22 JULY di Paul Greengrass, 2018

22 JULY di Paul Greengrass, 2018

(75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Il 22 luglio 2011 l’estremista di destra Anders Behring Breivik in un duplice attentato in Norvegia uccide 77 persone innocenti. Il primo atto terroristico con una autobomba in piena Oslo davanti al palazzo del primo ministro, il secondo, circa due ore dopo, sull’isola di Utoya quando, travestito da poliziotto, spara su dei ragazzi inermi che partecipavano ad un campeggio estivo organizzato dal partito Laburista Norvegese. Praticamente il più cruento attacco criminale che il paese dovrà subire senza poter affrontare con la necessaria tempestività le conseguenze di un gesto folle, ideato da una mente folle con la lucidità e la determinazione che caratterizzano un’impresa terroristica di questa portata.

 

Il film di Paul Greengrass, regista inglese che ha portato sul grande schermo fiction di grande calibro nonché storie tratte da avvenimenti reali tra cui Bloody Sunday, con il quale nel 2002 vinse l’Orso d’Oro a Berlino, e Captain Phillips-Attacco in mare aperto con il quale nel 2013 ottiene 6 Nomination agli Oscar con Tom Hanks come protagonista. Il lavoro si basa sul libro della giornalista Asne Seierstad Uno di noi che raccoglie la diretta testimonianza di un superstite alla strage seguendo il suo racconto minuzioso prima e durante il processo contro il killer, quest’ultimo interpretato in maniera egregia dall’attore e musicista norvegese Anders Danielsen Lie. Non è la prima volta che la strage di Utoya viene presentata al cinema dal momento che nell’ultima edizione della Berlinale era stato proposto al pubblico U-July 22 del regista Erik Poppe, 72 terribili minuti di piano sequenza cadenzati dai colpi di fucile con cui il terrorista dava la caccia ai fuggitivi. I due film quindi affrontano lo stesso soggetto ma da due angolazioni completamente differenti. Mentre nel film di Poppe lo spettatore condivide con i protagonisti quei momenti di terrore lasciandosi coinvolgere emotivamente vivendo quasi insieme alle vittime ogni istante della strage, mentre la figura del terrorista si intravede appena in un fotogramma, 22 July di Paul Greengrass, presentato in concorso a Venezia, pone in risalto la personalità di colui che organizza l’attentato e soprattutto esamina le motivazioni politiche che lo hanno spinto a organizzare la carneficina. Greengrass stesso afferma che, partendo dall’idea che le vicende del mondo vanno osservate con coraggio per poterle meglio affrontare, con il suo lavoro intende raccontare di quei fatti che sconvolsero l’intera opinione pubblica norvegese lasciando nei sopravvissuti ferite materiali e psicologiche inguaribili.

Tuttavia, al contrario del film di Poppe, decisamente adrenalinico, 22 July di Paul Greengrass pur essendo bene interpretato, soffre di momenti di pura retorica inducendo il pubblico ad abbandonarsi a minuti di noia nonostante si tratti di un action politico che di per sé dovrebbe essere alquanto movimentato.

data di pubblicazione:06/09/2018







WERK OHNE AUTOR di Florian Henckel von Donnersmarck , 2018

WERK OHNE AUTOR di Florian Henckel von Donnersmarck , 2018

(75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Sin da bambino Kurt Barnert aveva deciso che nella sua vita si sarebbe occupato solo di arte, ed in particolare della pittura, anche se il suo primo impatto con essa fu visitando una mostra a Dresda di pittori contemporanei. I lavori esposti saranno poi definiti dal nascente nazionalsocialismo come “Arte Degenerata” in quanto considerata frutto di menti malate che distorcevano i principi stessi dell’opera classica a vantaggio di idee riprovevoli e fuorvianti. Il film è il percorso artistico di Kurt Barnert, che lo vede attraversare diverse fasi: dapprima al servizio dell’ideologia comunista dopo la caduta del nazismo, successivamente a contatto con le avanguardie postmoderne, fino ad approdare alla maniera espressiva a lui più consona che consistette nel rappresentare ciò che in quel momento della sua vita considerava di più autentico.

Il film presentato oggi in concorso a Venezia vuole esplorare su cosa spinge l’uomo a ricercare la propria identità artistica, e lo fa essenzialmente attraverso la storia d’amore dei suoi protagonisti Kurt (Tom Schilling) e Ellie (Paula Beer) e il percorso di formazione che li legherà indissolubilmente per tutta la vita; sullo sfondo inizialmente le crudeltà del nazismo, con le sue aberrazioni che non sembrano aver fine anche molti anni dopo, quando tutto sembra oramai sepolto dai nuovi slanci di democrazia. A tutto questo sopravvive l’arte che di per sé racchiude uno dei più grandi enigmi dell’umanità dal momento che sfugge a qualsiasi formula precostituita e nello stesso tempo però riesce sempre a suscitare in chi ne fruisce emozioni uniche ed indescrivibili.

Il film ripercorre una parte della storia tedesca, dalla guerra alla distruzione post nazista, alla ricostruzione, fino ad arrivare alla Repubblica Democratica Tedesca e alle sue fanatiche ideologie di stampo sovietico. In questo contesto si innesta la storia d’amore di due giovani che sembrano non aver paura di quello che si sviluppa intorno a loro, soprattutto delle esecrabili azioni del padre della ragazza privo di qualsiasi scrupolo verso tutti, persino verso la sua stessa figlia pur di difendere l’idea perversa della purezza della razza.

I 188 minuti di proiezione, questa è la durata del film, scorrono in un attimo tanto appassionante è la storia e tanta è la bravura degli attori. Tra questi Sebastian Koch, nella parte del cinico Professor Carl Seeband, già presente tra l’altro nel film Le Vite degli Altri, opera prima del regista Florian Henckel von Donnersmarck del 2006 premiato agli Oscar come miglior film straniero e che ottenne anche tre European Film Awards, sette German Film Awards, il BAFTA e il David di Donatello. La fotografia è curata da Caleb Deschanel, più volte nominato agli Oscar, che ha recentemente diretto alcune puntate della serie TV Twin Peaks.

Nella stesura della sceneggiatura il regista ha trovato ispirazione nell’opera di Gerhard Richter, dal quale ha appreso quanto basta per portare sullo schermo l’idea del potere universale dell’arte, dal momento che ogni opera che si rispetti non ha bisogno del suo autore ma appartiene a tutti senza identificarsi con il soggetto specifico che l’ha creata.

Il pubblico in sala ha manifestato entusiasmo e, secondo chi scrive, non ci sarebbe da meravigliarsi se Werk ohne Autor vincesse il Leone.

data di pubblicazione:05/09/2018








DRAGGED ACROSS CONCRETE di S. Craig Zahler, 2018

DRAGGED ACROSS CONCRETE di S. Craig Zahler, 2018

(75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

I due poliziotti Brett Ridgeman e Anthony Lurasetti, sospesi temporaneamente dal servizio per avere usato metodi violenti durante una retata contro un criminale, si vedono “costretti” a procurarsi in maniera non del tutto regolare dei soldi per far fronte ai propri problemi familiari. Il primo, con una figlia adolescente molestata dai ragazzi del quartiere, sente la necessità di trasferirsi altrove anche per poter accudire meglio la moglie afflitta da sclerosi; il secondo, più giovane, pensa invece di voler mettere su famiglia. Presentatasi l’opportunità e forti della loro esperienza, i due si troveranno coinvolti in una rapina che, proprio perché organizzata da altri, sarà piena di eventi per loro del tutto imprevedibili.

S.Craig Zahler è un personaggio poliedrico in quanto regista, sceneggiatore, scrittore, direttore della fotografia e musicista. Il suo film, presentato oggi fuori concorso, vorrebbe definirsi un poliziesco, solo che non è una vera e propria detective fiction con tanto di solerti ispettori e relativo caso ingarbugliato da risolvere. In Dragged Across Concrete infatti abbiamo due poliziotti dalla mano pesante, interpretati dai grandi Mel Gibson e Vince Vaughn, che si fanno sospendere dal servizio e non sanno come sbarcare il lunario. Li vediamo scivolare quindi nel mondo della malavita e diventare loro stessi parte di essa quando decidono in entrare in una rapina sorprendendo di fatto gli stessi rapinatori. Il meccanismo del film funziona, solo che il plot sul finale è alquanto scontato, con dei colpi di scena del tutto prevedibili frutto di una sceneggiatura non proprio tra le più brillanti. Dialoghi sconnessi e fuori posto fanno da contrappunto alla indiscussa bravura dei due protagonisti, ai quali si affianca una eccezionale Jennifer Carpenter, salita alla ribalta con il film The Exorcism of Emily Rose del 2005.

Non sono sufficienti al regista le storie personali dei due protagonisti, uno oramai alla soglia dei sessanta anni che non è riuscito a fare carriera e l’altro, giovane e meno disilluso, che cerca ancora il momento giusto per dichiarare il suo amore alla ragazza che intende sposare, per rendere più accattivante l’intera vicenda narrata nel film. L’ulteriore mancanza di originalità nei personaggi secondari, contribuisce a non far decollare Dragged Across Concrete verso qualcosa che possa realmente appassionare, in un action movie che si rispetti.

Si rimane tuttavia sempre un po’ interdetti nel pensare come, dopo aver scritto e diretto Brawl In Cell Block 99 (Nessuno può fermarmi) presentato l’anno scorso a Venezia ricevendo ampi consensi da parte della critica internazionale, Zahler abbia concepito una sceneggiatura così poco priva di sostanza. Ce ne faremo una ragione.

data di pubblicazione:04/09/2018







THE SISTERS BROTHERS di Jacques Audiard, 2018

THE SISTERS BROTHERS di Jacques Audiard, 2018

Il titolo di questo film dello sceneggiatore e regista francese Jacques Audiard, presentato in concorso a Venezia, non è un ossimoro. Sisters è il cognome di Charlie e Eli, che nella vita non solo sono fratelli ma anche soci in affari. Ingaggiati dal Commodoro per scovare un uomo e eliminarlo, i due non si faranno troppi scrupoli ad uccidere chiunque voglia fermarli nel loro viaggio che dall’Oregon li porterà sino in California sulle tracce di colui che, a quanto pare, ha la formula chimica, forse magica, per individuare i filoni d’oro.

 

Rimescolando gli stereotipi dei western di una volta, senza espresso riferimento né a quelli americani né tantomeno a quelli italiani portati al successo internazionale da Sergio Leone, il regista francese confeziona un film che è una vera e propria babele, ambientato in Oregon nel 1850 ma girato in Spagna e Romania, tratto da un romanzo del canadese Patrick DeWitt ed interpretato da attori americani di grosso calibro quali John C. Reilly, Joaquin Phoenix e Jake Gyllenhaal, nonché dal rapper britannico di origini pakistane Riz Ahmed; a tutto ciò si aggiunga l’impareggiabile tocco italiano della costumista Milena Canonero. Tutti ingredienti eterogenei che contribuiscono a creare alla perfezione una storia turbolenta di pistoleros senza scrupoli, ma che hanno anche uno spirito profondamente umano pur portando a termine una carneficina dietro l’altra.

Il regista in conferenza stampa ha dichiarato che non ha voluto fare del suo film un vero e proprio western, genere a lui più ostico che sconosciuto, quanto uno studio profondo sulle figure dei due fratelli ed il legame indissolubile che li unisce in ogni impresa. Se si vuole considerare come una metafora sulla disillusione dell’amore, in senso lato, forse un accostamento si potrebbe trovare con il film The Missouri Breaks di Arthur Penn con Marlon Brando e Jack Nicholson, film crudo e sufficientemente cinico che non esalta eroi né si schiera favorevolmente con coloro che si pongono come difensori dell’ordine. I due fratelli di Audiard hanno obiettivi diversi tra loro: Charlie vuole uccidere il Commodoro e impadronirsi del suo potere, Eli pensa invece ad una vita romantica, crearsi una famiglia e aprire un negozio per vivere. Nonostante le divergenze non riusciranno mai a separarsi.

Il pluripremiato Jacques Audiard (Il profeta, Un sapore di ruggine e ossa, Dheepan con cui vinse la Palma d’Oro a Cannes nel 2015) ci regala un western diverso, pieno di contraddizioni ma di tanto sentimento, quasi a dimostrarci che anche il più spietato dei cowboy ha un anima di tutto rispetto, ed in questo possiamo veramente crederci.

data di pubblicazione:03/09/2018








SUSPIRIA di Luca Guadagnino, 2018

SUSPIRIA di Luca Guadagnino, 2018

Finalmente è stato presentato l’attesissimo lavoro di Luca Guadagnino, tratto dall’omonimo film di Dario Argento: più che un remakeSuspiria, a detta dello stesso regista, è un doveroso omaggio a un autore che lo aveva letteralmente impressionato quando, appena quindicenne, aveva avuto l’opportunità di vedere al cinema quello che sarebbe divenuto a breve un cult a livello internazionale. Una sfida non facile: trarre ispirazione da un soggetto così conosciuto dai cinefili di tutto il mondo, è già di per sé un rischio per il genere horror.

Il film di Guadagnino segue le orme indelebili tracciate da Dario Argento in una rivisitazione dove, al di là delle linee fondamentali del plot originario, il regista inserisce del suo dandone una lettura in chiave più metafisica, in cui sono coinvolte donne e solo donne, che coesistono nella prestigiosa scuola di danza Markos Tanz ubicata nella Berlino ancora divisa dal muro. Il film è ambientato nel 1977 in una Germania scossa dai violenti attacchi terroristici della Raf, gruppo terroristico di matrice marxista-leninista chiamata anche banda Baader-Meinhof dal nome dei suoi fondatori, che il regista ha voluto porre come sfondo all’azione misteriosa che si svolge all’interno dell’Accademia. Fondamentale la figura della coreografa Madame Blanc, una magnetica ed eterea Tilda Swinton alla sua ennesima collaborazione con il regista, in una evocazione della grande Pina Bausch, la cui scuola ha decisamente rivoluzionato il concetto di danza contemporanea, ed intorno alla quale gravita l’apprensione emotiva che accompagna l’intero film. Il tema centrale è quello della stregoneria e della magia nera che ci riporta ad alcune riflessioni sul concetto dell’illusione e dell’ultraterreno, con uno sguardo particolare alla funzione delle donne, tema che sin dai primi fotogrammi è sintetizzato in una frase contenuta in un quadro “Una madre è una donna che può sostituire tutti ma non può essere sostituita”, e che si riallaccia al concetto di Mother nella trilogia di Argento.

Un mix quindi tra horror e stregoneria con uno sguardo anche alla psicoanalisi dal momento che tra i personaggi spicca la figura del dottor Klemperer interpretato da Lutz Ebersdorf (una Tilda Swinton sotto mentite spoglie?), storico psicoanalista degli anni sessanta attivo anche nel teatro sperimentale di quegli anni.

Comunque il film rimane sicuramente una concreta testimonianza dell’universo femminile e dei suoi misteri, tema che come dichiarato dallo stesso regista in conferenza stampa, trova ispirazione nella cinematografia del grande regista e drammaturgo Rainer Werner Fassbinder, uno dei maggiori esponenti del cinema tedesco moderno che seppe trattare le donne come vere eroine, nonostante spesso legate allo sfruttamento ed al potere degli uomini.

Difficile dire se Suspiria sia da considerarsi un esperimento ben riuscito: nonostante l’eccessiva durata, il film si fa seguire per la ricercatezza della fotografia e degli effetti sanguinolenti che lasciano lo spettatore con il fiato sospeso. Bravissime le giovani interpreti tra cui va menzionata Dakota Johnson e le scene di danza sono davvero raffinate e di altissimo livello.

Siamo tuttavia, secondo chi scrive, ben lontani dalle terrificanti tensioni emozionali che solo Dario Argento riusciva a trasmettere: un assoluto e impareggiabile gusto dell’orrore allo stato puro.

data di pubblicazione:02/09/2018