da Antonio Iraci | Set 20, 2020
Arthur e César sono amici sin dai temi dell’infanzia quando frequentavano lo stesso rigidissimo collegio lontano da Parigi. Diversi caratterialmente e con un vissuto oramai alle spalle, i due si rincontrano dopo anni ed iniziano a rifrequentarsi assiduamente dividendo persino la casa. Motivo di questo inatteso avvicinamento: un malinteso per cui ognuno dei due è convinto che l’altro abbia un cancro incurabile e con pochi mesi ancora da vivere…
De La Patellière e Delaporte, coppia di registi ben affermata, da vent’anni firmano insieme commedie di grande successo, basti pensare a Cena tra amici del 2012 basata su una famosa pièce teatrale ripresa nel 2015 dalla nostra Francesca Archibugi che ne ha curato un adattamento ne Il nome del figlio. Presentato nel 2019 alla Festa del Cinema, Le meilleur reste à venir ben si inserisce in un filone di film francesi che caratterizzò la passata edizione della kermesse romana. Il film ha come ingrediente principale la leggerezza, un vero e proprio inno all’amicizia e a quanto la diversità ne sia un elemento indispensabile perché essa possa radicarsi. I due protagonisti Arthur e César (interpretati rispettivamente da Fabrice Luchini e Patrick Bruel) pur completamente opposti nella vita, rappresentano il classico esempio di una collaudata coppia di amici disposti a tutto pur di non mettere in discussione il sentimento che li unisce.
Nel film troviamo una serie di equivoci, a volte persino banali se non addirittura farseschi, trattati in maniera geniale e frutto di una sceneggiatura ben curata in ogni minimo dialogo/dettaglio. Il risultato ottenuto è stato quello di aver creato, da una storia scontata, una commedia brillante e divertente sia pur con una punta di amaro dovuta alla tematica di come affrontare una morte imminente, una sorta di prova generale su come ognuno dovrebbe vivere la propria vita considerando la morte come elemento che ne fa inevitabilmente parte. Un film dunque basato su una sequenza continua di situazioni tragicomiche, rese particolarmente divertenti grazie alla bravura indiscussa di Fabrice Luchini alla quale si aggiunge quella altrettanto valida di Patrick Bruel, attori oramai ben collaudati soprattutto nel genere della cosiddetta “commedia alla francese”. Una regia molto attenta, che riesce a raccontare la storia di un’amicizia vera, sincera, tra due persone caratterialmente opposte ma così indissolubilmente unite: due mondi eterogenei ma proprio per questo complementari, che riescono a dialogare seppur in situazioni drammatiche, in cui ognuno pensa alla morte dell’altro per rendere quei giorni passati insieme indimenticabili.
Inutile sottolineare come il cinema francese riesca oggi a confezionare dei piccoli gioielli cinematografici partendo da plot a volte quasi inconsistenti o, come in questo caso, non del tutto originali.
Se ne consiglia la visione.
data di pubblicazione:20/09/2020
Scopri con un click il nostro voto:
da Antonio Iraci | Lug 17, 2020
In un agglomerato residenziale alla periferia di Roma, diverse famiglie interagiscono di comune accordo mentre i loro figli giocano a fare i grandi. Una voce fuori campo legge, dal diario di una bambina trovato casualmente, ciò che accadde in una certa estate quando, davanti alle palpabili frustrazioni di uno sparuto gruppo di genitori poco più che trentenni, i loro figli metteranno in scena una drastica protesta. Non è un atto di ribellione in sé, ma il loro netto rifiuto di entrare a far parte di una società che i loro stessi padri hanno reso così vuota e sterile.
I fratelli-gemelli D’Innocenzo, ancora reduci dal successo ottenuto nel 2018 a Berlino con il loro primo film La terra dell’abbastanza, realizzano un loro vecchio sogno tornando alla Berlinale nel 2020 con il lungometraggio Favolacce, vincendo l’orso d’argento per la migliore sceneggiatura e tanto altro ancora, in cui raccontano le proprie esperienze vissute nella periferia romana attraverso le vite e lo sguardo di alcuni bambini: “oramai ci troviamo in un’età intermedia dove non siamo più troppi giovani ma neanche troppo grandi e quindi non potevamo più aspettare a raccontare di quelle sensazioni che noi stessi abbiamo percepito da piccoli”.
Il film è uno spaccato sulla nevrosi tipica delle attuali piccole classi borghesi italiane, in un susseguirsi di insuccessi per la mancata realizzazione di sogni e stupide ambizioni che, inevitabilmente, vanno a riversarsi sui figli, vittime innocenti di questi abusi mentali. Sono loro che, proprio perché ancora lontani dai condizionamenti di un ambiente palesemente indecoroso, riescono a percepire istintivamente il malessere della società così come ci appare, attraverso i loro sguardi severi ed intelligenti, in tutto il suo squallore. Bisogna dare atto ai due giovani registi, appena trentenni, di aver saputo ben inquadrare l’intimo di ogni singolo piccolo protagonista, lasciando ad ognuno libertà di espressione, lontano da qualsiasi forzatura da copione. Ancora una volta il bravo Elio Germano, giusto in tempo per togliersi i panni di Antonio Ligabue nel film di Diritti Volevo nascondermi presentato anch’esso alla Berlinale e vincitore di una serie infinita di premi, in Favolacce è Bruno Placido che, insieme alla moglie Dalila (Barbara Chichiarelli), rappresentano un classico esempio di genitori contemporanei molto concentrati su loro stessi e poco attenti alla sensibilità dei figli, per mancanza di cultura oltre e di quella necessaria propensione verso chi sta sbocciando alla vita.
I registi rivelano ancora una volta un loro lato squisitamente umano tipico di un certo “popolino romano”, di cui non sappiamo se realmente ne facciano parte, ma che in questo film viene descritto in modo esemplare, dimostrando di aver raggiunto una genuina maturità necessaria a raccontare una favola piena di amarezza, che ha profonde radici nel reale tessuto sociale contemporaneo, con una potenza espressiva che agisce su dimensioni profonde, perché i contenuti sono espressi in un linguaggio cinematografico potente e sovversivo, sapientissimo ed al tempo stesso fuori dagli schemi. Il cinema italiano è vivo e può capitare che produca ancora opere d’arte: quando forma e contenuto coincidono, quando la verità della vita spinta agli estremi diventa visionaria e indecifrabile, quando radicalità e reticenza vanno di pari passo, il cinema raggiunge la sua grande potenzialità espressiva e si hanno opere come quella dei geniali fratelli D’Innocenzo (Alessandro De Michele).
Da non perdere… al cinema!
data di pubblicazione:17/07/2020
Scopri con un click il nostro voto:
da Antonio Iraci | Giu 3, 2020
Esther vive presso la comunità ebraica di Brooklyn dove è costretta, suo malgrado, a seguire le rigide regole imposte dalla fede ultra-ortodossa chassidica. Come donna non può svolgere alcuna attività in società e il suo unico compito sarà quello di dedicarsi alla vita coniugale e concepire figli. Costretta a sposarsi con il giovane Yanky, ben presto si accorgerà di non poter più reggere la monotonia di quel modo di essere e con l’aiuto di un’amica fugge a Berlino, decisa a rifarsi una vita. Vani saranno i tentativi per riportarla a casa…
Unorthodox è una miniserie televisiva, disponibile su Netflix, creata da Anna Winger e Alexa Karolinski che si sono ispirate al libro di memorie scritto da Deborah Feldman in cui si racconta il rifiuto scandaloso delle proprie origini chassidiche. Concentrata in soli quattro episodi, la serie racconta la storia di Esther, allevata a New York in una famiglia ortodossa Satmar e sin da piccola separata dalla madre, che a suo tempo era stata cacciata dalla comunità; raggiunta la maggiore età, la ragazza è costretta a sposarsi con Yanky, un giovane legato al movimento satmarico e molto devoto ai precetti impartiti dalla Torah. Esty ama la vita e desidera studiare pianoforte mentre la vita domestica, in attesa di rimanere incinta, non fa per lei. Per realizzare il suo sogno e sottrarsi ai doveri coniugali un bel giorno decide di fuggire e di volare a Berlino dove l’attende una vita completamente diversa piena di musica e di colori. Girati per la prima volta in lingua yiddish, gli episodi, sia pur di breve durata, sono sufficienti a mostrarci due mondi contrapposti: da un lato quello di una comunità religiosa super conservatrice, dove sono ammessi sole le regole e gli insegnamenti impartiti dal rabbino, dall’altro quello di una società occidentale, la berlinese in particolare, dov’è rispettata la libertà di pensiero e d’azione e soprattutto dov’è accettata la diversità. L’israeliana Shira Haas, nei panni della protagonista, è un’attrice straordinaria, di grande talento, perfetta per rappresentare l’infelicità di questa giovane a cui sono imposti solo doveri e a cui non è concessa alcuna libertà di espressione. Una ricostruzione curata nei minimi dettagli che la regista Maria Schrader ha saputo creare per spiegare un universo a molti sconosciuto e intriso di grandi tradizioni, rigorosamente tramandate da generazione in generazione. Ogni personaggio, ciascuno a suo modo, deve lottare contro i propri demoni e soprattutto destreggiarsi tra il rispetto di inflessibili precetti e il desiderio di integrarsi in un mondo a sé più congeniale. Nonostante da pochi mesi nel catalogo Netflix, questa serie sta già riscuotendo un successo strepitoso tanto che già si parla di girare altri episodi, anche perché la storia adesso rimane in sospeso: rimarrà da scoprire come la ragazza affronterà il suo futuro a Berlino, città che l’ha subito accolta benevolmente forse proprio per le sue radici ebraiche.
data di pubblicazione:03/06/2020
da Antonio Iraci | Giu 1, 2020
Sergio Marquina, conosciuto da tutti come “il Professore”, decide di organizzare un colpo a dir poco temerario: entrare nella Zecca di Stato a Madrid e stampare milioni di banconote. La squadra d’assalto è formata da otto individui attentamente selezionati e con pesanti precedenti penali che, non potendo rivelare la propria identità, verranno identificati ognuno con il nome di una città. Portata egregiamente a termine l’impresa, i complici, oramai milionari, faranno perdere le loro tracce, sino a quando uno di loro verrà catturato dalla polizia. Con l’intento di liberarlo, la banda si riformerà per organizzare uno strepitoso furto: impadronirsi della riserva aurea nazionale custodita presso la Banca di Spagna…
Questa serie televisiva spagnola è stata ideata da Alex Pina (lo stesso del serial Vis a Vis) e distribuita inizialmente solo a livello nazionale dall’emittente Antena 3 in 15 episodi. Dopo le prime puntate, la produzione riscontrò che l’audience andava via via diminuendo per cui fu deciso di non andare oltre e di vendere i diritti di distribuzione, di quanto già realizzato, a Netflix che tuttavia decise di rimodulare la durata degli episodi, che diventarono 22, dando inizio alle riprese della seconda stagione. Da quell’iniziale insuccesso si è arrivati ad un successo strepitoso! Oggi La Casa di Carta è la serie più seguita in vari paesi del mondo, incluso l’Italia, tanto che agli inizi del 2020 è stato ufficialmente annunciato l’avvio di nuove puntate. La spiegazione di tanto consenso di pubblico non sta solo nello script quanto piuttosto nella scelta accurata dei singoli personaggi, ciascuno con le proprie peculiarità, a volte malvagie a volte di estrema tenerezza, nelle quali lo spettatore non può che riconoscere una parte di sé. I protagonisti agiscono sotto la supervisione del “Professore” che dall’esterno guida e pianifica ogni loro mossa sino al minimo dettaglio e, contemporaneamente, ogni contromossa da parte della polizia. Una lotta continua tra buoni e cattivi, ma a ruoli invertiti perché in questo caso i buoni sono i rapinatori, uomini che hanno avuto disposizioni precise di rubare… senza licenza di uccidere, mentre le forze dell’ordine, e dell’establishment in generale, sono incapaci di nascondere la corruzione che erode il proprio apparato.
Tutti i personaggi sono interessantissimi, ma non si può tuttavia evitare di entrare in empatia con la figura del Professore (Alvaro Morte), classica figura di ladro gentiluomo, un timido non violento ma quasi psicopatico, dotato di un’intelligenza straordinaria e di un autocontrollo che lo porteranno ad essere sempre all’altezza dei tutte le situazioni, anche le più disperate. La sua, come del resto quella degli altri, è quindi una resistenza contro il sistema e Bella ciao viene scelta come inno che identifica la loro lotta “partigiana” di ribellione contro una società priva ormai di qualsiasi valore etico.
Una serie molto interessante, intrigante, che ci commuove e ci diverte, che ci fa sentire partecipi con i protagonisti e soprattutto ci trasmette quella giusta dose di adrenalina, sufficiente a tenerci vigili e critici verso un regime sociale sempre più narcotizzante.
data di pubblicazione:01/06/2020
da Antonio Iraci | Mag 26, 2020
Macarena, istigata dal suo capo ed ex amante, commette diversi illeciti fiscali e appropriazione indebita di denaro ai danni dell’azienda in cui lavora. Condannata a sette anni, viene rinchiusa nella prigione di Cruz del Sur, presso Madrid: già al suo ingresso nel penitenziario dovrà affrontare tutta una serie di situazioni che metteranno a rischio la sua stessa incolumità e che la porteranno a cambiare il proprio modo di essere. Ben presto da ragazza ingenua e tranquilla, incapace di fare del male, diventerà spietata e crudele verso le altre detenute così determinate a renderle la vita impossibile.
Tra le serie più riuscite attualmente in programma sulla piattaforma Netflix, Vis a Vis è senza dubbio quella che più di tutte sta riscuotendo un successo strepitoso, forse al di là delle normali aspettative. Ideata da Alex Pina insieme a Ivàn Escobar, Esther Martìnez Lobato e Daniel Ecija, è stata presentata a partire dal 2015 da Antena 3, emittente spagnola, ed ora Netflix la sta proponendo in Italia e si è già classificata tra le più seguite dal proprio pubblico. Come in tutte le serie tv che si rispettino, bisogna armarsi sin dall’inizio della giusta dose di buona volontà per affrontare i quaranta episodi che compongono l’intera opera ma, seppur apparentemente ardua, l’impresa si dimostra al contrario molto piacevole per l’indiscussa bravura degli attori che riescono quasi tutti a tenere in tensione il pubblico televisivo. I personaggi sanno muoversi bene in un ambiente ostile, come quello di un carcere femminile, dove dietro un apparente atteggiamento di permissivismo, si nasconde invece una efferata crudeltà, da cui non sono esenti neanche le figure deputate al mantenimento dell’ordine. Protagoniste indiscusse sono Macarena e Zulema (rispettivamente Maggie Civantos e Najwa Nimri, pluripremiate per la loro interpretazione) che devono lottare per conquistarsi un posto di tutto rispetto nel microcosmo carcerario dove vivono e dove vigono rigide regole. Il loro perenne conflitto non prevede tentennamenti: uno scontro violento per assicurarsi una salvezza e soprattutto il rispetto delle altre recluse. In questa serie la sceneggiatura ha saputo ben imbastire gli intrecci narrativi che coinvolgono i vari personaggi facendoli interagire, tra l’interno e l’esterno delle mura penitenziarie, in un susseguirsi di situazioni degne di thriller.
La buona riuscita di questo lavoro risiede quindi nell’aver saputo raccontare varie storie, a volte contraddittorie a volte al limite della pura finzione, che però nel loro equilibrato ginepraio rendono il tutto facilmente credibile. Alla fine di ogni singolo episodio si rimane con il fiato sospeso e non ci si può sottrarre alla tentazione di passare automaticamente a quello successivo, creando in tal modo una tele-dipendenza dalla quale non risulta facile disintossicarsi. Inevitabile, dopo la conclusione della quarta stagione, l’annuncio di uno spin-off della serie dal titolo Vis a Vis: El Oasis, che vede ancora impegnate le due citate protagoniste, già presentato su FOX (Spagna) lo scorso mese di aprile, e prossimamente nel catalogo Netflix.
Una serie nella serie da cui sarà quasi impossibile esimersi.
data di pubblicazione:26/05/2020
Gli ultimi commenti…