestiva trasfusione del proprio sangue. Al di là di questa nota sentimentale, la storia si lascia seguire soprattutto per l’eccezione bravura delle due protagoniste, elemento questo necessario ma non sufficiente per la totale buona riuscita del film.
data di pubblicazione:01/06/2017
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