da Antonio Iraci | Feb 22, 2018
(68 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 15/25 Febbraio 2018)
Il 22 luglio 2011 circa cinquecento giovani mentre frequentavano un campeggio sull’isola di Utoya vicino Oslo, in Norvegia, furono sorpresi da un attacco armato da parte di un terrorista, poi identificato come Anders Behring Breivik. Il fanatico killer uccise 77 di quei giovani e ne ferì più di cento; i sopravvissuti alla strage rimasero per lungo tempo sotto shock perché, senza avere alcuna possibilità di fuga, rimasero impotenti di fronte alla ferocia e alla morte. Tra loro, le sorelle Kaja ed Emilia che stano trascorrendo sull’isola le loro vacanze, e che rimasero coinvolte insieme agli altri in quel massacro immotivato verso persone del tutto innocenti.
Il regista norvegese Erik Poppe ha lavorato per ben tre anni prima di realizzare questo film sull’atto terroristico che colpì la Norvegia ed al quale questa nazione, allora impreparata, ancora oggi pensa con profondo ed immutato dolore. Nel lungo periodo di preparazione di Utoya, 22 Juli furono intervistati molti dei sopravvissuti per capire a fondo le emozioni provate in quei terribili 72 minuti cadenzati dai colpi di fucile con cui il terrorista dava la caccia ai fuggitivi. La telecamera segue in tempo reale ogni movimento della giovane Kaja (Andrea Berntzen) alla ricerca disperata della sorella di cui aveva perso le tracce mentre nel contempo tenta, insieme agli altri, di nascondersi nel bosco per sfuggire alla morte. Un film adrenalinico dove non si può che essere coinvolti emotivamente in quanto lo spettatore si trova in medias res insieme agli altri protagonisti, vivendo il terrore di quei momenti senza fine. L’abilità del regista sta nell’avere raccontato di quel fatto ponendosi dalla parte delle vittime, più che da quella del terrorista, figura che si intravede solo in un fotogramma ma la cui presenza incombe come un macigno durante tutta la durata del film come una costante minaccia per tutti. La giovane attrice che interpreta Kaja è perfetta nel portare sulla propria persona tutta la pressione psicologica della situazione che sta vivendo.
Come affermato dallo stesso regista in conferenza stampa: “si è voluto dare all’intera storia una versione quanto più vicina alla realtà, di come si svolsero i fatti, ricorrendo però al carattere di fiction per non urtare la sensibilità dei sopravvissuti e soprattutto quella dei genitori delle vittime”. Il regista conclude dicendo: “ho pensato a lungo se fosse prematuro fare questo film, ma poi ho pensato che tutti dovessero ricordare quei fatti, e non solo in Norvegia, affinché ognuno di noi si faccia parte attiva che tali atti non abbiano più a ripetersi”.
Il film dovrebbe essere distribuito in Italia e se ne raccomanda vivamente la visione.
data di pubblicazione:22/02/2018
da Antonio Iraci | Feb 21, 2018
(68 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 15/25 Febbraio 2018)
Mirko e Manolo sono due ragazzi di una borgata romana che frequentano svogliatamente l’ultimo anno dell’istituto alberghiero e, come tutti i giovani della loro età, non sono concentrati più di tanto sul proprio futuro quanto piuttosto di divertirsi con le ragazze. In una dello loro frequenti scorribande notturne i due investono un uomo e, invece di prestargli soccorso, fuggono sconvolti. L’indomani verranno a sapere di aver ucciso un personaggio di spicco di uno dei clan malavitosi che si contendono il dominio sulla città. Entrati così nell’entourage della “famiglia” a cui inconsapevolmente hanno fatto un piacere, i due inseparabili amici si troveranno catapultati nel mondo della droga e della prostituzione svolgendo senza scrupoli gli incarichi che di volta in volta gli verranno assegnati.
I due fratelli D’Innocenzo si sono da sempre dedicati alla scrittura e alla fotografia e, senza una specifica formazione cinematografica, hanno prodotto videoclips e film per la televisione e il cinema nonché un lavoro teatrale. Con La terra dell’abbastanza, presentato nella Sezione Panorama della Berlinale, sono al loro debutto come registi. Il film segue il filone Gomorra che, prendendo le mosse dal film di Matteo Garrone tratto da Saviano, ha poi invaso tutti gli spazi televisivi possibili raccontando le lotte di clan mafiosi per spartirsi il dominio in zone della città e poter così trafficare indisturbati nel proficuo campo della droga e della prostituzione. Ancora una volta sono i giovani ad essere coinvolti, agendo senza scrupoli perché spesso incoscienti di quello che a loro viene richiesto, prestandosi facilmente a svolgere le azioni più efferate in vista di facili e lauti guadagni. È questo il caso anche di Mirko e Manolo, i due giovani protagonisti del film per i quali uccidere a sangue freddo è un modo per far bella figura di fronte al capo e riscuotere il compenso. La realtà è quella prevedibile: le borgate delle grandi città (tanto care a Pasolini) e le famiglie inesistenti che si danno da fare come possono per crescere i propri figli, fornendo degli esempi di vita non proprio eticamente raccomandabili e ai limiti della legalità.
Bisogna dare atto ai registi di aver confezionato un lavoro tecnicamente ben fatto, in cui i continui primi piani su Andrea Carpenzano (Manolo) e Matteo Olivetti (Mirko) evidenziano la loro indiscutibile bravura. Ma il plot non riesce a dare al pubblico quel “qualcosa in più” che comunque ci si aspettava visto che di storie simili oramai ne siamo tutti abbastanza saturi, ed anche la figura del capo clan affidata a Luca Zingaretti non aggiunge nulla di nuovo.
Un plauso comunque va ai due promettenti registi presenti in apertura del film che, con un paio di simpatiche battute, hanno conquistato il folto pubblico presente in sala, in buona parte costituito dalla comunità italiana di Berlino.
data di pubblicazione:21/02/2018
da Antonio Iraci | Feb 20, 2018
(68 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 15/25 Febbraio 2018)
Bertrand, ragazzo di bell’aspetto, è l’unico a essere presente nella casa di un famoso scrittore quando questi muore per un infarto, ed anche l’unico ad essere a conoscenza dell’esistenza di un manoscritto riguardante un lavoro teatrale appena terminato. Se ne impossessa e lo spaccia per suo; la pièce, rappresentata con successo nei principali teatri, fa raggiungere al giovane Bertrand una strepitosa quanto immeritata popolarità. Casualmente Bertrand conoscerà Eva, nome d’arte di una misteriosa donna che si prostituisce ad alto livello per riscattare i debiti del marito. Da questo incontro il giovane cercherà ispirazione per realizzare un nuovo lavoro, commissionato con una certa insistenza dal suo agente, ma che ovviamente il presunto scrittore Bertrand, privo di talento letterario, avrà difficoltà a scrivere.
Il regista e sceneggiatore parigino Benoit Jacquot porta in concorso alla Berlinale Eva, uno psico-thriller tratto da un racconto del prolifico scrittore inglese James Hadley Chase, già proposto sul grande schermo nel 1962 da Joseph Losey, con Jeanne Moreau come protagonista femminile. La storia viene rappresentata con quel tipico carattere definito hard boiled per indicare quel genere espressivo dove violenza e sesso sono gli ingredienti principali che reggono l’intero plot. Bertrand (Gaspard Ulliel) è un giovane che ha ottenuto fraudolentemente un successo immeritato e che fa ovviamente fatica a mantenere perché incapace di scrivere: l’incontro con Eva (Isabelle Huppert), donna affascinante ma estremamente sprezzante, destabilizzerà ulteriormente la fragile personalità del giovane che, coinvolto emotivamente, verrà usato dalla donna solo per spillargli forti somme di danaro in cambio di sesso. In effetti non è l’amore ciò che Bertrand cerca ossessivamente in Eva, ma l’ispirazione per tentare di scrivere il suo nuovo (ma anche primo) lavoro teatrale, che invece stenta a decollare.
Alla indiscussa bravura della Huppert, oramai destinata a ricoprire ruoli di donna spregiudicata e cinica così come è apparsa negli ultimi film, fa da contrappunto la staticità espressiva del giovane attore Ulliel che, nonostante la nomination ai César come miglior attore protagonista per Saint Laurent nei panni del celebre stilista, non sembra qui all’altezza del ruolo. Bertrand infatti rappresenta nel film un archetipo e non una persona reale, ed è difficile provare emozione e coinvolgimento per un uomo senza carattere che precipita privo di controllo verso una spirale di totale distruzione. Le premesse potevano essere buone, ma il film rivela presto tutta la sua inconsistenza che ne fanno qualcosa di assolutamente prevedibile.
data di pubblicazione:20/02/2018
da Antonio Iraci | Feb 19, 2018
(68 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 15/25 Febbraio 2018)
Alla fine del 19esimo secolo Oscar Wilde rappresentava un’icona nell’alta società londinese che era affascinata, oltre che dai suoi lavori, anche dalla sua personalità carica di umorismo e di trasgressione al tempo stesso. A causa della dichiarata omosessualità viene messo in prigione, dalla quale ne esce dopo due anni profondamente provato nel fisico e senza più soldi perché nel frattempo le sue opere teatrali erano state messe al bando e non più rappresentate. Trasferitosi in esilio a Parigi, dopo falliti tentativi di riconciliarsi con la moglie Constance, decide di chiudere la relazione con il giovane Lord Douglas responsabile di averlo trascinato in quel totale disastro. Pur tra i fumi dell’assenzio, Oscar Wilde riesce comunque con i suoi racconti per bambini a conquistare l’affetto di tutti coloro che fedeli gli staranno accanto sino alla fine dei suoi giorni.
Dopo aver interpretato il ruolo di protagonista in tantissimi film di successo (per citarne alcuni: Ballando con uno sconosciuto, Il matrimonio del mio miglior amico, Shakespeare in Love, L’importanza di chiamarsi Ernesto, Stage Beauty, Hysteria) Rubert Everett è alla sua prima regia con The Happy Prince, presentato oggi alla Berlinale nella Sezione Teddy Award. Interpretando il ruolo di Oscar Wilde, il regista Everet sembra dare il meglio di sé e confermare una eccellente bravura supportata da una evidente maturità personale che incide in maniera determinante nell’imprimere una giusta dose di empatia nel personaggio da lui rappresentato. L’immagine che ne viene fuori si adatta perfettamente alla figura dell’insigne scrittore che negli ultimi anni della sua vita si era completamente lasciato andare a degli eccessi che la puritana società vittoriana di allora difficilmente avrebbe potuto tollerare. Il film ci parla di Oscar Wilde oramai in esilio a Parigi, lontano dall’amata moglie Constance e dai suoi due figli, in uno stato di perenne indigenza e oramai prossimo a morire, pur tuttavia sempre pronto a ironizzare sulla propria persona e a guardare il lato buono delle cose. Ecco così che Rupert Everett riesce nel delicato compito di non rivelare il lato buio della personalità di Wilde, ma al contrario di mostrare la sua capacità di venir fuori dalle situazioni più cupe con ineguagliabile sarcasmo. Riferendosi al De Profundis, testamento di Wilde dalla prigione, Everett ci narra di un uomo che fu punito per essere quello che lui stesso desiderava essere, senza ricorrere ad ipocrisie o ad atteggiamenti che contraddicessero la sua genuina personalità. The Happy Prince è una favola per bambini, oramai di rilevanza universale, che colpisce il cuore di tutti a prescindere dall’età anagrafica ed il film che ne porta il titolo ha centrato in pieno lo spirito del suo autore, oramai tra i grandi della letteratura di tutti i tempi. Nell’ottimo cast spicca Emily Watson nella parte di Constance e Colin Firth nel ruolo dell’amico Reggie Turner. Ci auguriamo che il film venga distribuito in Italia perché è decisamente da non perdere.
data di pubblicazione:19/02/2018
da Antonio Iraci | Feb 18, 2018
(68 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 15/25 Febbraio 2018)
Vittoria è una bambina di dieci anni che vive in un paesino della Sardegna, lontano dal turismo di massa, insieme ai genitori. Un giorno per caso, durante una saga paesana, conosce l’eccentrica Angelica, donna con un carattere completamente diverso da quello di sua madre Tina. Inspiegabilmente attratta dalla figura di Angelica, così spregiudicata e libera, Vittoria comincia a sentire del tutto estranea quella della madre, così eccessivamente protettiva. Da una serie di circostanze la bambina percepirà di essere al centro dell’attenzione delle due donne, e via via si troverà a dover operare delle scelte che la porteranno a scoprire verità nascoste.
Dopo Vergine Giurata del 2015, Laura Bispuri presenta oggi in concorso alla Berlinale il suo secondo film Figlia mia, una storia molto forte che vede due madri contendersi una figlia.
Il film è ambientato in una Sardegna assolata, dove ci sembra addirittura di percepire l’odore dello sterco dei cavalli ed il ronzio continuo delle mosche, una terra che ha la sua storia millenaria ma che sembra ancora vagare alla ricerca di una vera e propria identità, un po’ come le due protagoniste che, nonostante il loro trascorso, non sanno ancora bene chi sono e se possono collocarsi nel ruolo di madri. I paesaggi brulli, al di fuori dei riflettori mondani di un turismo che caratterizza oggi questa regione, sono la metafora di due vite aride che faticano a riconoscersi per quello che sono. Di tutto questo ne farà le spese la piccola Vittoria, che dovrà barcamenarsi tra due madri così terribilmente opposte ma che, con la loro complementarietà, le daranno lo stimolo per maturare. I lunghi piano sequenza sembrano accompagnare la bambina in questo suo percorso accidentato che, sebbene duro da affrontare, sarà invece per lei elemento di presa di coscienza. Vittoria diverrà il perno intorno al quale queste due donne dovranno ruotare, per ricucirsi addosso il giusto ruolo di madri: a lei spetterà l’arduo compito salomonico di decidere quale madre scegliere, in cui l’istinto verrà contraddetto dalla direzione dei fatti.
Intense le interpretazioni di Valeria Golino e Alba Rohrwacher, per la prima volta insieme sul set, dirette con grande maestria dalla regista. Un plauso va anche alla spontaneità della piccola Sara Casu nel ruolo non semplice di Vittoria, vera protagonista dell’intera narrazione. La pellicola è stata ben accolta dalla stampa per l’intensità dei temi affrontati, tanto che a parere di chi scrive potrebbe guadagnarsi qualche concreto riconoscimento.
data di pubblicazione:18/02/2018
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