da Antonio Iraci | Feb 19, 2019
Un gruppo di ragazzi, tutti minorenni, sfrecciano con i loro scooters per le vie del rione Sanità di Napoli. Il sogno della loro vita è quello di procurarsi con ogni mezzo tanti soldi, sufficienti a garantire loro l’ultimo modello di sneakers o altro capo d’abbigliamento super firmato. Usano e spacciano droga e non esitano un istante ad impugnare le armi per tenere sotto controllo il quartiere. Il loro leader è Nicola che conosce a fondo le regole del gioco e sa esattamente che per affermarsi dovrà contrastare i vecchi boss malavitosi che ora detengono il potere. Letizia, la sua ragazza, lo seguirà in questa escalation di criminalità, conquistata anche lei da una vita facile, piena di lusso e di divertimenti.
Presentato in prima mondiale nell’edizione della Berlinale appena conclusasi, La paranza dei bambini di Claudio Giovannesi, tratto dall’omonimo romanzo di Roberto Saviano che ne ha curato la sceneggiatura insieme allo stesso regista e a Maurizio Braucci, ha meritatamente ottenuto l’Orso d’Argento per la migliore sceneggiatura: la scrittura usata, senza troppi preamboli, ci porta nel cuore di una città dove anche un ragazzino inesperto può ambire a ricoprire un posto di rilievo nella malavita organizzata. Il termine paranza, indicato per un tipo di pesca che utilizza le reti a strascico, in gergo camorristico individua una piccola banda malavitosa formata da minorenni, ragazzi giovanissimi che hanno abbandonato la scuola e che hanno, come unico sogno, quello di entrare nella criminalità spicciola del quartiere in cui vivono. Per potersi imporre dovranno intanto avere una pistola, che non importa saperla maneggiare: con essa devono imparare a fronteggiare chi già detiene il potere, introducendosi nel traffico della droga che consente loro di procurarsi in breve tempo una grande quantità di denaro. Divenuti i capi indiscussi che controllano gli affari, di fronte alla loro ingenua sfrontatezza e, talvolta, efferatezza nell’usare le armi, anche i vecchi boss si arrendono e cedono il passo.
Il film di Giovannesi, regista molto sensibile verso i problemi dei giovani (ricordiamo Alì ha gli occhi azzurri del 2012 e Fiore del 2016), ha dichiarato di non volere assolutamente guadagnarsi una funziona pedagogica ma semmai illustrare una realtà, tutta napoletana, dove gli stessi giovani si sentono costretti ad una scelta criminale, per lo più inconsapevoli dei rischi e del prezzo molto alto che prima o poi dovranno pagare. Una decisione quindi determinata dalla contingenza di soddisfare per sé, e per la propria famiglia, dapprima dei bisogni primari per poi arrivare a comprarsi quei generi di lusso che rappresentano, ai loro giovani occhi, veri e propri status symbol del potere.
I due interpreti Francesco Di Napoli (Nicola) e Viviana Aprea (Letizia), così come tutti gli altri, sono attori non professionisti incredibilmente presi dalla strada e alla loro prima esperienza cinematografica.
A differenza di Gomorra di Matteo Garrone, anch’esso ispirato all’omonimo best seller di Saviano, La paranza dei bambini seppur in ambito camorristico ci mostra un aspetto un po’ diverso, quasi tenero, intriso di un realismo estremo che ci porta ad osservare la vita pulsante dei quartieri napoletani dove, nonostante le brutture che questi ragazzi vivono, aleggia una profonda umanità, sentimento che in fondo anima anche le loro giovani coscienze.
La giuria della Berlinale, che quest’anno è stata presieduta da Juliette Binoche, così come riferivano alcuni rumors che circolavano prima della premiazione, aveva mostrato grande apprezzamento per il film, la cui sceneggiatura risulta “impastata” di violenza e amore nel decrivere le vicende dei suoi protagonisti, verso un ineluttabile epilogo sul quale il regista si è volutamente astenuto dall’esprimere alcun giudizio morale.
Film decisamente da vedere.
data di pubblicazione:19/02/2019
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da Antonio Iraci | Feb 16, 2019
Seppur la critica internazionale presente a questa edizione della Berlinale abbia sin da subito accolto molto favorevolmente il film di Nadav Lapid, giovane regista e sceneggiatore di Tel Aviv, stupisce ugualmente l’assegnazione di un premio così importante come l’Orso d’Oro al suo Synonymes che, a parere di molti, è stato un po’ sopravvalutato. Il film narra delle vicende del giovane Yoav che decide di fuggire da Israele perché l’aria è diventata per lui irrespirabile, per trovare rifugio a Parigi dove cercherà in tutti i modi di integrarsi iniziando ossessivamente a perfezionare il suo francese. Sicuramente un film di valore interpretato in maniera mirabile dall’attore israeliano Tom Mercier, che ha saputo ben esprimere l’idea e lo spirito decisamente politici che il regista, in aperta polemica con il suo paese, ha voluto imprimere al suo film. Grande è stata poi la soddisfazione per il cinema italiano, dal momento che sono stati premiati ben due dei tre film presentati: Dafne di Federico Bondi come miglior film per la Sezione Panorama e La paranza dei bambini, in selezione ufficiale, che è stato premiato con l’Orso d’Argento per la migliore sceneggiatura. Entrambi, secondo chi scrive, hanno vinto meritatamente il premio, dimostrando ancora una volta che il cinema italiano, sovente così bistrattato in patria, riesce al contrario ad ottenere riconoscimenti nei più importanti festival internazionali come questa Berlinale appena conclusasi.
Ecco l’elenco completo dei premi assegnati ai film in concorso:
Orso d’Oro per il Miglior film a Synonymes di Nadav Lapid;
Orso d’Argento, Gran Premio della Giuria a Grâce à Dieu di François Ozon;
Orso d’Argento per il film che apre Nuove Prospettive a Syspemsprenger di Nora Fingscheidt;
Orso d’Argento per la Migliore Regia a Angela Schanelec per il film Ich war zuhause, aber;
Orso d’Argento per la Miglior Attrice a Yong Mei nel film cinese Di jiu tian chang;
Orso d’Argento per il Miglior Attore a Wang Jingchun sempre nel film cinese Di jiu tian chang;
Orso d’Argento per la Migliore Sceneggiatura a Giovannesi, Saviano e Braucci per La paranza dei bambini;
Orso d’Argento per il Miglior contributo artistico a Rasmus Videbaek per la fotografia in Out Stealing Horses.
E così questa 69esima edizione della Berlinale si è conclusa in maniera non proprio soddisfacente, a detta di molti. Nella cerimonia di chiusura si è voluto più volte ringraziare il contributo di Dieter Kosslick che ha diretto la Berlinale per ben diciotto anni. L’anno prossimo la direzione passerà a Carlo Chatrian, attualmente responsabile artistico del Locarno Film Festival.
La 70esima edizione avrà luogo dal 20 Febbraio al 1 marzo 2020 e noi di Accreditati ci auguriamo di essere ancora una volta presenti, con l’impegno e l’amore per il cinema che da sempre ci caratterizzano.
data di pubblicazione:16/02/2019
da Antonio Iraci | Feb 15, 2019
(69 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 7/17 Febbraio 2019)
È il 1889: siamo in un piccolo paese della Galizia in Spagna. Elisa e Marcela frequentano la stessa scuola cattolica presso un convento di suore. Sin dal primo incontro nasce tra di loro una immediata empatia che in poco tempo si trasformerà in una passionale relazione. Divenute entrambe maestre, decidono di vivere la loro relazione, comportamento scandaloso non tollerato tra gli abitanti del luogo. Nell’estate del 1901 Elisa decide di prendere l’identità del defunto cugino Mario e così, raggirando il parroco, potrà sposare regolarmente in chiesa l’amata Marcela e vivere come una coppia etero. L’inganno verrà scoperto e da quel momento inizierà per loro un periodo molto triste e pieno di insidie.
La regista catalana Isabel Coixet ha ottenuto un discreto successo nel 2005 con il film La vita segreta delle parole, presentato al Festival di Venezia nella Sezione Orizzonti e premiato in patria con ben quattro premi Goya, tra cui quelli per il miglior film e la migliore regia. A Berlino si era fatta già notare nel 2003 con La mia vita senza me e lo scorso anno con The Bookshop, pellicole che hanno ottenuto ampi consensi da parte del pubblico e della critica.
La Coixet sembra prediligere nei suoi lavori tematiche al femminile, come anche in questo suo ultimo lavoro presentato in concorso alla Berlinale, in cui viene affrontata una relazione tra due donne in un tempo in cui era intollerabile. Le immagini in bianco e nero trovano ispirazione da una vera foto che ritrae Marcela e Elisa, quest’ultima in sembianze maschili, il giorno delle loro nozze. Le inquadrature indugiano molto sulle protagoniste come per dare più risalto alla vicenda che le coinvolge, in una spirale sempre più drammatica, entrambe vittime di un contesto che non può accettare la loro unione sentimentale. La regista è molto brava nel voler sottolineare il coraggio dimostrato dalle due donne e la determinazione nel voler a tutti costi salvare il loro amore. Molto singolare è il fatto che il matrimonio non fu mai annullato anche se aspramente condannato, in un paese come la Spagna che passerà attraverso una dittatura di molti anni e che nel 2005 fu uno dei primi paesi democratici europei a legalizzare l’unione tra due individui dello stesso sesso.
L’unica critica al film è forse quella di voler indugiare troppo sull’intimità delle due donne, egregiamente interpretate da Natalia de Molina (Elisa) e Greta Fernàndez (Marcela), con delle semi-soggettive che di proposito allungano esageratamente i tempi di ripresa, anche se l’effetto ottenuto è funzionale alla storia che si articola in un periodo a cavallo tra la fine dell’ottocento e gli inizi del novecento, in cui le apparizioni in pubblico per le donne di un certo contesto sociale erano contenute e limitate. La pellicola prodotta da Netflix, presente per la prima volta a Berlino, non è stata accolta favorevolmente da tutta la critica presente alla Berlinale: si spera comunque che venga distribuito nelle sale cinematografiche italiane così come è avvenuto per Roma, premiato quest’anno a Venezia con il Leone d’Oro e in odore di Oscar.
data di pubblicazione:15/02/2019
da Antonio Iraci | Feb 14, 2019
(69 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 7/17 Febbraio 2019)
Petrunya ha 31 anni ed è laureata in storia, ma non riesce a trovare lavoro perché nel piccolo villaggio della Macedonia, dove vive ancora con i genitori, a nessuno interessa quel titolo di studio e che ad averlo sia una donna. Il giorno dell’epifania è usanza che il prete ortodosso della comunità getti nelle acque gelide del fiume Vardar una croce di legno: tutti i ragazzi si tuffano per cercare il prezioso oggetto che, secondo la millenaria tradizione del luogo, gli assicurerà fortuna durante l’intero anno. Tornando a casa, dopo un ennesimo colloquio di lavoro fallito, Petrunya assiste alla cerimonia e, senza alcun indugio, si getta vestita e riesce a recuperare il crocifisso. Questo fatto renderà furiosi gli uomini del paese che da quel momento in poi non le daranno più pace.
Teona Strugar Mitevska è una regista di Skopje al suo debutto qui alla Berlinale. Il suo film, presentato in concorso, è un’amara satira contro la sua società perché ci racconta della ribellione di una donna contro la rigida mentalità patriarcale ancora vigente in Macedonia. La pellicola se da un lato ha aspetti veramente divertenti e al limite del grottesco, d’altro lato invece induce ad una amara riflessione sull’atteggiamento machista di alcuni paesi come quello di questa storia. È pur vero che la ragazza ha infranto un’antica tradizione religiosa, in una competizione che vede la partecipazione solo di individui di sesso maschile, anche se di fatto le autorità non trovano alcuna legge dello stato che vieti espressamente ad una donna di partecipare. L’atto di ribellione, accompagnato dalla tenacia di resistere agli insulti e alle intimidazioni dell’intera comunità, si può certo considerare il primo tentativo di riscatto da parte di Petrunya che, in quel contesto, sembra non avere pari opportunità rispetto agli uomini. Anche in famiglia la donna non trova sostegno e comprensione da parte dei genitori che la considerano un peso inutile e che difficilmente troverà marito non essendo più giovanissima.
Tra il serio ed il faceto il film ci manda un preciso messaggio di emancipazione femminile che fa fatica a decollare. Il ruolo della protagonista è assegnato a Zorica Nusheva nei panni di una donna che oramai non crede più nelle leggi, civili o religiose che siano, né si aspetta alcun riconoscimento per quello che è e per quello che rappresenta. Una lode particolare però va alla regista per aver usato con ironia un linguaggio diretto che, senza tanti preamboli ,ridicolizza l’atteggiamento della chiesa ortodossa e delle pubbliche istituzioni che sembrerebbero quasi indurre alla misoginia.
Di fronte al caso divenuto di dominio pubblico, dove Petrunya rischia addirittura il linciaggio, interviene pure la giornalista Slavica (Labina Mitevska) che cerca in tutti i modi di far carriera sfruttando l’occasione con uno scoop sensazionale per la televisione; sagace l’osservazione di uno dei tanti intervistati: e se Dio fosse in realtà donna?
data di pubblicazione:14/02/2019
da Antonio Iraci | Feb 13, 2019
(69 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 7/17 Febbraio 2019)
Zum Goldenen Handschuh, che in italiano sarebbe ”al guanto d’oro”, era un localaccio malfamato molto frequentato negli anni settanta che si trovava nel famoso quartiere a luci rosse St. Pauli di Amburgo. In questo bar, luogo di ritrovo di ubriachi e di vecchie prostitute, Fritz Honka andava a reclutare le sue donne per portarsele a casa nel vano tentativo di possederle sessualmente. Al suo ennesimo fallimento scaricava la sua rabbia uccidendole per poi smembrare i loro corpi e nasconderli in un ripostiglio. Una misera storia con un misero epilogo.
Fatih Akin, nato ad Amburgo da genitori turchi emigrati in Germania negli anni sessanta, è un regista e sceneggiatore oramai noto in campo internazionale dopo i successi ottenuti con La sposa turca che vinse nel 2004 l’Orso d’Oro qui a Berlino e l’European Film Award; successivamente con Ai confini del Paradiso fu premiato al 60esimo Festival di Cannes per la migliore sceneggiatura mentre nel 2009 con Soul Kitchen ebbe a Venezia il Leone d’Argento, Gran premio della Giuria. Il film presentato in concorso in questa edizione della Berlinale è tratto da un fatto di cronaca vera che riguarda Fritz Honka, un serial killer la cui storia aveva ispirato nel 2016 Heinz Strunk a scrivere un romanzo subito considerato un interessante caso letterario. Colpito dalla vicenda criminale, che aveva scosso in quegli anni l’opinione pubblica tedesca, Fatih Akin porta ora sul grande schermo gli omicidi di Honka, facendo una minuziosa rappresentazione dei fatti, o meglio misfatti, dell’assassino. Lo spettatore viene quasi costretto a subire la scena in uno spazio claustrofobico dove oltre al feroce delitto dovrà pure assistere alla mutilazione del cadavere. Non certo di conforto è lo spettacolo dell’umanità che si incontra nel famoso locale di Amburgo: ubriachi senza fissa dimora e prostitute dai corpi informi avvolti in panni sudici e maleodoranti e la cui esistenza non interessa a nessuno. Nonostante la perfetta ricostruzione del singolare appartamento del serial killer e di ogni singolo dettaglio estetico, ci si chiede il perché di tutta questa messa in scena. Non sembra ravvisarsi una minima indagine psicologica della figura del protagonista e del suo background che possa in qualche modo dare una spiegazione circa gli efferati omicidi. Si nota però una certa rara convergenza tra ciò che Honka pensava delle donne e come in effetti vengono rappresentate nel film: solo carne da macello. Si tratta quindi di vedere l’umanità attraverso gli occhi di un individuo il quale patologicamente non ha più nulla di umano così come le vittime, private della vita prima ancora di essere uccise.
Ottima l’interpretazione dell’attore tedesco Jonas Dassler, che ricopre il ruolo del protagonista, veramente irriconoscibile per assomigliare il più possibile all’omicida. Ci si chiede se vale la pena di sottoporsi a questo film, a tratti decisamente disgustoso e con delle scene macabre che il regista avrebbe fatto bene ad evitarci. Pubblico in sala molto perplesso…
data di pubblicazione:13/02/2019
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