da Antonio Iraci | Ott 7, 2018
Lara è un adolescente androgino impegnato in un percorso che lo porterà a diventare una ragazza a tutti gli effetti. Il mondo che lo circonda, dalla famiglia alla scuola, è molto sincero nei suoi confronti e, senza pregiudizi o ammiccamenti di sorta, tutti lo vedono già al femminile. Con ferma determinazione, Lara decide di sottoporre il suo “scomodo” corpo alla rigida disciplina della danza con massacranti esercizi per realizzare, unitamente ad una appropriata cura ormonale per il cambio di sesso, la sua massima aspirazione di diventare una ballerina.
Il ventisettenne cineasta belga Lukas Dhont, qui alla sua opera prima, dopo aver ricevuto ampi riconoscimenti a Cannes insieme al protagonista Victor Polster, è oramai sulla strada verso Hollywood visto che Girl rappresenterà il Belgio ai prossimi Oscar 2019 come miglior film straniero. Merito del regista è quello di aver regalato agli spettatori una storia particolare, molto diversa da quelle così spesso rappresentate sul tema della disforia di genere, nelle quali principalmente si è parlato della sofferenza psicologica di un individuo alla scoperta di una propria identità sessuale e, quasi sempre, in contrasto con un atteggiamento sociale a lui apertamente ostile. Lara infatti, pur ancora fisicamente vincolata al genere maschile, è vista oramai da tutti come una ragazza e come tale si comporta in tutte le situazioni. Qui non ci troviamo di fronte alla tolleranza di una società, sicuramente più evoluta di quella italiana, ma si va oltre in quanto tutti considerano Lara non solo come vuole essere considerata, ma lo fanno senza alcun tabù. L’originalità del film è quella di farci entrare all’interno di quel corpo per condividerne anche i turbamenti adolescenziali, alla ricerca di un duplice posizionamento: sociale e sessuale. Lara, contrariamente a molti giovani della sua età, sa perfettamente dove vuole arrivare ma la sua età non le concede i tempi giusti, prefiggendosi di raggiungere gli obiettivi rapidamente, impaziente di attendere il periodo necessario per preparare il proprio corpo alla trasformazione finale. Un corpo che infatti fa resistenza e che sembra non volersi adattare con tempi così stretti da lei imposti. Fondamentale per il percorso è la figura paterna (Arieh Worthalter) di Lara, che assume nei suoi confronti un atteggiamento sempre attento, premuroso ma mai patetico, complice in questo lungo cammino verso il suo radicale cambiamento.
Mai una caduta di stile in entrambi i protagonisti, uniti in qualcosa di veramente grande ma che loro stessi affrontano con una semplicità a volte disarmante, punteggiata solo da attimi sporadici in cui prevale il puro senso del pudore. Attimi in cui ognuno cerca di guardarsi dentro per capire meglio cosa fare e soprattutto come farlo.
Film delicato e introspettivo, se vogliamo anche pieno di sofferenza, ma il tutto trattato con un rigore cinematografico ed una pulizia delle immagini, soprattutto nei lunghi primi piani, da cui emerge una professionalità da lasciare veramente sbalorditi.
data di pubblicazione:07/10/2018
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da Antonio Iraci | Ott 5, 2018
Sin da bambino Kurt Barnert aveva deciso che nella sua vita si sarebbe occupato solo di arte, ed in particolare della pittura, anche se il suo primo impatto con essa fu visitando una mostra a Dresda di pittori contemporanei. I lavori esposti saranno poi definiti dal nascente nazionalsocialismo come “Arte Degenerata” in quanto considerata frutto di menti malate che distorcevano i principi stessi dell’opera classica a vantaggio di idee riprovevoli e fuorvianti. Il film è il percorso artistico di Kurt Barnert, che lo vede attraversare diverse fasi: dapprima al servizio dell’ideologia comunista dopo la caduta del nazismo, successivamente a contatto con le avanguardie postmoderne, fino ad approdare alla maniera espressiva a lui più consona che consistette nel rappresentare ciò che in quel momento della sua vita considerava di più autentico.
Il film presentato in concorso a Venezia nell’ultima edizione della Biennale del Cinema, vuole esplorare su cosa spinge l’uomo a ricercare la propria identità artistica, e lo fa essenzialmente attraverso la storia d’amore dei suoi protagonisti Kurt (Tom Schilling) e Ellie (Paula Beer) e il percorso di formazione che li legherà indissolubilmente per tutta la vita. Sullo sfondo inizialmente le crudeltà del nazismo, con le sue aberrazioni che non sembrano aver fine anche molti anni dopo, quando tutto sembra oramai sepolto dai nuovi slanci di democrazia. A tutto questo sopravvive l’arte che di per sé racchiude uno dei più grandi enigmi dell’umanità dal momento che sfugge a qualsiasi formula precostituita e nello stesso tempo però riesce sempre a suscitare in chi ne fruisce emozioni uniche ed indescrivibili.
Il film ripercorre una parte della storia tedesca, dalla guerra alla distruzione post nazista, alla ricostruzione, fino ad arrivare alla Repubblica Democratica Tedesca e alle sue fanatiche ideologie di stampo sovietico. In questo contesto si innesta la storia d’amore di due giovani che sembrano non aver paura di quello che si sviluppa intorno a loro, soprattutto delle esecrabili azioni del padre della ragazza privo di qualsiasi scrupolo verso tutti, persino verso la sua stessa figlia pur di difendere l’idea perversa della purezza della razza.
I 188 minuti di proiezione, questa è la durata del film, scorrono in un attimo tanto appassionante è la storia e tanta è la bravura degli attori. Tra questi Sebastian Koch, nella parte del cinico Professor Carl Seeband, già presente tra l’altro nel film Le Vite degli Altri, opera prima del regista Florian Henckel von Donnersmarck del 2006 premiato agli Oscar come miglior film straniero e che ottenne anche tre European Film Awards, sette German Film Awards, il BAFTA e il David di Donatello. La fotografia è curata da Caleb Deschanel, più volte nominato agli Oscar, che ha recentemente diretto alcune puntate della serie TV Twin Peaks.
Nella stesura della sceneggiatura il regista ha trovato ispirazione nell’opera di Gerhard Richter, dal quale ha appreso quanto basta per portare sullo schermo l’idea del potere universale dell’arte, dal momento che ogni opera che si rispetti non ha bisogno del suo autore ma appartiene a tutti senza identificarsi con il soggetto specifico che l’ha creata.
A Venezia durante la proiezione il pubblico ha manifestato entusiasmo mentre la critica ha accolto il film con un leggero ingiustificato distacco. Attendiamo i risultati in sala.
data di pubblicazione:05/10/2018
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da Antonio Iraci | Ott 3, 2018
(Pan Opera Festival 2018 – Panicale, 28/30 settembre 2018)
Potrà sembrare una bizzarra stravaganza l’affermare che ancora oggi, per alcuni, Rossini equivale ad individuare quel bonario gourmand che ideò una speciale ricetta per il filetto o quel particolare omonimo aperitivo a base di prosecco e pesca. Per i più informati il nome Rossini rimanda invece al celebre compositore pesarese nato nel 1792 che, con le sua musica, seppe rinnovare il teatro musicale italiano di quell’epoca, oramai lontano dalla raffinata sensibilità settecentesca ma non ancora del tutto maturo per essere identificato come romantico. Tra la sua vasta produzione musicale, sulla quale non è il caso di soffermarsi, vanno comunque annoverate quelle composizioni di breve durata che, con un accompagnamento orchestrale ridotto all’essenziale, possono definirsi piccole farse comiche a carattere giocoso. Tra queste La scala di seta, risalente al periodo veneziano del compositore e datata 1812, il cui soggetto era stato tratto dall’opéra-comique L’échelle de soie che a sua volta derivava dal libretto di Sophie ou le mariage caché, in poche parole un remake di un remake, come potremmo intenderlo oggi con linguaggio cinematografico. Proprio quest’opera, in un atto, della durata di appena novanta minuti, è stata rappresentata a chiusura del Pan Opera Festival 2018 presso il Teatro Cesare Caporali di Panicale, deliziosa cittadina umbra nota agli appassionati d’arte per aver dato i natali a Masolino, da molti ritenuto il maestro del celeberrimo Masaccio, uno dei fondatori della pittura rinascimentale. Il festival è stato ideato dall’Associazione TéathronMusikè sotto la Direzione Artistica del basso baritono e regista Virgilio Bianconi, che anche in questa quarta edizione ha voluto presentare una proposta lirica di tutto rispetto.
Da rilevare che il teatro, per le sue ridottissime dimensioni, non viene per nulla preso in considerazione dagli Enti Pubblici, ma sopravvive per i moltissimi sostenitori privati e grazie agli stessi artisti che offrono la loro professionalità accontentandosi di cachet limitatissimi. La peculiarità di questa edizione è la celebrazione del 150° anno dalla morte di Rossini e quindi un’occasione da non perdere per far conoscere la personalità del celebre compositore e per la messa in scena de La scala di seta con la regia di Primo Antonio Petris, che ne ha curato in maniera del tutto originale anche le scene e i costumi. Molto buona la performance dei cantanti accompagnati dalla Pan Opera Festival Orchestra sotto la direzione di Patrick David Murray.
Una ragione in più per visitare la splendida Panicale e conoscere il suo teatro in miniatura di appena 150 posti, incluso la platea e i due ordini di palchi, una chicca per i melomani e per i curiosi in cerca di luoghi particolari da iscrivere nel proprio cahier de voyages.
data di pubblicazione:03/10/2018
da Antonio Iraci | Set 28, 2018
Florence Green, oramai vedova da diversi anni, vuole scrollarsi di dosso la tristezza che pervade la sua vita e decide di realizzare il suo sogno nascosto che è quello di aprire una libreria. Sfortunatamente sceglie il posto sbagliato: la piccola cittadina di Hardborough sulla costa inglese. Florence si troverà presto ad affrontare non solo lo scetticismo della gente del luogo ma, essenzialmente, l’ostruzionismo della ricca Mrs. Gamart che vuole assolutamente difendere la propria influenza culturale su questa cittadina in perenne letargo. A tutto questo si aggiunge lo scandalo sollevato dalla vendita di libri quali Lolita di Nabokov e Fahrenheit 451 di Ray Bradbury che sicuramente non facilitano il compito di farsi ben volere dalle persone del posto.
La regista catalana Isabel Coixet è ben nota al pubblico italiano grazie al successo ottenuto nel 2005 con La vita segreta delle parole, presentato al Festival di Venezia nella Sezione Orizzonti e premiato in patria con ben quattro premi Goya tra cui quelli per miglior film e migliore regia. Nel 2003 con La mia vita senza me (candidato agli European Film Awards come miglior film e due premi Goya) si era fatta notare anche alla Berlinale dove, nell’edizione di quest’anno, ha presentato La casa dei libri.
Tratto dal romanzo The bookshop di Penelope Fitzgerald del 1978, il film è ben costruito, con una fotografia che conferisce alla pellicola un respiro di aria fresca liberandola dall’atmosfera polverosa della libreria di Florence (Emily Mortimer) alla quale la ventosa costiera britannica fa da contrappunto. La protagonista è un personaggio che dietro l’apparente fragilità di una vedova indifesa nasconde invece una buona dose di coraggio e di risolutezza di fronte alle situazioni avverse che le si presentano; dovrà infatti lottare molto contro l’aristocratica Mrs. Gamart (Patricia Clarkson) che cercherà, in tutti i modi, di ostacolare l’attività della libreria ricorrendo a stratagemmi politicamente poco corretti.
Il finale, seppur non possa definirsi un happy end, non cancella tuttavia quella prevedibilità che distoglie in parte l’interesse dello spettatore. All’incontestabile bravura degli interpreti si registra, di contro, una narrazione poco interessante e del tutto priva di qualsiasi coinvolgimento emotivo: ne risulta un film lento e a tratti addirittura noioso, riscattato dall’unica nota positiva rappresentata dalla figura di Florence che ama non solo leggere i libri ma anche accarezzarli, per scoprirne quel fascino segreto che va al di là della carta stampata.
data di pubblicazione:28/09/2018
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da Antonio Iraci | Set 7, 2018
(75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)
Ci troviamo a Capri, allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Un gruppo di giovani nordeuropei ha trovato sull’isola il luogo adatto per fondare una comune e ricercare insieme l’arte e la propria stessa identità lontano dal mondo così detto civilizzato. Ma la gente, che sia pur con una certa riluttanza li ha tutto sommato accolti bene, ha tuttavia una propria tradizione da tutelare. Si trova spesso in contrasto con gli ideali utopistici dei ragazzi che tra danze e riti iniziatici vivono sperimentando con la nudità dei loro corpi il contatto con la natura selvaggia che caratterizza l’isola. In questo contesto vive Lucia, ragazza analfabeta che si occupa di badare alle capre: un giorno, quasi per caso, incontra il capo carismatico del gruppo e ne rimane attratta, iniziando a coltivare in sé la consapevolezza di essere una donna libera e matura, tanto da poter iniziare quel processo di emancipazione al di fuori da ogni stereotipo che la propria famiglia di origine vorrebbe imporle.
Con Capri-Revolution, presentato in concorso a Venezia, Mario Martone chiude la trilogia, iniziata con Noi credevamo e continuata con Il Giovane favoloso, sulla storia dell’Italia dal Risorgimento sino alla Prima Guerra Mondiale scrivendo con la moglie Ippolita Di Majo una sceneggiatura perfetta in ogni suo aspetto che, sia pur ambientata nel passato, risulta molto pertinente con i problemi di oggi che riguardano il nostro rapporto con la natura, il progresso ed in ultima analisi la sopravvivenza della stessa umanità. Ecco che Capri con la sua essenza arcaica, quasi mitologica, trova identificazione in Lucia (Marianna Fontana), una ragazza povera di cultura scolastica ma che concentra in sé tutti gli ideali di libertà e di riscatto sociale per i quali ancora oggi le donne devono purtroppo lottare. La giovane incontra i membri della comunità guidata da Seybu (l’attore olandese Reinout Scholten van Aschat) e di nascosto ammira la loro nudità tra le rocce bruciate dal sole e da questa immagine inizia il proprio percorso di liberazione, con un processo simile a quello con cui gli esuli russi a Capri si preparavano in quegli anni alla grande rivoluzione.
Il racconto prende spunto dalla comune realmente fondata dal pittore spiritualista Karl Diefenbach che intendeva praticare la sua arte attraverso un radicale sovvertimento delle leggi tradizionali in cui era di fondamentale importanza il contatto diretto con la natura, soprattutto attraverso la danza e la liberazione del corpo. I principi basilari di questo pensiero troveranno poi sviluppo negli anni ’60 e ’70, diventando un fenomeno collettivo che coinvolse molti giovani di quella generazione verso la ricerca di una spiritualità del tutto nuova, lontano dai condizionamenti sociali e consumistici. Ecco che Lucia rappresenta per il regista il pretesto per parlare di due mondi contrapposti: quello della comunità dei pastori dell’isola e quello della comune i cui membri sono tutti naturisti, omeopati, vegetariani e antimilitaristi, in un contesto storico ben preciso in cui l’Europa entrava nel conflitto mondiale.
Ottima la scelta del cast, tra cui la grande Donatella Finocchiaro nella parte della madre; la fotografia è stata curata da Michele D’Attanasio, già vincitore nel 2017 del David di Donatello per il film Veloce come il vento di Matteo Rovere: la nitidezza delle immagini piene di colore rimanda al simbolismo dei pittori preraffaelliti e alle figure luminose ispirate all’arte neoromantica.
Un film carico di sentimento che sicuramente è destinato a far parlare di sé e ce lo auguriamo tanto, soprattutto nell’ambito del mercato cinematografico internazionale.
data di pubblicazione:07/09/2018
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