da Antonio Iraci | Lug 12, 2022
(Festival dei Due Mondi – Spoleto, 24 giugno/10 luglio 2022)
La vigilia di Natale del 2012, tornando a casa dopo una cena con amici, Édouard incontra per strada un uomo, Reda. I due parlano, scherzano e decidono di passare insieme il resto della notte. Reda racconta la storia della sua infanzia e l’arrivo in Francia di suo padre, fuggito dall’Algeria. Dopo una serie di bagordi a sfondo sessuale, alle sei del mattino Édouard viene insultato, violentato, rischiando seriamente di essere persino ucciso…
Con una palese sfida a quello che si può definire politically correct, si chiude questa 65ma edizione del Festival dei Due Mondi di Spoleto con la direzione artistica di Monique Veaute che è riuscita, in due settimane, a concentrare quanto di meglio ci si possa aspettare, a livello nazionale e internazionale, sia in campo musicale che teatrale. In apertura della rassegna ci eravamo già confrontati con il monologo L’appuntamento, tratto dal noto romanzo d’esordio di Katharina Volckmer, spettacolo quanto mai sovversivo e irriverente che usa senza alcun riserbo un linguaggio a dir poco audace. In chiusura, il pubblico ha potuto apprezzare History of Violence, racconto autobiografico dello scrittore francese Édouard Louis, dove viene proposto il dramma dello stupro vissuto dal protagonista (e autore) con un intreccio di temi specificatamente personali con quelli più generali e sociali come l’emigrazione, il razzismo e l’omofobia. Il soggetto proposto, tra desiderio, passione e violenza, non poteva non interessare un regista teatrale della portata di Thomas Ostermeier oggi direttore artistico della Schaubuhne di Berlino e già insignito del Leone d’oro alla carriera alla Biennale di Venezia del 2011. In effetti il lavoro di Édouard Louis non è solo il racconto di una violenza sessuale subita da un uomo da parte di un altro uomo, ma è la testimonianza dello specifico disagio di una classe sociale emarginata che tenta disperatamente, con ogni mezzo possibile, di integrarsi in un contesto che politicamente e culturalmente non gli appartiene. Il protagonista parla inoltre della sua omosessualità, una sorta di autodafé, e del suo problema di farsi accettare all’interno del proprio nucleo familiare e dalle istituzioni in generale. Il linguaggio drammaturgico di Ostermeier è vario e include una recitazione piena di pathos da parte dei due principali protagonisti Laurenz Laufenberg e Renato Schuch, rispettivamente nel ruolo del violentato e del violentatore, il tutto accompagnato da proiezioni video dal vivo degli stessi attori sulla scena e da una musica in sottofondo piuttosto fredda, ma essenziale per evidenziare i vari passaggi della narrazione. Uno spettacolo quindi di forte impatto emotivo che investe tematiche ancora oggi irrisolte quali l’auto-accettazione della propria sessualità e la contrapposizione, quasi innaturale, tra l’impulso personale di odio verso lo stupratore e il sentimento di empatia verso colui che a sua volta è continuamente vittima di oppressione. History of Violence è un lavoro ben fatto perché racconta di violenza, omofobia, povertà ma che in fondo racconta anche di amore che, come afferma lo stesso regista, è la leva più importante che sorregge la vita umana.
data di pubblicazione:12/07/2022
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da Antonio Iraci | Lug 1, 2022
La famiglia Solé coltiva da generazioni un frutteto su un vasto terreno che i proprietari gli avevano ceduto, in segno di riconoscenza, per un “favore” speciale ricevuto durante la dittatura franchista. La vita nei campi è dura in quella parte assolata della Catalogna, ma i Solé lavorano sodo e nel tempo sono riusciti a crearsi una certa agiatezza economica. Un bel giorno gli verrà comunicato che, al posto della piantagione, verranno presto istallati pannelli solari per la realizzazione di un impianto fotovoltaico…
Carla Simòn è una regista e sceneggiatrice catalana che si è fatta già notare dalla critica internazionale per la sua pellicola di esordio Estate 1993, candidata come miglior film straniero agli Oscar 2018. Con, Alcarràs – l’ultimo raccolto, sua seconda opera, ha vinto l’Orso d’oro all’ultima edizione della Berlinale, primo film in lingua originale catalana a ricevere tale premio. La giuria, presieduta dal regista indiano Shyamalan, ha voluto così premiare un film all’insegna della semplicità, una storia intrisa di puro verismo per fotografare oggettivamente la realtà sociale e umana di una famiglia di agricoltori. Il presente è presente con i problemi di natura politica ed economica legati al duro lavoro nei campi, ma tutto ciò non svilisce il clima positivista che aleggia attorno ai personaggi, tutti, ognuno per la propria parte, impegnati a portare avanti il bene comune, senza peraltro trascurare il vantaggio personale. Appena sfiorato il tema della passata dittatura spagnola in una regione, appunto quella rurale della Catalogna, dove accanto a una economia prettamente agricola, si iniziano a intravedere i primi concreti tentativi di apertura a un nuovo mondo tecnologico. Gli attori, tutti rigorosamente non protagonisti, sono stati scelti proprio per interpretare una realtà semplice ma anche non scevra di impegno sociale. La Simòn intende così lanciare un messaggio, quanto mai attuale, per salvare un’agricoltura oramai in via di estinzione: la globalizzazione impone prezzi politici che non consentono più ai contadini la giusta remunerazione per il lavoro svolto. Quimet, il padre padrone, interpretato da Jordi Pujol Dolcet, è un uomo all’antica che crede nel suo lavoro anche perché da sempre fa questo lavoro e non cede alla proposta, da parte dei reali proprietari del frutteto, di diventare custode di un campo sterminato di pannelli solari. Certo potrà lavorare di meno e guadagnare di più, ma lui è sempre stato un agricoltore e tale vuole rimanere, rifiutando ogni forma di compromesso. La regista dimostra di conoscere molto bene quel tipo di realtà agricola, la realtà peraltro delle sue vere origini, che fa poi da filo conduttore di tutta la storia. I bambini che giocano a fare la guerra o a improvvisarsi astronauti, occupando il rottame di una vecchia auto, rappresentano sicuramente un ritorno alla sua infanzia, un tratto autobiografico che aggiunge pura genuinità al contesto. Tutto si svolge con i tempi giusti per fare così assaporare al meglio un mondo senza malizia né artificio dove i vari personaggi si muovono con i gesti del quotidiano, interpretando se stessi. Merito quindi della Simòn è quello di aver portato sullo schermo una realtà poco artefatta, forse destinata a sparire, ma che dà spazio a un sentimento puro e non a un falso sentimentalismo, qui meno che mai inopportuno.
data di pubblicazione:01/07/2022
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da Antonio Iraci | Mar 25, 2022
Benedetta ha 15 anni: scontrosa, cicciona e piena di brufoli. Vive nella periferia romana, in una famiglia con tante aspirazioni fallite che la copre di attenzioni e dice di volerle bene, anche se tutto ciò ha il sapore di un atto dovuto. Un giorno conosce Amanda, trans che ufficialmente si guadagna la vita in un parco giochi ambulante. Da questo incontro casuale la ragazza inizierà a coltivare maggiore stima di sé e imparerà a emanciparsi, lasciandosi alle spalle un’adolescenza grigia e priva di qualsiasi prospettiva.
Chiara Bellosi con Calcinculo è al suo secondo lungometraggio dopo Palazzo di Giustizia, sua opera prima. Presentato all’ultima Berlinale, nella Sezione Panorama, il film già accolto favorevolmente in quella sede è arrivato finalmente in sala. Ci troviamo di fronte ad un vero e proprio percorso di formazione perché Benedetta, la protagonista, a seguito di un incontro fortuito con Amanda, si troverà repentinamente a passare da una fase adolescenziale a quello di una donna matura capace di guardare la propria fisicità con un tratto diverso, proiettandosi verso un futuro nuovo. La regista parla della vita vera utilizzando un linguaggio cinematografico asciutto, dove non c’è spazio per situazioni artificiose, costruite e prive di qualsiasi substrato reale.
L’incontro con Amanda, trans privo di qualsiasi retorica morale ma genuino nell’esprimere i propri sentimenti e le proprie emozioni, sarà determinante per la crescita della ragazza: Benedetta imparerà a guardarsi con un occhio diverso e soprattutto a capire da sé che anche lei può essere oggetto di attenzione, lasciandosi alle spalle la percezione di essere brutta e grassa a confronto delle sue due graziose sorelline e di quella madre, mancata ballerina, presenza ingombrante con cui è costretta a confrontarsi ogni giorno.
Il film riesce a trattare con raro equilibrio un tema che poteva risultare banale, evitando situazioni eccessive o compiacimenti morbosi, sussurrandoci all’orecchio cose vere e importanti in tono amichevole e confidenziale, senza note dissonanti o tragiche. L’esordiente Gaia Di Pietro (Benedetta) appare molto sicura nel suo ruolo accanto ad un bravissimo Andrea Carpenzano, diventato un attore molto conosciuto dal pubblico italiano che imparò ad apprezzarlo al suo esordio a Berlino nel 2018 come protagonista ne La terra dell’abbastanza dei fratelli D’Innocenzo.
A parte il titolo poco felice che in realtà potrebbe indicare la giostra dove la ragazza inizia a prendere visione della vita o, metaforicamente, ci suggerisce che si cresce anche a calci nel sedere, Calcinculo merita sicuramente un’attenzione particolare e per questo se ne consiglia la visione.
data di pubblicazione:25/03/2022
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da Antonio Iraci | Mar 15, 2022
Raf e Julie, dopo l’ennesimo litigio, decidono non di comune accordo di separarsi dopo anni di convivenza. Nel rincorrere per strada la compagna, Raf cade e si frattura un gomito. Ricoverata d’urgenza al pronto soccorso dovrà passarci tutta una notte prima di poter essere dimessa, mentre Parigi è invasa da un caos fuori controllo, sia all’interno della struttura ospedaliera sia fuori per le strade della città: i gilet gialli hanno trasformato una protesta contro la politica presidenziale in una vera e propria guerriglia urbana.
Nella vasta cinematografia di Catherine Corsini, punteggiata da film di notevole successo più volte premiati in festival internazionali, non manca mai un riferimento al sociale e alle problematiche di interesse comune, con particolare riferimento all’universo femminile. In Parigi, tutto in una notte (titolo originale La fracture perché in effetti di una frattura, soprattutto sociale, si parla) la regista francese cerca di riassumere, nell’arco temporale di una notte in un pronto soccorso di un ospedale parigino, i malesseri di una città, meglio ancora di una nazione, sull’orlo di una crisi economica e ideologica. Lo spettatore si trova così ad essere coinvolto, quasi in tempo reale, in un coacervo di situazioni che potrebbero sembrare paradossali ma che, ahimè, rispecchiano in toto il reale. Infermieri e medici costretti a turni massacranti per carenza di personale, gente ammassata nei corridoi che si contende una barella d’emergenza, farmaci esauriti… Questa la scena che viene rappresentata, mentre fuori i gilet gialli danno vita ad una vera e propria rivoluzione armata. E sullo sfondo della crisi sentimentale tra due donne, la regista affronta in maniera diretta ma con una buona dose di superficialità, tutta una serie di problemi che affliggono la Francia. Forse un pretesto per mettere in luce quanto c’è di contradditorio e di irrisolto nella società di oggi, dove i bei discorsi e le promesse dei politici non fanno più presa sulla gente costretta a guadagnarsi la vita con i lavori più stressanti. Valeria Bruni Tedeschi, oramai naturalizzata francese, interpreta in maniera perfetta la parte della squinternata Raf, isterica tanto quanto basta ma che in fondo, tra un delirio e l’altro, riesce anche a provare complicità, e non solo compassione, per l’umanità che la circonda. A lei, più che a Marina Foïs nel ruolo di Julie, si deve la discreta riuscita del film anche se talvolta la sua interpretazione eccede assumendo, forse volutamente, atteggiamenti sopra le righe al limite del caricaturale.
Il risultato ottenuto potrebbe lasciare perplessi: una accozzaglia di situazioni male assortite per denunciare tutto e nulla al tempo stesso. Il film, presentato in concorso all’ultimo Festival di Cannes, è stato premiato ai Cesar ed ha ottenuto due candidature ai Lumiere Awards.
data di pubblicazione:15/03/2022
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da Antonio Iraci | Mar 12, 2022
Mary vive da anni con Ahmed, di origini pakistane, nei pressi di Dover sulla Manica. Per amore, prima di sposarsi, si è convertita all’Islam accettando con convinzione le regole e le tradizioni che la religione comporta. Dopo la morte improvvisa dell’uomo, Mary scopre per caso nel suo portafoglio il documento d’identità di una certa Genevieve che vive a Calais. Chi sarà mai questa donna francese a lei del tutto sconosciuta? Cosa ha a che fare con suo marito?
Nato e cresciuto in Inghilterra, Aleem Khan è uno scrittore e regista di estrazione anglo-pakistana. Con il suo film di esordio After love, si propone di risalire alle proprie origini religiose e culturali parlando dell’incontro-scontro tra due donne che si contendono lo stesso uomo musulmano. Dopo essersi conosciute, circostanza abilmente architettata dalla prima mentre ritenuta fortuita dall’altra, sarà un continuo rimbalzare di scoperte e di prese di coscienza. Il tutto per ricostruire la figura di un uomo che per anni era riuscito a vivere una doppia vita, anche se con una certa dose di onestà interiore. La sua morte improvvisa sarà motivo di sconforto per entrambe e soprattutto per il figlio, avuto con Genevieve che dimostra un grande attaccamento al padre ed una aperta dissonanza con la madre.
Quello che rende il film un piccolo capolavoro è proprio l’equilibro perfetto che si viene a creare nel contrapporre due donne abituate a vivere realtà completamente diverse in mondi tradizionalmente opposti. Mary, dopo la morte del marito, inizia ad esplorare la propria identità costruita sulla base di proprie scelte che aveva fatto per amore: è sicuramente una donna europea in tutto ma che si converte per essere accettata dall’entourage del proprio uomo. Diventando un’altra persona, ora come potrà affrontare da sola un’esistenza che in fondo non le appartiene per natura ma solo per scelta? Nello scoprire il lato oscuro di suo marito dovrà imparare, suo malgrado, ad accettare l’altra donna ed entrare in sintonia con quel figlio che lei stessa non era stata capace di dargli. Altro elemento fondamentale della scena riguarda le famose bianche scogliere di Dover, elemento catalizzante che riesce a unire due sponde contrapposte ma paradossalmente vicine. Mary e Genevieve, come Dover e Calais, appartengono a due realtà apparentemente diverse: entrambe hanno in comune l’elaborazione di un lutto al quale erano del tutto impreparate. Joanna Scanlan interpreta egregiamente il ruolo di Mary, anche con il proprio corpo, non dovendo ricorrere spesso alle parole esprimendosi solo con piccoli gesti e con uno sguardo dolce e triste al tempo stesso. Nathalie Richard è invece Genevieve, donna nervosa e impulsiva che invano cerca di conquistare l’affetto del figlio adolescente Solomon (Talid Ariss), anche lui alla scoperta di una propria identità religiosa, oltre che sessuale.
Già da qualche tempo nelle sale, sarà difficile recuperare After love: in un plot di poche pretese si ritrovano un’eleganza e un rigore cinematografici che oggi solo poche pellicole possiedono
data di pubblicazione:12/03/2022
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