da Antonio Iraci | Feb 5, 2018
Riko lavora da trenta anni come operaio in una fabbrica di salumi a Reggio Emilia ed è sposato con Sara che è parrucchiera in un centro di estetica. La coppia, che ha anche un figlio già pronto per entrare all’università, sta attraversando un periodo di crisi coniugale che sembra riflettere appieno la profonda crisi economica che investe il paese, pervaso da una generalizzata precarietà lavorativa che investe anche la sfera esistenziale dei singoli. Di fronte a questa catastrofe, Riko e Sara sono incapaci di trovare una soluzione pratica per affrontare nel migliore dei modi un futuro che, al di là delle poco rassicuranti apparenze, può riservare invece ancora buone prerogative: l’abilità di confrontarsi affettivamente con gli amici sinceri sarà l’unico rimedio veramente efficace.
Luciano Ligabue, alla regia del suo terzo film, ci racconta l’Italia di oggi che noi tutti ben conosciamo, dove non si parla che di Stepchild, Spread, Jobs Act, termini di cui non tutti ne comprendono l’effettivo significato e forse sino in fondo neanche i politici che li usano, dando così l’esatta percezione che siano stati creati ad arte per confondere la mente di noi poveri cittadini. Ligabue regista ricorre ad un linguaggio cinematografico semplice, non troppo ragionato tuttavia efficace a trasmettere un messaggio che, pur nella sua drammaticità, riesce ad infondere un minimo di speranza non solo ad un pubblico di cittadini adulti, ma soprattutto alle nuove generazioni, che da cittadini si stanno affacciando alla vita e che il Liga cantante conosce molto bene. La storia di Riko (Stefano Accorsi) e di Sara (Kasia Smutniak) non dice dunque molto di nuovo: coppia in crisi principalmente per tradimenti da ambo le parti, precarietà in campo lavorativo, difficoltà ad affrontare la complessità del quotidiano in un paese dove tutto sembra remare contro per far ripiombare l’intera popolazione inesorabilmente in uno stato di preoccupante confusione. In questa situazione di perenne incertezza in quelli che sono gli aspetti essenziali della vita, non rimane che appoggiarsi sulla spalla degli amici per trovare in essi quella giusta dose di affetto e di solidarietà necessaria per tirare avanti, alla meglio. E se quando tutto è oramai perduto e sembra non rimanere altro che ricorrere all’atto estremo per tirarsi fuori dall’empasse, ecco che, un poco per fortuna ed un poco per quell’inconfondibile goliardia che accompagna sempre noi italiani, improvvisamente ogni cosa si ricompone al meglio e dopo la tempesta ritorna la quiete sia pur del tutto effimera. In Made in Italy sono dunque racchiusi tutti gli ingredienti della tipica commediola all’italiana con lieto fine, sia pur velato da una leggera amarezza di fondo, che poi è la prerogativa che contraddistingue noi italiani: vale a dire l’abilità di reinventarsi sempre qualcosa di nuovo per affrontare il proprio incerto futuro con un ritrovato slancio e una buona dose di ottimismo. Un plauso va ai due interpreti che sanno muoversi in maniera convincente anche nelle scene più grottesche. Quanto a Ligabue regista, se con Radio Freccia aveva toccato i nostri cuori, con Made in Italy ci ha fatto un po’ rimpiangere la sua grandiosità di artista in campo musicale.
data di pubblicazione:05/02/2018
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da Antonio Iraci | Feb 3, 2018
(Teatro Vascello – Roma, 1/18 febbraio 2018)
A sipario ancora chiuso, la voce fuori campo di Manuela Kustermann ci introduce allo spettacolo spiegandoci del perché di questa ripresa teatrale de Il gabbiano di Cechov dopo venti anni dal debutto sulla scena proprio al Vascello con la regia del grande Giancarlo Nanni. Un doveroso e soprattutto sentito omaggio al regista scomparso nel 2010 e che insieme a lei aveva creato questo spazio teatrale, un progetto ambizioso che ben si inseriva nell’entourage artistico-culturale della capitale. La Kustermann riprende quindi una pièce a lei ben nota e certamente cara, curandone i costumi ma lasciando le scene così come le aveva dipinte Nanni, la cui formazione artistica aveva enormemente influenzato la sua attività di regista teatrale, sia nella prosa come nella lirica, firmando lavori rimasti ancora oggi indimenticabili.
Il gabbiano che insieme a Il giardino dei ciliegi è probabilmente l’opera di Cechov più rappresentata, è oggi più che mai di grande attualità perché pur essendo considerata come lo studio di una certa classe borghese russa di fine ottocento, rispecchia altresì il dramma dell’uomo di oggi nella sua lotta tra quello che è e quello che vorrebbe essere: una dicotomia che travaglia l’umanità intera rendendola infelice. Le aspirazioni dell’uomo, e dell’artista nello specifico, che si trova imbrigliato in un conflitto generazionale senza soluzione di continuità, partono dal desiderio di affermazione; il successo di alcuni farà tuttavia da contrappunto alle insoddisfazioni di altri, perché l’essenza della vita non è da ricercare nel presente né tantomeno nel futuro, ma è da riscoprire in ciò che si manifesta nei sogni, lontano dai condizionamenti e dalle ingannevoli apparenze. Il cast ricomposto da Manuela Kustermann, che interpreta il ruolo dell’attrice Irina, sembra essere perfettamente idoneo a rappresentare il pensiero di Cechov, muovendosi quasi in assenza di gravità tra luci e drappi colorati che ben identificano i diversi stati d’animo dei personaggi. Lorenzo Frediani nel ruolo di Kostantin, figlio di Irina e aspirante scrittore, riesce pienamente ad esprimere l’animo tormentato di un uomo non più amato, figlio di una madre anaffettiva, ipercritica e spietata nei suoi confronti. Ecco che Cechov, forse ispirandosi in questo lavoro larvatamente a Ibsen, ci pone di fronte ad un teatro nel teatro, in un incastro che ricorda le scatole cinesi, dove il contenuto diventa esso stesso contenente ed il significato diventa significante, in una correlazione senza fine. Una nota di merito va comunque a tutto il cast composto da Massimo Fedele, Eleonora De Luca, Anna Sozzani, Sara Borsarelli, Paolo Lorimer e Maurizio Palladino.
Lo spettacolo del Centro di Produzione Teatrale La Fabbrica dell’Attore si replicherà fino al 18 febbraio. Da non perdere.
data di pubblicazione:03/02/2018
Il nostro voto:
da Antonio Iraci | Feb 3, 2018
Gaz (Robert Carlyle) e Dave (Mark Addy) sono due poveri disoccupati che vivono nello Sheffield e cercano di sbarcare il lunario ricorrendo a piccoli stratagemmi spesso non proprio leciti quali rubare travi d’acciaio da una fabbrica da tempo abbandonata. Gaz, in arretrato con le spese di mantenimento da corrispondere alla ex moglie, rischia addirittura di perdere la custodia del figlio e deve pertanto inventarsi urgentemente qualcosa per procurarsi i soldi necessari e tamponare pertanto la situazione divenuta oramai insostenibile. Prendendo ispirazione da un gruppo di spogliarellisti molto aitanti e professionali che si esibiscono in un locale, Gaz decide di dar vita ad un simile spettacolo coinvolgendo altri poveri disoccupati come lui di varie età, e non certo con dei fisici scolpiti. Ci sarà poi da affrontare il problema del nudo integrale visto che, ognuno di loro, non vuole proprio saperne. Dopo varie resistenze, saranno proprio le loro compagne a convincerli al grande passo, per cui tutti accetteranno di esibirsi in costume adamitico e lo spettacolo alla fine avrà un enorme successo. Anche il film ebbe un enorme successo commerciale, osannato dalla critica internazionale, riuscendo ad ottenere l’Oscar per la miglior colonna sonora e tre BAFTA su ben undici nomination, incluso miglio film. Una commedia brillante che riesce a mettere bene in luce non solo la crisi economica di un paese con una disoccupazione dilagante, ma anche a mettere in discussione il ruolo sociale del maschio, anch’esso in evidente recessione. Questo tipico film inglese ci suggerisce una ricetta anch’essa tipicamente anglosassone: meat pie.
INGREDIENTI: 250 grammi di carne macinata di suino – 250 grammi di carne macinata di bovino – una cipolla bianca – 1 kg di patate – un tubetto di concentrato di pomodoro – 50 grammi di burro – un bicchiere di latte – noce moscata e spezie varie tipo cumino, timo e maggiorana – olio d’oliva – sale e pepe q.b.
PROCEDIMENTO: bollire le patate, passarle con lo schiaccia patate e farne un purè aggiungendo il latte, il burro, la noce moscata e un poco di sale. Lasciare raffreddare. Fare imbiondire una cipolla in un poco di olio d’oliva e aggiungere i due tipi di carne macinata insieme al concentrato di pomodoro, pepe e le altre spezie nella quantità desiderata e lasciare cuocere per una ventina di minuti. Imburrare una teglia e sistemare uno strato del purè oramai a temperatura ambiente, uno di carne e quindi ricoprire con un altro strato del purè. Spolverare con un poco di pan grattato e aggiungere dei fiocchetti di burro. Infornare per circa 40 minuti ad una temperatura di 180°. Servire il meat pie tiepido.
da Antonio Iraci | Gen 29, 2018
Carlo (Carlo Verdone) è un oboista in una orchestra di musica classica ed è sposato con Serena (Elena Sofia Ricci) anche lei musicista. La madre di Carlo sta per morire, e lui si sente in dovere di contattare la sorella Silvia (Ornella Muti) che vive all’estero in maniera non del tutto chiara. Ritornata quindi in Italia, la donna irromperà con i suoi problemi nella vita del fratello il quale si troverà subito coinvolto in prima persona in situazioni a lui del tutto sconosciute e tutte ai limiti della legalità. Tra l’altro Carlo verrà a scoprire che Silvia è sposata a Budapest e che ha un figlio mentre mantiene una relazione clandestina con un maturo avvocato milanese, a sua volta sposato, solo perché l’aveva tirata fuori dalla galera per una condanna per spaccio di denaro falso. Questo e tanto altro ancora lo sventurato Carlo dovrà affrontare in soccorso di questa sorella che sembra inarrestabile andandosi a cacciare in circostanze sempre più complicate e rischiose, incapace poi di risolvere da sola quanto da lei stessa irresponsabilmente causato. Tutto preso da questi problemi, intanto non si accorge che il suo matrimonio con Serena sta naufragando e che ben presto verrà abbandonato e si troverà da solo e in un mare di guai dai quali difficilmente potrà venirne fuori.
Io e mia sorella fu accolto molto bene dalla critica ed ottenne diversi riconoscimenti tra David di Donatello, Nastro d’Argento, Globo d’Oro e Ciack d’Oro, tutti premi andati principalmente a Ornella Muti come migliore attrice protagonista e a Elena Sofia Ricci come attrice non protagonista oltre a Carlo Verdone per la sceneggiatura insieme a Leonardo Benvenuti e Piero De Bernardi.
La pellicola è interamente ambientata a Spoleto, città umbra che ci ispira una ricetta di facile realizzazione; gli strozzapreti con zucchine.
INGREDIENTI: 400 grammi di strozzapreti – 3 zucchine – 1 limone non trattato – 1 scalogno – 2 cucchiai di panna da cucina – olio d’oliva extravergine – sale e pepe q.b.
PROCEDIMENTO: Tritare lo scalogno e farlo appassire in olio d’oliva, quindi con il pelapatate togliere alle zucchine la buccia verde, affettarle a bastoncini e unirle allo scalogno. Saltare il tutto per due minuti aggiungendo sale e pepe a piacere, ed infine la scorza grattugiata del limone e la panna. Cuocere la pasta e saltarla in padella con questa salsa di zucchine. Volendo si po’ aggiungere un poco di parmigiano grattugiato e qualche fogliolina di menta. Servire la pasta ben calda.
da Antonio Iraci | Gen 28, 2018
Estate del 1983: nella villa del Prof. Perlman arriva ospite un giovane americano per completare la propria tesi. Oliver è un uomo pieno di fascino, colto ed intelligente, con una buona dose di empatia e, in breve tempo, riuscirà ad accattivarsi la stima di tutti, inclusa quella di Elio, il figlio del professore. Tra i due nascerà inizialmente un’amicizia sincera che però piano piano sfocerà in un profondo rapporto affettivo. Finito il soggiorno di studio, Oliver tornerà negli Stati Uniti non senza il piacevole ricordo del calore di quella famiglia che lo ha ospitato e dei bellissimi momenti trascorsi con il giovane Elio.
Presentato nel 2017 in anteprima mondiale al Sundance Film Festival, Chiamami col tuo nome partecipò subito dopo alla Berlinale dove fu salutato quasi con una standing ovation, polarizzando a buon ragione l’attenzione del pubblico. La storia, tratta dall’omonimo romanzo di André Aciman e di cui il palermitano doc Luca Guadagnino ne ha firmato la sceneggiatura insieme a James Ivory e Walter Fasano, si svolge in una non meglio identificata campagna del Nord d’Italia, dove il professore universitario d’arte antica Perlman e la sua famiglia trascorrono serenamente l’estate. Elio, il diciassettenne figlio del professore, è un ragazzo molto maturo per la sua età, ama trascorrere il tempo tra lettura e musica dilettandosi a suonare al piano brani classici con una notevole professionalità, anche se non disdegna, come tutti i suoi coetanei, passare le sue serate nei bar del paese a bere con gli amici e a ballare. Nella tranquillità della vita di tutta la famiglia, irrompe con forza e vitalità il ventiquattrenne americano Oliver, ospitato nella villa affinché possa completare i suoi studi di dottorato. La frequentazione quotidiana tra i due giovani si trasforma pian piano in una relazione che li coinvolge intimamente senza che loro stessi se ne rendano conto.
La potenza di questo film sta proprio nell’aver utilizzato, attraverso delle immagini definite “idilliache” dallo stesso regista, un linguaggio espressivo semplice e autentico dove non occorrono parole per definire un sentimento di fatto indefinibile. Le scene sono girate in un modo da far sembrare tutto molto naturale e la fotografia ci fa veramente percepire la gradevolezza del paesaggio estivo in cui è ambientata la storia, ricorrendo a volte a delle dissolvenze che con discreto pudore sottraggono lo sguardo dalle immagini più intime. In sottofondo abbiamo un’Italia degli inizi anni ottanta dove, nonostante le turbolenti questioni politiche, imperava ancora l’idea di guardare al futuro con una giusta dose di ottimismo. Il film non è una love story tra due ragazzi, perché sarebbe troppo riduttivo definirla tale: sin dalle prime scene si viene catturati dalla bellezza dei luoghi in cui è ambientato e dall’interpretazione assolutamente naturale dei due protagonisti Timothée Chalamet (Elio) e Armie Hammer (Oliver), come se la narrazione trattata fosse vita vissuta, e sicuramente si deve a questo giovane regista l’abilità di aver reso percepibile, in immagini e dialoghi, che si può dare un esatto contorno alla felicità e all’amore solo quando dopo averli vissuti si prova la sofferenza di perderli.
Distribuito finalmente in Italia dopo aver riscosso ampi consensi in tutto il mondo, Chiamami col tuo nome come tutti sanno ha ottenuto, successivamente alle tre nomination ai Golden Globe, quattro candidature ai premi Oscar 2018: miglior film, miglior attore (Chalamet), miglior sceneggiatura non originale, miglior canzone (Mystery of Love). Non ci sarebbe da meravigliarsi se il film riuscirà ad ottenere anche una sola delle prestigiose statuette, avendo tutti gli ingredienti che lo hanno già reso tanto caro al pubblico americano e non solo.
data di pubblicazione:28/01/2018
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