da Antonio Iraci | Ott 24, 2018
(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 13ma Edizione, 18/28 ottobre 2018)
Il 16 gennaio 1969 Jan Palach, studente alla Facoltà di filosofia dell’Università di Praga, si recò in piazza San Venceslao, si cosparse il corpo di benzina e si diede fuoco. Il suo fu un atto estremo di disperazione contro l’occupazione militare della Cecoslovacchia da parte delle truppe sovietiche e servì a sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale su ciò che stava realmente accadendo nel suo Paese.
Tra le mille prerogative del cinema c’è non solo quella di raccontare storie inventate, ma anche di portare a conoscenza del pubblico qualcosa che fa parte della storia universale come il fatto narrato in questo film, forse dimenticato, che invece merita di essere ricordato per il significato che ha trasmesso e che potrebbe trasmettere alle nuove generazioni che non hanno vissuto in pieno la dicotomia tra un paese occupato ed un paese occupante. Tuttavia Jan Palach, del regista ceco Robert Sedláček, appare eccessivamente didascalico nel voler raccontare gli ultimi mesi della vita di questo giovane studente, che divide il suo tempo tra i propri affetti e lo studio universitario. In un paese dove la presenza sovietica aveva annullato la libertà di espressione, la popolazione si era rassegnata al sopruso, la sua protesta, insieme a quella di tanti altri studenti impegnati politicamente all’interno dell’Università, fu un vero e proprio grido contro l’invasore.
Il film con la sua ambientazione riesce comunque a trasmettere quel clima grigio di tristezza che appesantiva gli animi e che contribuiva nel silenzio a spegnere ogni speranza di indipendenza, ponendo di fatto fine a quell’effimera stagione riformista che era stata indicata come la “Primavera di Praga”. Il protagonista Viktor Zavadil, con il suo sguardo smarrito, contribuisce a rendere l’atmosfera claustrofobica dove non c’è spazio neanche per una logica spiegazione del perché di quel gesto. Certamente un documento importante per i giovani che sconoscono la non libertà e che oramai hanno abbandonato quegli ideali a vantaggio di altri, forse meno nobili. Il film, a volte eccessivamente lento nel farci entrare negli ingranaggi della storia, desta qualche sporadico sbadiglio assieme ad un misto di interesse ed apprensione. Se ne suggerisce la visione a quei ragazzi ignari, che magari hanno incontrato il nome di Jan Palach per indicare una strada o una piazza della propria città: occasione buona per soddisfare magari una propria curiosità.
data di pubblicazione:24/10/2018
da Antonio Iraci | Ott 22, 2018
(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 13ma Edizione, 18/28 ottobre 2018)
Jared, figlio del pastore protestante di una piccola cittadina dell’Arkansas, è costretto dal padre a seguire una terapia riabilitativa di conversione dopo aver confessato di essere gay. Mandato in un centro specializzato, dovrà seguire un rigido programma allo scopo di modificare forzatamente il proprio orientamento sessuale. Una maggiore presa di coscienza di sé determinerà in lui un radicale cambiamento ma non nella direzione che gli si voleva imporre.
Questa tredicesima edizione della Festa del Cinema di Roma affronta in maniera decisa problematiche ancora attuali nella società americana e che, per estensione, riguardano anche la realtà in cui ci troviamo: la discriminazione razziale e la difficoltà a manifestare apertamente la propria identità sessuale. Su quest’ultimo punto il film Boy Erased, che porta la firma del regista e attore australiano Joel Edgertorn, sembra essere perfettamente calzante per gettare uno sguardo nell’animo di un adolescente al quale viene impedito di essere se stesso, prima dalla famiglia e poi dalla società in cui vive. Il protagonista, interpretato da Lukas Hedges, è circondato da un ambiente impregnato di una religiosità austera tutta rivolta a suscitare in lui infondati sensi di colpa solo per il fatto di essere attratto da individui dello stesso sesso. Al padre, da buon pastore protestante, non rimane che applicare le proprie insane convinzioni e imporre al figlio quel radicale “trattamento” necessario per essere accettato dagli altri. Il ruolo dei genitori è interpretato da un ingombrante Russel Crowe e da una sempre affascinante Nicole Kidman, meno ingessata del solito, che riescono a manifestare quel sentimento di impotenza, mista a rabbia, che sentono nei confronti del loro figlio Jared. Una violenza psicologica, a tratti anche fisica, che si percepisce e della quale non ci si riesce a liberare.
Tratto dall’omonimo romanzo autobiografico dello scrittore Garrad Conley, il film ripercorre con un senso di grande sensibilità il travaglio del giovane protagonista e le difficoltà che dovrà affrontare per accettarsi e farsi accettare. Nello strepitoso cast troviamo anche lo stesso regista, nella parte del terapeuta, mentre un piccolo ruolo viene ricoperto da Xavier Dolan, sul quale non è necessario soffermarsi data la sua conclamata notorietà. Un film coraggioso del quale se ne consiglia vivamente la visione.
data di pubblicazione:22/10/2018
da Antonio Iraci | Ott 21, 2018
(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 13ma Edizione, 18/28 ottobre 2018)
La polizia sta seguendo le tracce di Piero, sospettato principale per una rapina effettuata in una discoteca romana. Sua cugina Giulia, amante dei programmi polizieschi, convoca i suoi fidati amici per iniziare insieme un attento esame dei pochi indizi di cui dispone. Sarà proprio lei, detective per caso, a risolvere l’enigma e portare all’arresto del vero colpevole.
In questa tredicesima edizione della Festa del Cinema di Roma è veramente lodevole che gli organizzatori, o meglio i selezionatori delle pellicole, abbiamo trovato lo spazio per questo film dove, accanto ai nomi di alcuni attori professionisti, recitano per la prima volta giovani disabili. Il regista Giorgio Romano, qui al suo esordio, precisa che nel suo lavoro non si tratta affatto di disabilità e insieme a Daniela Alleruzzo, che ne ha curato il soggetto, ha deciso di portare sul grande schermo una commedia simpatica e divertente che, con la giusta dose di ironia, riesce a dare spazio alla diversità. Un esperimento sicuramente ben riuscito che rende concreti i sogni e le ambizioni di questi attori in erba, che hanno così avuto la possibilità di esibire la propria abilità recitativa.
I ragazzi, che hanno già calcato le scene a teatro, fanno parte dell’Associazione L’Arte nel cuore, un’Accademia dove vengono formati giovani diversamente abili per essere immessi nel circuito teatrale e cinematografico internazionale. In un programma così impegnativo, dove vengono ogni giorno presentati grandi film di importanti registi, fa bene respirare un’aria più leggera e frizzante che abbatta ogni barriera, che si frappone tra ciò che è considerato normale dal diverso, e offra spazio anche alla voce di chi ha talento, a prescindere dalla propria disabilità.
Il progetto, promosso dalla Fondazione Allianz UMANA MENTE, pone lo spettatore a considerare i giovani attori come i veri protagonisti della scena perché l’essere diverso non significa essere automaticamente sbagliato o fuori posto ma sovente, per essere diverso, ci vuole molto coraggio.
data di pubblicazione:21/10/2018
da Antonio Iraci | Ott 20, 2018
(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 13ma Edizione, 18/28 ottobre 2018)
Durante uno dei suoi frequenti viaggi di lavoro, un fotografo olandese fissa con la sua macchina fotografica l’immagine di una bambina con il suo aquilone, sola in una strada buia di Taipei. Tornato a casa quella foto, più di ogni altra, evocherà in lui un’infanzia oramai lontana e stimolerà, nel presente, una maggiore presa di coscienza di sé e della solitudine che lo circonda.
Dopo aver visto questo ultimo film del regista olandese David Verbeek ci si chiede spontaneamente se la fotografia fissi solo l’immagine che rappresenta o se si debba andare oltre per esplorare tutto un universo che essa stessa racchiude, davanti e dietro l’obiettivo. Forse quello scatto non è altro che quel minuscolo buco nero, quella particella microscopica che racchiude però in sé la massa di tutto l’universo: un nanosecondo che concentra il passato e il futuro e in buona sostanza tutta l’eternità. La foto della bambina con il suo aquilone fa sì che la sua giovane vita possa intrecciarsi con quella del fotografo e non solo nell’istante preciso in cui viene realizzata; la piccola, divenuta adulta, trova nell’abbandono del suo migliore amico la forza di reagire e di costruirsi una propria esistenza, mentre il giovane sembra vagare ancora tra un posto e l’altro del globo terrestre per trovare una propria identità. In un momento di totale alienazione, troverà finalmente il modo per interrogarsi e cercare una spiegazione del perché la vita lo rende triste, solo e incapace di realizzare i sogni e le aspirazioni proprie della sua infanzia.
Il regista David Verbeek, che nel film interpreta praticamente se stesso, ci mostra un mondo delicato ma nello stesso tempo freddo, dove non vi è spazio per il sentimento e per la comunicazione interpersonale. Ecco quindi che per lui la fotografia non è altro che l’espressione di una ricerca sociale stratificata, parole che per chi gli sta accanto risultano intrise del nulla ma che per lui sono l’essenza propria del suo esistere. Il montaggio della pellicola permette che le sequenze temporali si sovrappongano proprio per sottolineare il fatto che ognuno è sospeso nel tempo in una dimensione indefinita.
Il film, decisamente ben riuscito, si lascia seguire con interesse, stimolando nello spettatore vari interrogativi sulla propria realizzazione personale e rappresentando un vero e proprio pretesto per mettersi in discussione, e per cercare ancora una volta il posto adatto dove approdare.
data di pubblicazione:20/10/2018
da Antonio Iraci | Ott 13, 2018
(Teatro Palladium – Roma, 1/14 Ottobre 2018)
Goliarda Sapienza (1924-1996) siciliana di nascita e romana d’adozione, viene allevata insieme ai suoi numerosi fratelli a pane e rivoluzione, in un contesto storico politico dove essere sindacalisti, e per giunta socialisti, significava la prigione. Donna poliedrica e, per pura definizione, controcorrente, va a studiare presso l’Accademia di Arte Drammatica iniziando una discreta carriera come attrice di teatro e di cinema. Diventata scrittrice, non viene per niente notata dalla critica ed il suo romanzo L’arte della gioia verrà pubblicato in Italia postumo, quando all’estero era oramai diventato un best seller e riconosciuto come un capolavoro: una vera rivelazione letteraria di una meravigliosa e coraggiosa narratrice.
Sulla scena un enorme letto da dove Goliarda parla di sé, della sua famiglia, dei suoi amori. Fa da contrappunto l’intervento dello psicanalista, imposto e quindi mal tollerato, che cerca di evocare ricordi secondo una pratica che la protagonista respinge con determinazione, incapace di seguire una logica che non le appartiene. La donna non è pazza ma sente il bisogno di rintanarsi nel suo angolino, nella sua camera dove poco a poco si è creata uno scenario esclusivo tutto suo. Anche se sfinita e disillusa da una vita decisamente ostile, continua la sua lotta per affermare se stessa e per immaginarsi un nuovo mondo fatto di belle cose e forse di un nuovo passionale amore: perché lei racchiude di fatto quanto di più carnale e di intellettuale si possa trovare in una donna siciliana ,abituata a attraversare in silenzio bufere sentimentali dopo aver riscoperto l’arte della gioia e del saper essere felici.
Paola Pace, autrice della drammaturgia insieme a Francesca Joppolo, recita in teatro Goliarda proponendo in un contesto denso di pathos emotivo la traccia di alcuni tra i più noti romanzi della scrittrice catanese con particolare riferimento alla figura di Modesta, donna decisamente immorale, secondo la morale comune, che sin dall’infanzia è consapevole di essere destinata ad una vita che va ben oltre i confini della sua condizione di nascita, riuscendo a capovolgere tutte le regole del gioco pur di affermare il proprio vero piacere. Nella realizzazione dello spettacolo, già presentato con successo al Teatro Biondo di Palermo, ci si è avvalsi della preziosa consulenza artistica di Angelo Pellegrino, marito di Goliarda Sapienza, che è anche curatore della sua opera, ora interamente pubblicata da Einaudi. Modesta nell’incipit de L’arte della gioia parla di quel primo ricordo: “Eccovi me a quattro, cinque anni in uno spazio fangoso che trascino un pezzo di legno immenso. Non ci sono né alberi né case intorno, solo il sudore per lo sforzo di trascinare quel corpo duro e il bruciore acuto delle palme ferite dal legno…”.
Lo spettacolo apre la stagione della Fondazione Roma Tre presso il Teatro Palladium con il coinvolgimento diretto della comunità accademica oggi più che mai impegnata sul fronte della formazione culturale e, nello specifico, teatrale dei giovani. Presente in sala l’oramai vecchissimo psicoanalista che a suo tempo ebbe in terapia la scrittrice divenendone poi l’amante cosa che gli procurò l’abbandono definitivo dell’attività di terapeuta.
data di pubblicazione:13/10/2018
Il nostro voto:
Gli ultimi commenti…