LE SEL DES LARMES di Philippe Garrel – BERLINALE 2020

LE SEL DES LARMES di Philippe Garrel – BERLINALE 2020

logo(70 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 20 Febbraio/1 Marzo 2020)

Luc, già avviato nella falegnameria del padre in un piccolo paese della provincia francese, arriva a Parigi con l’intento di specializzarsi nella famosa scuola per ebanisti Boulle. Subito incontra Djémila di cui si innamora ma, dopo pochi giorni, deve ritornare a casa dove riprende una relazione intima con Genevieve, una sua vecchia fiamma. Passati due mesi, il ragazzo riceve la conferma di essere stato ammesso a frequentare il corso per cui torna a Parigi dove incontra Betsy, con la quale inizia una nuova storia…

 

 

Il fatto che il regista e attore francese Philippe Garrel, con questo sul ultimo film Le Sel des Larmes, vada a infrangere le tradizionali regole narrative non vuol dire che il film non sia da considerarsi di impronta decisamente classica. La storia raccontata ripercorre infatti i soliti cliché di amori facili, iniziati e subito dopo interrotti, da parte del bel protagonista Luc (Logann Antuofermo) con ragazze abilmente sedotte e poi cinicamente abbandonate. Luc non sa ancora distinguere cosa sia il vero amore e il solo affetto che riesce a esprimere, in maniera del tutto sincera, è nei confronti del vecchio padre che lo ha cresciuto con i sani principi educativi di un tempo. Il film porta l’impronta riconoscibile del regista che ama entrare nei personaggi per studiarne le azioni e le reazioni ponendo le loro facce in primo piano in un gioco di luci ed ombre, un chiaroscuro messo in evidenza dalla scelta operata di servirsi del bianco e nero sottraendo alla vista qualsiasi accenno di colore. Al di là della notevole presenza scenica di Logann, qui al suo esordio come attore, colpisce la recitazione di Oulaya Amamra, nella parte di Djémila, rivelazione assoluta anche se è stata già premiata come miglior attrice per alcuni film in cui ha partecipato. Interessante inoltre come la narrazione si sviluppi anche con l’intervento di una voce fuori campo, quasi a voler sottolineare l’importanza di alcuni passaggi, senza ricorso all’immagine, che sarebbero risultati forse troppo ridondanti. Luc racchiude in sé la figura del ragazzo apparentemente sicuro, ma che in realtà nasconde la sua intima fragilità: ad ogni sua conquista sembra perdere parte di sé riuscendo a comprendere il valore degli affetti solo dopo che li ha lasciati andare. Buona la reazione del pubblico in sala per niente disturbato da una pellicola che utilizza un linguaggio cinematografico forse da alcuni considerato démodé.

data di pubblicazione:24/02/2020








EL PROFUGO di Natalia Meta – BERLINALE 2020

EL PROFUGO di Natalia Meta – BERLINALE 2020

logo(70 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 20 Febbraio/1 Marzo 2020)

Inés lavora come doppiatrice per il cinema e nello stesso tempo fa parte di un coro a Buenos Aires come soprano. Dopo la misteriosa morte di Leopoldo, con il quale stava provando ad avere una relazione, la donna rimane sotto shock e a nulla vale il cocktail di pillole che inizia a prendere ogni giorno per recuperare un poco di pace interiore. Improvvisamente qualcosa cambia nella sua voce e strani suoni vengono percepiti senza sapere esattamente da dove originano.

 

 

Ispirandosi al romanzo El mal menor dello scrittore argentino C.E. Feiling, Natalia Meta, regista di Buenos Aires, presenta in concorso alla Berlinale il suo secondo lungometraggio. El Pròfugo in effetti non è classificabile come genere perché, nel voler creare un’atmosfera claustrofobica intorno al personaggio principale, ottiene un risultato ibrido dal momento che il film non è uno psico-thriller né tantomeno un horror in senso stretto. La storia ruota intorno al personaggio di Inés (Erica Rivas) che stressata dal lavoro e ancora scioccata dalla morte del suo uomo, inizia a percepire dei suoni in parte dall’esterno, in parte prodotti involontariamente dal suo corpo. Vittima di frequenti incubi, sembrerebbe che delle entità soprannaturali stiano invadendo i suoi sogni passando poi alla sua vita reale per turbare, se non addirittura distruggere, la sua persona. I suoni incalzano, alcuni impercettibili altri percettibili, e sono proprio loro i veri protagonisti: Inés diventa così uno strumento in balìa di forze occulte che difficilmente riesce a dominare, rimanendone invischiata sino a rasentare la follia. Nonostante gli sforzi recitativi della protagonista, il film non riesce a decollare rimanendo imbrigliato in situazioni poco convincenti sia dal punto di vista narrativo che comunicativo. Una sceneggiatura con un plot del tutto scontato che non cattura l’interesse perché perso in un labirinto di situazioni poco risolte e psicologicamente poco rilevanti. Probabilmente manca qualcosa che possa rendere convincente l’identità stessa di Inés perché lo spettatore non riesce a provare per lei alcun sentimento né di simpatia né di compassione, forse solo fastidio. Un happy end liberatorio che arriva dopo appena 90 minuti di proiezione, ma che sono sembrati un’eternità.

data di pubblicazione:23/02/2020







FIRST COW di Kelly Reichardt – BERLINALE  2020

FIRST COW di Kelly Reichardt – BERLINALE 2020

logo(70 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 20 Febbraio/1 Marzo 2020)

Ai margini di un placido fiume, un ragazza dei giorni nostri passeggia con il suo cane quando fa una macabra scoperta che si riferisce a qualcosa avvenuta tanti anni prima. La storia infatti inizia nel 1820 in Oregon, allora terra selvaggia lontana da qualsiasi forma di civiltà: un luogo dove convivono bianchi e indiani per cacciare e commerciare pelli. Un povero cuoco, chiamato appunto Cookie, e un immigrato cinese, King Lu, si incontrano per iniziare un sodalizio commerciale, ma il punto di partenza sarà una vacca, la prima ad apparire in questo inospitale Far West…

Del tutto inusuale che una donna si imbarchi nell’impresa di dirigere un Western, genere cinematografico normalmente “maschio”, anche se lo fa alla maniera soft di Wim Wenders, ma senza di stazioni e jukebox. Kelly Reichardt, americana di nascita, ci prova dando un suo punto di vista particolare che vuole sfidare il mito romantico del West, dal momento che nel suo film è tutto decisamente fuori da ogni canone, almeno da quello che sinora siamo stati abituati a vedere. Basato sull’omonimo romanzo di Jonathan Raymond, che ne ha curato anche la sceneggiatura, la storia tratta della singolare amicizia tra un cuoco (John Magaro) e un cinese (Orion Lee), entrambi outsiders per definizione, che decidono di avviare un’attività dolciaria utilizzando il latte che di notte vanno a rubare mungendo l’unica vacca esistente nel territorio. Non ci è dato di sapere molto del prima e del dopo che riguarda i due eccentrici protagonisti, intuiamo solo che Cookie è colui che lavora, operativo in tutto sia nel rubare il latte che nel preparare i dolci, mentre King Lu è la mente organizzatrice e che non nasconde le proprie ambizioni di diventare ricco e di aprire una redditizia attività in un luogo più civilizzato. La regista ci tiene ad informare: “in un periodo di grandi tensioni economiche e sociali mi sento fortunata di lavorare al Bard College di New York, dove insegno per un semestre e mi sento poi libera di dedicarmi al cinema che non mi ha mai portato un dollaro di guadagno. Non è da folli girare un film su una vacca e con due attori che nessuno mai riconoscerà?” La Reichardt mostra tutto il suo talento nel riuscire a raccontare di persone ai margini della società, lontano dal trambusto delle grandi città, e lo fa con grande professionale sensibilità con un Western senza sparatorie, dove si parla di miele e dolci, rimandando comunque a quel sogno americano del farsi da sé per raggiungere l’agognato benessere sociale ed economico.

data di pubblicazione:22/02/2020








VOLEVO NASCONDERMI di Giorgio Diritti – BERLINALE 2020

VOLEVO NASCONDERMI di Giorgio Diritti – BERLINALE 2020

logo(70 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 20 Febbraio/1 Marzo 2020)

La storia di Antonio Ligabue sin dai tempi dell’infanzia in Svizzera dove, figlio di un’emigrante italiana, era stato adottato, sino all’espulsione che lo porta in Emilia dove inizia a vivere come un vagabondo in una capanna sul fiume Po, maltrattato e deriso da tutti per la sua disabilità fisica e psichica. Un emarginato che ha fatto della propria arte un motivo di vanto personale e di riscatto sociale per arrivare ad essere quello che desiderava profondamente e che sentiva di essere: un artista.

 

 

Giorgio Diritti, bolognese doc, è un regista che produce poco ma quello che fa è sempre di grande livello come è dimostrato dai suoi precedenti film e documentari, tutti super premiati in vari festival internazionali. Volevo nascondermi, presentato alla Berlinale in anteprima mondiale ed in concorso, non è un lavoro comune ma rientra nella categoria di quei film che lasciano sicuramente un’impronta nella storia della cinematografia internazionale. Il merito del regista è sicuramente quello di presentarci un artista nella sua dimensione più arcaica, quasi primordiale, inquadrandolo in quella parte d’Italia della Bassa Padana, al sud del fiume Po, in un contesto geografico e storico particolare (siamo in pieno periodo fascista) che rimanda a Novecento di Bernardo Bertolucci. Ligabue vive emarginato in una capanna lungo il fiume nutrendosi di ciò che trova, ma proprio lì inizierà anche la sua formazione artistica, dal contatto con la natura e dall’osservazione degli animali, e non certamente dalla storia più nobile ed alta delle Accademie. Dopo essere stato espulso dalla Svizzera, questo uomo si trova in un posto dove non viene capito né inizialmente accolto, e dove ha persino difficoltà ad inserirsi in un ambiente sia pur contadino e pressoché analfabeta come era quello emiliano di quegli anni. Per Ligabue l’unica possibilità di espressione è rappresentata dai sui quadri, dai colori forti ed aggressivi, una forma di pittura che rappresenta forse l’unico modo per tirarsi fuori dal buio in cui è sempre vissuto e dove non c’è stato mai spazio per un gesto di affetto né per una semplice carezza: “volevo nascondermi…ero un uomo emarginato, un bambino solo, un matto da manicomio, ma volevo essere amato”.

Elio Germano è Ligabue, e lo è non solo nella somiglianza fisica ma soprattutto nell’animo che l’attore riesce ad esprimere sin dalla prima scena, con un bagaglio di sofferenza mista ad una struggente tenerezza, innata ma mai nutrita dall’amore di nessuno. All’attore va il merito indiscusso di essere riuscito ad entrare nel personaggio in un modo talmente stupefacente da trasmettercene l’autenticità, senza costruzioni né forzature, ma con una naturalezza da grande interprete riuscendo nell’ardua impresa di farci cogliere la personalità ed il carattere decisamente complessi di questo grande pittore. Volevo nascondermi è un film che coinvolge sin dal primo momento, sino a portare lo spettatore ad una commozione profonda.

Ci auguriamo che proprio a partire da questa Berlinale questo splendido lungometraggio di Giorgio Diritti faccia molto parlare di sé.

data di pubblicazione:22/02/2020








MY SALINGER YEAR di Philippe Falardeau – BERLINALE 2020

MY SALINGER YEAR di Philippe Falardeau – BERLINALE 2020

logo(70 INTERNATIONALE FILMFESTSPIELE – Berlino, 20 Febbraio/1 Marzo 2020)

Joanna sbarca a New York con la grande aspirazione di diventare un giorno una scrittrice. Siamo a metà degli anni novanta e non è certamente facile per una giovane donna trovarsi da sola ad affrontare tutta una serie di difficoltà pur di realizzare il proprio sogno. Il lavoro come assistente di Margaret, a capo di un’importante agenzia letteraria, sarà per Joanna una buona opportunità per entrare in un mondo a lei sino ad allora sconosciuto…

 

My Salinger Year, del regista e sceneggiatore canadese Philippe Falardeau, apre questa settantesima edizione della Berlinale. Un film leggero, una tipica commedia american style divertente, niente affatto superficiale, che ci porta in una New York degli anni novanta ancora tradizionalmente legata ai propri principi sociali, ma già pronta per accogliere quella rivoluzione socio-culturale che sarebbe presto scaturita con l’avvento e la diffusione di Internet. Joanna lavora in una prestigiosa agenzia che cura gli interessi di scrittori di grosso calibro quali F. Scott Fitzgerald, Agatha Christie e Dylan Thomas, ma il suo compito è quello di raccogliere accuratamente le decine di lettere che ogni giorno arrivano per J. D. Salinger da parte dei suoi numerosi fan, leggerle per poi cestinarle, con il divieto categorico di rispondere. La ragazza trova una realtà dove non tutto procede con regolare razionalità e senza volerlo entrerà nel mondo del giovane Holden, protagonista appunto del romanzo di Salinger che agli inizi degli anni cinquanta, appena pubblicato, diventò un best seller in tutto il mondo. Il film ci vuole ricordare come i giovani di quella generazione non si sottrassero al fascino di un giovane, appena sedicenne, che con il suo spiccato senso critico, ma psicologicamente emotivo e fragile, si sarebbe comunque ribellato a un establishment deviato, tipico della società americana di quel tempo. Margaret Qualley, appena reduce dal successo per la sua partecipazione nel film C’era una volta a…Hollywood di Quentin Tarantino, nel film interpreta una intensa e spontanea Joanna, riuscendo ad esprimere al meglio le emozioni di questa giovane ambiziosa e sognatrice, che si trova catapultata in un mondo nuovo ma ancora decisamente condizionato dal passato. Sigourney Weaver interpreta invece Margaret, capo dell’agenzia, ed è perfetta nel ruolo della donna in carriera, rigida verso qualsiasi iniziativa che non nasca direttamente da se stessa. My Salinger Year ha tempi e ritmi giusti, senza lungaggini e inutili divagazioni, mirando alla vera essenza delle cose e dei sentimenti.

Un buon inizio per questa attesa edizione della Berlinale che, come già annunciato nel nostro articolo di apertura, sarà piena di interessanti novità per la presenza del nuovo direttore artistico Carlo Chatrian.

data di pubblicazione:20/02/2020