da Antonio Iraci | Set 1, 2018
(75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)
Imprevedibili ed eccentrici come sempre, i fratelli Coen lasciano il loro segno in questa terza giornata della 75. Mostra del Cinema di Venezia con il loro ultimo film The Ballad of Buster Scruggs, che lascia il pubblico letteralmente spiazzato contro le aspettative che si erano inevitabilmente formate in base alle notizie già diffuse dalla stampa. Un omaggio divertente, se non addirittura irreverente, ad un genere oramai poco praticato e che nel nostro paese ebbe risonanza attraverso i così detti spaghetti-western negli anni sessanta e settanta, con la partecipazione di attori allora sconosciuti che divennero poi star internazionali.
Il film, presentato in concorso, è una raccolta antologica di sei storie western che i fratelli Coen hanno elaborato in 25 anni, rifacendosi in parte a quelle analoghe sperimentazioni italiane del passato in cui venivano raggruppati, in un unico film: diversi episodi tutti legati tra di loro da un medesimo genere narrativo. Ecco che i vari racconti, tutti rigorosamente con la stessa matrice, ci riportano nelle sconfinate regioni di frontiera del far west dove si aggiravano solitari pistoleri a cavallo, che non esitavano a far fuori chiunque osi anche solo contraddirli o intralciare i propri passi. Abilmente i Coen entrano in questo mondo preconfezionato e ne ribaltano e disperdono le regole, rendendo i propri personaggi figure al limite del reale e tirando fuori dagli stessi quegli elementi eterni e assoluti al fine di coglierne la struttura fondamentale del loro essere. Sfogliando le pagine di un libro si procede via via alla narrazione e i vari soggetti prendono forma accompagnati da una ballata musicale che li contraddistingue, tra le distese infinite dei canyon americani che li accolgono e li plasmano a seconda della situazioni.
Il film, a detta dei registi, non vuole essere quindi solo un western ma va oltre, seppure ne utilizza il linguaggio espressivo tipico: qui si basa la loro sperimentazione, arrivando a confezionare un’opera finale molto divertente ma che lascia ampio spazio a momenti di seria riflessione. Cast come sempre di eccezionale bravura dove spiccano l’attore Tim Blake Nelson, protagonista del primo episodio e James Franco, che caratterizza forse l’unico capitolo del libro che più ricorda gli spaghetti-western italiani. Perfetta la sceneggiatura a cura dei Coen, che trova ampio appoggio in una fotografia al tempo stesso intensa ed impalpabile curata da Bruno Delbonnel.
Pur avendo già girato Il Grinta nel 2010, remake di un western del 1969 con John Wayne, questa seconda volta Joel e Ethan Coen cercano un concreto pretesto per interrogarsi sul significato dell’esistenza umana e su ciò che determina le scelte che si compiono, anche quelle tragicamente sbagliate. Film assolutamente da non perdere che ha tutti i presupposti per ottenere il successo internazionale che merita. Pubblico entusiasta.
data di pubblicazione:01/09/2018
da Antonio Iraci | Ago 25, 2018
(Palermo,16 giugno/4 novembre 2018)
Manifesta, la Biennale Nomade Europea, è nata nei primi anni ’90 al fine di promuovere quella fattiva integrazione socio-culturale che si era resa quasi necessaria alla caduta del muro di Berlino, dopo anni di guerra fredda che aveva “congelato”, per così dire, ogni scambio intellettuale tra i paesi occidentali e quelli d’oltrecortina. Manifesta, fondata ad Amsterdam dalla storica d’arte olandese Hedwig Fijen e che ancora oggi la guida, è da considerarsi un progetto culturale che re-interpreta il rapporto tra cultura e società attuando un capillare dialogo interdisciplinare nel contesto sociale di riferimento. In occasione delle iniziative che si stanno svolgendo a Palermo, quest’anno Capitale Italiana della Cultura, trova quindi spazio Manifesta 12, sotto la direzione generale italiana di Roberto Albergoni e della coordinatrice Francesca Verga che affiancano lo staff permanente degli uffici olandesi per la realizzazione di questo ambizioso programma, che terminerà i primi di novembre. Con questo pretesto Palermo ha riaperto i suoi inesauribili tesori d’arte, molti dei quali perennemente chiusi, per presentarsi ai numerosi turisti nella sua veste migliore: un fermento culturale che si percepisce in maniera tangibile girovagando per le viuzze storiche, brulicanti di variegati centri d’interesse oltre a luoghi di degustazione di prelibatezze culinarie, anch’esso vanto della città. Molti palazzi nobiliari hanno aperto i propri spazi, un tempo sfarzosi luoghi della mondanità nobiliare isolana, per accogliere installazioni di importanti artisti contemporanei e per curare la diffusione delle loro opere anche in centri periferici dove il tessuto culturale cittadino fa fatica ad inserirsi. Da segnalare anche la programmazione di numerosi film, selezionati allo scopo di dare una lettura cinematografica ai temi che animano questa rassegna e la narrativa generale che la contraddistingue.
In particolare la sezione On Circulations indaga sui movimenti migratori, le cause e le conseguenze delle politiche attuate, la ricerca di una identità e libertà dei popoli offrendo altresì soluzioni e prospettive in un mondo senza confini.
Accanto ad essa l’altra sezione On Palermo dedicata interamente al capoluogo siciliano, inteso come luogo di trasformazioni e di fermenti sociali attuali, non indifferenti alle necessità del contesto urbano. Il nutrito calendario delle proiezioni è stato curato da In Between Art Film Italia con il supporto di Sicilia Film Commission e Vidi Square.
Un invito dunque a non perdere Manifesta 12 approfittando anche per visitare questa città dai mille aspetti, unica in Italia e nel mondo, che proprio per le sue innate contraddizioni non può che affascinare lasciando una impronta indelebile, certamente indimenticabile, nella persona che la visita.
data di pubblicazione:25/08/2018
da Antonio Iraci | Lug 24, 2018
Emily Dickinson (Amherst, 1830-1886), che oggi può considerarsi una tra le maggiori figure della letteratura anglo-americana, trascorse tutta la vita circondata solo dall’affetto dei suoi familiari rinchiusa nella propria camera, al primo piano della casa paterna, dedita esclusivamente a se stessa e alla poesia, attraverso la quale seppe portare avanti la sua ribellione verso i rigidi cliché imposti dalla società borghese e puritana nella quale era stata educata. In un periodo travagliato della storia statunitense, come quello della guerra di secessione in cui visse la poetessa, mal si accettava che una donna potesse svolgere attività che esulassero da quelle di moglie e di madre. Le opere della Dickinson furono scoperte e pubblicate prevalentemente postume: la sua spiccata sensibilità poetica è oggi riconosciuta nella cultura letteraria di tutti i tempi.
È merito del regista inglese Terence Davies l’aver portato sul grande schermo la biografia della Dickinson senza ricorrere ad una narrazione ingessata, nonostante si tratti di un biopic inserito nel travagliato contesto storico delle lotte secessioniste americane. Alla buona riuscita della pellicola contribuisce anche la convincente interpretazione di Cynthia Nixon (Miranda nella serie tv Sex and the City) che riesce ad impersonare la complessità caratteriale della poetessa, auto-reclusa nella casa paterna quasi a voler espiare la colpa di sentirsi diversa e ribelle verso schemi sociali rigidi imposti da una morale cristiana a lei totalmente estranea. Una persona che seppe nutrirsi di poesia per sopravvivere in quel contesto piuttosto ristretto in cui veniva relegato il genere femminile, donne sottomesse ad una supremazia maschilista contro la quale era pressoché impossibile opporsi. Il film può apparire lento, a volte quasi tedioso per la sovrabbondanza di citazioni poetiche ma l’ambientazione, circoscritta all’interno della casa dove si muovono i vari personaggi, fa da contrappeso grazie anche all’effervescenza punteggiata dalla sagacia espressiva delle protagoniste che bilanciano con piacevole arguzia la rigidità flemmatica delle figure maschili.
Il regista si sofferma con la macchina da presa su particolari all’apparenza casuali ma che invece racchiudono in sé un simbolismo che riesce a trasmettere allo spettatore la percezione di una atmosfera spesso claustrofobica, ma anche incredibilmente confortevole.
A Quiet Passion è un buon film che riesce a disegnare una personalità complessa come quella di Emily Dickinson, docile e ribelle al tempo stesso, rigida e comprensiva, oggi tra le figure più amate della letteratura universale.
data di pubblicazione:24/07/2018
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da Antonio Iraci | Lug 16, 2018
Sawyer Valentini è costretta a lasciare la sua città e il suo lavoro a causa di un uomo che, spinto da una vera ossessione nei suoi confronti, la perseguita. Pur iniziando una nuova vita in un ambiente completamente estraneo, la giovane donna non riesce suo malgrado a lasciarsi dietro le paure incapace soprattutto di distinguere il passato dal presente: tra realtà e fantasia, il suo equilibrio mentale risulta oramai seriamente compromesso. Nonostante il ricovero in un centro medico per disturbi del comportamento, una serie di eventi metteranno gravemente a rischio la sua stessa incolumità.
Con questo thriller psicologico che affascina subito lo spettatore trasmettendogli la giusta dose adrenalinica, Steven Soderbergh ancora una volta si insinua nei meandri della psiche umana per indagare quanto si possa essere influenzati da un soggetto esterno in maniera così violenta da non poter più riconoscere ciò che sia la vita reale da quello che invece i sensi riescono a generare come conseguenza di un trauma subìto e irrisolto. Il regista, al pari dell’indimenticabile Alfred Hitchcock, risulta così essere un vero e proprio maestro del brivido lavorando molto sul rapporto psicotico tra la donna ed il suo stalker che riesce a generare in lei uno stato di così forte ansia da compromettere lo svolgimento della sua normale vita quotidiana. La protagonista (Claire Foy) è sicuramente una donna insicura perché costantemente minacciata, ma nonostante ciò riesce a trovare la forza e la determinazione per gestire situazioni a volte senza una apparente via di scampo. Se a tutti i costi si vuole attribuire al film una lettura attuale che riguarda la fragilità della donna contro la prepotenza dell’uomo si è liberi di farlo, ma il soggetto va sicuramente oltre per dimostrare invece quanto l’essere umano sia vulnerabile e spesso soggetto a condizionamenti dai quali difficilmente se ne viene fuori. Sawyer è una donna che rimane vittima non solo del suo aggressore ma anche di un sistema sociale all’interno della clinica dove è forzatamente reclusa e dove tutto sembra congiurare contro di lei, per smorzare il suo istinto di sopravvivenza quando oramai tutto sembra perduto.
Ottima la sceneggiatura curata da Jonathan Bernstein e da James Greer. Un ottimo cast accompagna la credibile interpretazione di Claire Foy (debutto sul grande schermo nel 2011 con il film L’ultimo dei Templari di Dominic Sena).
Curiosità da segnalare: le riprese sono state effettuate dal regista in un brevissimo lasso di tempo con un normale iPhone. Presentato fuori concorso all’ultima edizione della Berlinale, il film ha ottenuto ritorni positivi di critica da parte della stampa internazionale.
data di pubblicazione:16/07/2018
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da Antonio Iraci | Lug 7, 2018
(Santuario di Ercole Vincitore, Tivoli – 6 luglio/23 settembre 2018)
Lo studio della mitologia classica ci ha fatto comprendere come gli dei dell’antichità amavano farsi coinvolgere nelle vicende umane diventando spesso bizzarri, irascibili e soprattutto vendicativi. Nelle sue Metamorfosi, il poeta latino Ovidio ci parla di Niobe, figlia di Tantalo (proprio quello condannato al supplizio eterno) che aveva generato sette maschi e sette femmine. Molto orgogliosa di loro, osò schernire la dea Latona per essere stata capace di generare solo due figli Artemide e Apollo; e questa, per vendicare l’offesa ricevuta, ordinò che venissero uccisi tutti i discendenti di Niobe: costei, oramai sola e disperata, fu tramutata in pietra che iniziò a versare lacrime. Con l’intenzione di narrare le nefaste vicende che colpirono i Niobidi e la loro superba madre, l’Istituto Villa Adriana e Villa d’Este ha organizzato una interessante mostra che affronta un tema iconografico poco conosciuto, attraverso l’analisi del concetto proprio di mito classico in cui si affrontano ed approfondiscono problematiche che in qualche modo si riflettono sulla vita di oggi. Il progetto viene ospitato presso gli spazi imponenti che compongono l’Antiquarium del Santuario di Ercole Vincitore, uno tra i più importanti complessi sacri dell’architettura romana di epoca repubblicana, appena fuori le mura della città di Tivoli. Il percorso espositivo è incentrato sulla figura di Niobe e sul suo dolore dopo la morte dei figli e trova suggestiva rappresentazione in un gruppo scultoreo da pochi anni rinvenuto all’interno di una piscina annessa ad una villa di età imperiale presso Ciampino, che per la prima volta viene esposto al pubblico. Il visitatore, oltre a mirare opere marmoree di notevole interesse, riesce ad “immergersi” nel mito attraverso anche opere letterarie e musicali che, pur trovando radici nell’antichità, sono vere e proprie opere d’arte contemporanea: tra queste il celebre Nudo e Albero di Mario Sironi del 1930 e Red Carpet di Giulio Paolini, espressione moderna delle stragi oggi perpetuate. Ma il riferimento più importante sono le parole di Ovidio: “Privata della famiglia si accascia e diviene di pietra. L’aria non muove i capelli, il colore del viso è esangue, gli occhi sono immoti nel volto, niente di vivo è nel suo aspetto… avvolta in un turbine di vento, viene trasportata nella sua patria e, sulla vetta di un monte, si stempera in pianto…”. Agli amanti dell’arte, e non solo quella classica, si raccomanda una visita alla mostra e al complesso architettonico che la ospita.
data di pubblicazione:07/07/2018
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