da Antonio Iraci | Lug 15, 2019
La mattina del 16 giugno 1961 Rudolf Nureyev era in procinto di lasciare Parigi dopo che si era esibito con successo all’Opéra insieme alla Compagnia di Balletto del Teatro Kirov di Leningrado; la destinazione successiva della tournèe sarebbe stata Londra, prolungando così lo strepitoso trionfo soprattutto personale al di fuori dell’Unione Sovietica. Già in aeroporto, oramai pronto insieme agli altri ballerini per prendere il volo, alcuni funzionari del KGB, che non lo avevano mai perso di vista durante la permanenza parigina, gli comunicano che per un improvviso cambio di programma dovrà rientrare subito a Mosca per una esibizione straordinaria al Cremlino. Nureyev intuisce subito che tornato in patria non sarebbe più stato autorizzato a lavorare all’estero e decide di consegnarsi alla polizia di frontiera richiedendo formalmente asilo politico alla Francia.
Oramai archiviate le celebrazioni per i venticinque anni dalla scomparsa di Rudolf Nureyev, avvenuta proprio a Parigi nel gennaio del 1993, viene presentato nelle sale italiane il film che Ralph Fiennes ha diretto, e in parte interpretato, sulla figura straordinaria del ballerino più acclamato di tutti i tempi. Non tutti sanno che il suo lavoro come coreografo influenzò in maniera decisiva il concetto di danza in quanto riuscì a fondere insieme il balletto classico con quello moderno e diventando altresì il precursore di uno stile ancora oggi preso a modello dai ballerini di tutto il mondo. Nureyev, notoriamente molto impulsivo e poco incline al rispetto dell’ordine gerarchico, riuscì infatti a sovvertire le rigide regole impostegli nel balletto e ad accentuare l’importanza del ruolo maschile che sino a quel momento era stato mantenuto sotto tono rispetto a quello femminile. Proprio sulla lettura del suo singolare carattere si base il film di Fiennes senza soffermarsi troppo nel voler raccontare tout court gli esordi professionali dell’artista, quanto piuttosto il suo carattere e quanto questo influenzò la sua carriera e la sua vita. Nureyev sin da bambino aveva percepito la vocazione verso la danza nonostante le difficoltà ambientali e familiari in cui era inserito, prima a ridosso del secondo conflitto mondiale, e successivamente in piena guerra fredda quando l’Unione Sovietica soffriva di un totale isolamento politico.
Partendo da questi fatti il regista, che nel film si ritaglia per sé il ruolo del famoso coreografo del Teatro Kirov Alexander Pushkin, maestro oltre che di Nureyev anche di Baryshnikov, affida coraggiosamente il ruolo di protagonista a Oleg Ivenko, ucraino di 22 anni, famoso come ballerino della Tatar State Oper, ma alla sua prima volta davanti alla macchina da presa come attore. Dai ripetuti primi piani di Oleg si scorge una forte somiglianza con il grande Rudolf e, nonostante l’assoluta mancanza di esperienza cinematografica, il neo attore riesce ad esprimere il carattere deciso, spigoloso ed a tratti arrogante del grande ballerino; ma è con il suo talento professionale che Oleg riesce a sintetizzare la fisicità di Nureyev, la cui tecnica lo rendeva talmente leggero da rimanere sospeso e fuori da ogni reale dimensione.
Girato tra Parigi e San Pietroburgo, Nureyev-The white crow è un prodotto autoriale di tutto rispetto che riesce a mettere a nudo l’anima del grande ballerino-coreografo, ribelle e dissidente, capace di determinare il suo percorso personale e professionale contro ogni schema precostituito. Ralph Fiennes focalizza l’attenzione sul personaggio nella sua intimità più che realizzare un semplice biopic, confezionando così un sentito omaggio verso un ballerino che ha lasciato il suo segno indelebile nel mondo della danza e non solo.
data di pubblicazione:15/07/2019
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da Antonio Iraci | Lug 2, 2019
Il giovanissimo ma già affermato attore Rupert Turner, durante un’intervista per una importante testata rivela i retroscena della vita di John F. Donovan, anche lui giovane attore e famosa star della televisione, morto dieci anni prima in circostanze poco chiare. Rupert, ancora bambino, aveva iniziato una fitta corrispondenza epistolare con John che considerava un mito, un super eroe, un esempio da seguire e che ancora oggi, dopo tanto tempo, continua ad avere un ruolo determinante nelle sue scelte individuali e professionali.
Xavier Dolan, l’enfant prodige canadese oramai considerato tra i grandi registi della cinematografia internazionale, ne La mia vita con John F. Donovan ci racconta in parte la sua storia vissuta perché sin da bambino nutriva il forte desiderio di dedicare al cinema tutto se stesso. Basti ricordare che appena diciannovenne esordì come regista a Cannes con il suo primo lungometraggio J’ai tué ma mère, più volte premiato, mentre qualche anno dopo, sempre a Cannes, vinse il Premio della Giuria con il film Mommy, da molti considerato il suo capolavoro. Penultimo lavoro di Dolan (seguito da Matthias & Maxime in competizione quest’anno per la Palma d’oro) La mia vita con John F. Donovan fu presentato nel 2018 in anteprima mondiale al Toronto International Film Festival dove fu completamente annientato dalla critica internazionale che lo ritenne il suo peggior film, con un plot troppo articolato e confuso, oltre ad una serie di flashback che, nonostante l’eccellenza del cast, avevano reso il film lungo e noioso. Nonostante l’insuccesso, probabilmente a causa di una scarsa originalità narrativa, si lascia comunque seguire grazie alla descrizione di personaggi che non riescono ad essere se stessi e a relazionarsi con la società che li circonda, perché imbrigliati in schemi che impediscono loro di esprimere i propri sentimenti fuori da ogni reticenza. Ritroviamo, come in ogni sua pellicola, il tema ricorrente del rapporto con la madre, che in questo caso sembra invadere prepotentemente la scena: una madre a suo modo protettiva ma che sa anche essere spietata e che si pone quasi in competizione con il figlio che, seppur ancora bambino, sa già ciò che vuole e soprattutto dove vuole arrivare. Quanto a Kit Harington, Natalie Portman, Jacob Tremblay, Susan Sarandon, Kathy Bates, Ben Schnetzer, Thandie Newton, Amara Karan, che compongono il cast del film, ognuno di loro è perfettamente calato nel suo ruolo, anche se non sembra essere sufficiente a riscattare un montaggio che inficia in maniera determinante il risultato finale.
Un’operazione dunque non perfettamente riuscita ma che comunque merita la dovuta attenzione perché evidenzia il tocco di un grande regista che sa sempre portare sul grande schermo sé stesso, mettendosi in discussione in ogni suo lavoro. Un film che pur raggiungendo appena la sufficienza, riesce a farci pensare come mondi diversi possano coesistere sottolineando l’importanza di essere sempre liberi dai condizionamenti e da false ipocrisie.
data di pubblicazione:02/07/2019
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da Antonio Iraci | Giu 3, 2019
Gli anni della militanza di Tommaso Buscetta all’interno di Cosa Nostra, la sua cattura in Brasile, l’estradizione in Italia, l’incontro con il giudice Falcone: tappe di un percorso di vita di colui che non si definì mai un pentito ma solo un collaboratore di giustizia. Un vero uomo d’onore che, sentendosi tradito negli ideali in cui aveva sempre creduto e per i quali aveva lottato sin dall’età adolescenziale, decide di rivelare i segreti di mafia che portarono negli anni ottanta a destabilizzare la cupola dei Corleonesi, con a capo Totò Riina, che in pochi anni era riuscita a far diventare Palermo capitale mondiale del traffico di eroina.
Dopo Buongiorno, notte del 2003, in cui si narrava del rapimento, della detenzione e dell’omicidio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, Marco Bellocchio torna a parlarci con questo nuovo lavoro di fatti di cronaca senza però farne un mero resoconto. Il regista, sempre ben calato nel suo stile visionario e a volte surreale di raccontare una storia, ne Il Traditore va oltre i fatti per entrare nell’intimo dei personaggi e mostrarne il lato più umano, con le sue contraddizioni e depravazioni. L’immagine che ne viene fuori di Tommaso Buscetta, alias don Masino, è quella di “un uomo d’onore” come usava definirsi il mafioso di una volta che, anche nelle azioni più efferate, onorava sempre quei codici autentici di rispetto dei valori umani secondo gli aberranti codici di Cosa Nostra. Bellocchio spiega bene, con le stesse parole del protagonista superbamente interpretato da Pierfrancesco Favino, come Buscetta non si possa mai definire un traditore per aver rinnegato e accusato i suoi boss, semmai al contrario proprio loro, assetati di potere e di soldi, avevano tradito quei principi cosiddetti morali sui quali da sempre si era basata la logica di mafia.
Il film riesce molto bene a raccontare quel tragico periodo degli anni ottanta, anche ricorrendo a devastanti immagini di repertorio, e fa ben intendere quei meccanismi sofisticati che reggevano il sistema di Cosa Nostra, una struttura che si apprestava a lasciare fuori ogni sentimentalismo a sacrificio di qualsiasi ideale degno di essere rispettato.
Una regia perfetta che riesce bene ad equilibrare momenti di spietata ferocia con altri più intimi e personali del protagonista, rimasto solo nell’affrontare il nemico, quei propri “familiari” che lo vogliono morto dopo avergli ferocemente ucciso i suoi due figli maggiori e tanti altri membri della sua famiglia. Nel film di Bellocchio non c’è spazio per la retorica fine a sé stessa, ma solo per i fatti: l’uomo viene descritto nella sua essenza pura, nobile o perversa che sia, messo a nudo di fronte alla realtà che si è costruito attorno e verso la quale è costretto a scontrarsi per sopravvivere.
Presentato in concorso nell’ultima edizione del Festival di Cannes, il film ha subito ottenuto grande consenso da parte della critica nazionale e internazionale e, pur non avendo ottenuto il Palmares, Il Traditore è sicuramente destinato ad altri importanti riconoscimenti ben meritati, sia per l’ottima regia che per l’interpretazione dell’intero cast formato da attori italiani di eccezionale bravura.
data di pubblicazione:03/06/2019
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da Antonio Iraci | Giu 1, 2019
(Palazzo delle Esposizioni – Roma, 30 maggio/28 luglio 2019)
Al Palazzo delle Esposizioni è stato appena inaugurato un itinerario espositivo composto da sei distinte mostre, che si sono tenute a Roma a partire dagli anni Cinquanta, scelte una per ogni decennio sino ai giorni nostri. Lo scopo è quello di raccontare come Roma, dagli anni immediatamente successivi alla fine della guerra, iniziava a diventare un polo culturale di rilievo per i pittori delle correnti avanguardiste di quel periodo. A questa prima edizione ne faranno seguito altre, ogni volta con protagonisti diversi, sempre con il precipuo intento di presentare ai visitatori spazi espositivi romani che fecero storia perché presentarono artisti già di un certo rilievo nell’arte propria del Novecento, contribuendo nello stesso tempo a definire l’identità culturale della capitale. L’allestimento delle sei diverse mostre è stato condotto in maniera scrupolosa, anche se non sempre è stato possibile, per ovvi motivi, ricreare fedelmente il contesto in cui l’opera venne resa fruibile al pubblico alla presenza degli stessi artisti. Il progetto Mostre in mostra si propone pertanto di attualizzare questo periodo dell’arte italiana contemporanea partendo proprio dal momento storico e sociale in cui si inserisce, per divenire poi patrimonio della collettività. La passeggiata ha inizio nella prima sala del Palazzo delle Esposizioni con dipinti di Titina Maselli, esposti nel 1955 alla galleria La Tartaruga; a seguire la prima mostra personale di Giulio Paolini del 1964 presso il celebre spazio La Salita e una raccolta di opere di Luciano Fabro già esposte nel 1971 in occasione degli Incontri Internazionali d’Arte a Palazzo Taverna. Nell’altra ala del Palazzo troviamo il dipinto La costellazione del Leone di Carlo Maria Mariani esposto nel 1981 da Gian Enzo Sperone e oggi alla Galleria Nazionale di Roma; a seguire lo spazio dedicato a Jan Vercruysse con i suoi Tombeaux che furono presentati nel 1990 presso la galleria Pieroni; a chiusura la raccolta Elisir del 2004 di Myriam Laplante promossa da The Gallery Apart e ospitata dalla Fondazione Volume! sempre a Roma.
A fare da trait d’union troviamo le foto di Sergio Pucci che dagli anni Cinquanta in poi ha fotografato moltissime opere d’arte presso gli studi degli artisti o presso le sale di esposizione.
Mostra a cura di Daniela Lancioni, promossa da Roma Capitale – Assessorato alla Crescita culturale, ideata, prodotta e organizzata da Azienda Speciale Palaexpo.
data di pubblicazione:01/06/2019
da Antonio Iraci | Mag 24, 2019
(Teatro India – Roma, 20/30 maggio 2019)
Trovato per strada in pigiama, un uomo viene portato in un luogo imprecisato e sottoposto a domande per scavare nel suo vissuto e venire così a scoprire la sua vera identità. Il soggetto in esame, che ha ricordi molto confusi, dice di chiamarsi Antoine D, 96 anni, di avere due figli ancora adolescenti, una moglie e di essere uno storico. In effetti risponde con esattezza solo su eventi della storia universale mentre non riesce a ricostruire i fatti di un passato prossimo che riguardano la propria sfera personale ed il suo posto in società.
Gérard Watkins nasce a Londra e dopo esperienze varie all’estero si stabilisce dal 1974 in Francia dove inizia la sua formazione teatrale sia come attore sia come regista drammaturgo. Il suo è decisamente un teatro sperimentale che cerca la vera essenza dell’uomo nell’attore che porta in scena. In effetti è la sua esperienza personale che viene rappresentata e la storia narrata diventa così un puro pretesto per raccontare al pubblico di questioni che riguardano il quotidiano in tutte le sue forme fisiche e metafisiche. In questo lavoro, presentato al Teatro India, si parla di memoria che oramai non c’è più e senza memoria non si può risalire ai ricordi del passato, almeno di quello reale. Il protagonista, recluso da qualche parte, viene sollecitato energicamente a ricostruire la propria identità in un gioco di scambio di ruolo con gli altri due protagonisti che alla fine paradossalmente perderanno anch’essi la loro individualità per entrare in un anonimato fatto di semplici lettere al posto dei loro nomi. Antoine D, oggetto di studio, viene invitato a confidarsi davanti ad un muro immaginario che possa ascoltare le sue parole e non solo limitarsi a sentirle. Al di là di questa quarta parete vengono raccolte confidenze che diventano pertanto eventi reali e non solo il frutto della finzione, in un coinvolgimento emotivo in cui vengono abbattute le barriere tra attore e spettatore.
Un lavoro certo di non facile fruizione, impegnativo per il pubblico in sala travolto da un turbinio di parole e di riflessioni sulla necessità o meno di riscoprire la propria identità all’interno della storia, perché gli uomini sanno recitare tanto bene nel quotidiano da arrivare a perdere l’essenza di ciò che realmente li riguarda. Molto coinvolgente la performance dei tre attori sulla scena (Carlo Valli, Gianluigi Fogacci, Federica Rosellini) anche se a volte volutamente stridente e provocante in 90 minuti di spettacolo da seguire con la dovuta attenzione.
Ideato da Gérard Watkins il progetto è stato prodotto da Teatro di Roma – Teatro Nazionale, PAV in collaborazione con Le Perdita Ensemble e lacasadargilla con il supporto della Fondazione Nuovi Mecenati – Fondazione franco-italiana nell’ambito di Fabulamundi Playwriting Europe – Beyond Borders?
data di pubblicazione:24/05/2019
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