da Antonio Iraci | Ott 15, 2022
(Festa del Cinema di Roma, 13/23 Ottobre 2022)
Lynsey, mentre si trova in Afghanistan arruolata tra le truppe americane come ingegnere, subisce una lesione cerebrale a seguito di un attentato di cui rimane vittima il suo convoglio. Ritornata in patria, dovrà affrontare un lungo periodo non solo di riabilitazione fisica ma anche di recupero di ciò che rimane della sua vita affettiva, all’interno della famiglia. L’incontro casuale con James, meccanico in una autofficina, consentirà alla ragazza di affrontare con coraggio i traumi del passato e di aiutare lo stesso James a cancellare i propri.
Lila Neugebauer, nata a New York, si è sempre distinta per la direzione di importanti pièce teatrali soprattutto a off-Broadway, dove oramai è di casa. Con Causeway abbiamo il suo esordio come regista e il film viene ora presentato in anteprima in questa terza giornata della Festa del Cinema. Si tratta di un piccolo dramma psicologico perché affronta le difficoltà fisiche, ma soprattutto interiori, di una donna che si è sempre impegnata con convinzione a svolgere la propria attività tra le truppe americane in Afghanistan. Dal difficile rapporto con la madre, con la quale è ora costretta a convivere dopo un lungo e faticoso periodo di riabilitazione fisica, si evince facilmente che la sua scelta di abbandonare la famiglia alquanto disastrata, con un fratello coinvolto nel traffico di stupefacenti e un padre oramai inesistente, non era proprio causale. Il bisogno di allontanarsi da New Orleans, suo luogo di nascita ma che per lei è solo fonte di sofferenza, la spingerà ad isolarsi sempre di più nella casa nella quale ora vive e a cercarsi un lavoro temporaneo in attesa di essere riabilitata al servizio. Grazie all’incontro casuale con James, anche lui fisicamente disabile, la ragazza lentamente imparerà a riconquistare quella sensibilità affettiva che era andata totalmente persa. Il rapporto che si prospetta è sicuramente di empatia reciproca, visto che Lynsey dichiara subito di non essere interessata sessualmente agli uomini, ed i due lentamente, a volte anche con qualche parola lanciata a sproposito, riusciranno alla fine a instaurare una convivenza, entrambi desiderosi di sperimentare insieme la quotidianità. Jennifer Lawrence, già premio Oscar come migliore attrice nel film Il lato positivo diretto da David O. Russel, dimostra una eccezionale bravura nella parte della protagonista mentre è una vera rivelazione Brian Tyree Henry, attore statunitense anche lui con una brillante carriera alle spalle. Causeway è un film delicato e profondo che ci porta con discrezione nell’animo dei protagonisti per rivelarci quanto sia doloroso a volte convivere con il proprio passato e quanto sia ancora di più impegnativo proiettarsi in un futuro ancora buio e indistinto, sforzandosi di non perdere quella piccola dose di coraggio necessaria per rivedere al meglio la propria esistenza.
data di pubblicazione:15/10/2022
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da Antonio Iraci | Ott 14, 2022
(Festa del Cinema di Roma, 13/23 Ottobre 2022)
Alexandre O. Philippe, regista svizzero molto apprezzato per i saggi da lui fatti su film di riconosciuta fama internazionale, ci accompagna questa volta nel mondo, a dir poco surreale, di David Lynch spiegandoci come la sua intera opera cinematografica sia stata influenzata da “Il mago di Oz”. Si tratta del film di Victor Fleming che è diventato un classico della storia del cinema anche per l’indimenticabile interpretazione di Judy Garland.
Il film, presentato nella seconda giornata della Festa del Cinema di Roma, si può senz’altro considerare un saggio che il regista ha inteso realizzare, con l’aiuto di alcuni critici e cineasti molto addentro al cinema di David Lynch, con l’obiettivo di capire come mai il grande regista americano si sia fatto così ispirare da ciò che si può considerare una pura e semplice favola.
Dorothy è la giovane protagonista del film di Fleming e, per una serie di strane vicissitudini, si trova catapultata in un mondo fuori dal mondo reale, dove lei stessa dovrà barcamenarsi tra forze del bene e avverse forze del male.
In quasi tutti i film di Lynch, che sicuramente da piccolo fu coinvolto emotivamente da quella storia dove regna la fantasia, ci troviamo di fronte a un bivio che non porta a strade divergenti, ma dove ogni direzione è comunque giusta per raggiungere la meta. Ognuno di noi, come Dorothy, è alla ricerca della verità e della salvezza alle quali si arriva con ogni mezzo pur invadendo sfere a noi sconosciute. Nelle opere di Lynch ci troviamo spesso di fronte a un sipario, curiosi di scoprire cosa si possa trovare dietro di esso: ecco che ci addentriamo così in un mondo fatto di sogni, dove il reale di qua non corrisponde più al reale di là. Sono due mondi diversi e contrapposti, dove quello che appare, perché di pure apparenze si tratta, non si allinea mai con ciò che è il vero. Ecco che Lynch non si fermai mai ad indagare l’inconscio, dove spazio e tempo sono pure illusioni, per arrivare alla conclusione che tutto è diverso da quello che noi pensiamo sia.
La piccola Dorothy viaggerà quindi con il suo amato cagnolino Totò Over the Rainbow per raggiungere una nuova dimensione, fatta di personaggi e situazioni dove ogni cosa è interpretazione di un sentimento realmente avvertito e non un semplice delirio psichico come da molti affermato. Lo stesso Lynch, parlando dei propri lavori, afferma che in ogni istante della sua vita, in ogni decisione intrapresa, non c’è stato un solo minuto in cui non abbia pensato a “Il mago di Oz”, ai suoi personaggi e persino a quelle strane scarpette rosse luccicanti portate con disinvoltura dalla ragazzina e che ritroviamo ai piedi delle sue eroine. Un simbolo di potere o un mero mezzo per trovare finalmente la strada di casa?
data di pubblicazione: 14/10/2022
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da Antonio Iraci | Ott 13, 2022
(Festa del Cinema di Roma, 13/23 Ottobre 2022)
Marco Carrera, in famiglia da piccolo chiamato colibrì per la sua bassa statura, attraverso i ricordi racconta la sua storia fatta di amori passati, mai veramente cancellati, e di amori presenti, mai veramente vissuti. Una vita passata nell’illusione di realizzare qualcosa che inevitabilmente gli sfugge di mano. Da uomo oramai fatto, imparerà che non bisogna mai arrendersi di fronte a un destino crudele che sembra accanirsi contro di lui. Sarà la nipote Miraijin, ultimo vero affetto rimastogli, che lo aiuterà a sopravvivere al buio della propria esistenza.
Francesca Archibugi, con il suo Il Colibrì, inaugura questa 17esima edizione della Festa del Cinema di Roma per la prima volta sotto la Direzione Artistica di Paola Malanga, giornalista, critica cinematografica e tra i principali collaboratori di Paolo Mereghetti per il Dizionario dei Film. Succede a Antonio Monda che ha ricoperto questo ruolo per ben 7 anni e che è riuscito a portare sul red carpet dell’Auditorium grandi star internazionali. Alla presentazione de Il Colibrì, grande era l’attesa del pubblico, per la verità un poco scarso in sala rispetto alla calca degli anni passati, soprattutto per la presenza di un cast di tutto rispetto, impegnato in una recitazione faticosa per la tematica drammatica certamente non facile. Il film è tratto dal romanzo omonimo di Sandro Veronesi, vincitore nel 2020 per la seconda volta del prestigioso Premio Strega, riconoscimento già attribuito all’autore nel 2006 per il libro Caos calmo. La buona performance dei vari attori, a cominciare da Pierfrancesco Favino nella parte di Marco Carrera e a seguire quella di Kasia Smutniak, Laura Morante, Alessandro Tedeschi, Bérénice Bejo e Nanni Moretti per citare alcuni nomi più di spicco, non è sufficiente a riscattare il film e a renderlo più fruibile al pubblico. La sceneggiatura, in parte curata dalla stessa regista, fa fatica a seguire la trama a innesto che caratterizza il libro di Veronesi: il susseguirsi quasi frenetico di continui e brevi flash back, appesantisce la narrazione che risulta alla fine alquanto “pasticciata”. La vita del Carrera è scandita da tragedie affettive e da problematiche irrisolvibili verso le quali lui stesso ne rimane invischiato, come una mosca all’interno di una sottile ragnatela, incapace di prendere una posizione univoca e responsabile. Il montaggio scelto non facilita certamente la struttura generale del film fatto di ricordi frammentari da parte del protagonista che riportano ad un puzzle irrealizzato e quanto mai discontinuo. Forse da una regista del calibro della Archibugi, nota anche al pubblico internazionale per i tanti premi e riconoscimenti ottenuti dai suoi film, ci si sarebbe aspettato qualcosa di più, un maggiore coinvolgimento emotivo, un’attenzione più ricercata. Sui titoli di coda un inedito di Sergio Endrigo, un brano bellissimo che la stessa figlia del grande cantautore, morto nel 2005, ha voluto far eseguire da Marco Mengoni, un nome e una garanzia.
data di pubblicazione:13/10/2022
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da Antonio Iraci | Set 28, 2022
Dante Alighieri, esiliato e umiliato dalla sua Firenze, muore a Ravenna nel 1321. Trent’anni dopo Giovanni Boccaccio, studioso dell’opera dantesca, riceve, per conto e per ordine della Compagnia di Orsanmichele, un incarico singolare: andare nel convento dove risiede la figlia del Sommo Poeta, divenuta monaca con il nome di suor Beatrice, e consegnarle un risarcimento in denaro per l’esilio ingiustamente subito da suo padre. Per Boccaccio sarà un viaggio faticoso, ma che gli consentirà di ricostruire i momenti più importanti della vita dell’Alighieri.
Dopo che è passato pressoché in sordina l’anniversario per i settecento anni dalla morte del Sommo Poeta, Pupi Avati sente quasi il dovere morale di avverare un sogno ambizioso che teneva nel cassetto da diversi anni. Prima di lui nessun cineasta aveva osato rappresentare Dante né tantomeno la Divina Commedia, universalmente riconosciuta come la massima opera della letteratura mondiale, ma il regista bolognese ci riesce e realizza un piccolo capolavoro, dando prova di grande maestria e di estrema sensibilità artistica. Raccontare della vita di Dante, del suo impegno politico a fianco dei guelfi bianchi e del suo sconfinato amore verso Beatrice non era impresa facile, si rischiava infatti di realizzare qualcosa di estremamente melenso o eccessivamente didascalico e verboso. Avati sceglie il giusto equilibrio con l’inserimento, al momento giusto della narrazione, di citazioni poetiche, ma anche il silenzio fa la sua parte. Dante e Beatrice non si parlano mai e i loro rari incontri sono fatti di sguardi, le parole qui sembrano eccessive, quasi elemento ingombrante che possa persino disturbare l’amore tra i due giovani. Il soggetto narrante è affidato alla figura di Boccaccio (Sergio Castellitto) egregiamente inserito in quel momento proprio del Medioevo volto all’apertura verso nuove conoscenze ma anche considerato come periodo bellicoso e buio. Il regista ci porta in un mondo fatto di arte e di religiosità e sembra soffermarsi sugli affreschi delle chiese di quel tempo dove erano le stesse immagini che parlano una lingua diversa, a volte aristocratica a volte sostanzialmente povera. Un universo sporco e maleodorante ma dove si ha conferma, proprio nella figura di Dante, come il tormento e il dolore possano elevare l’essere umano ad un livello superiore, quasi divino. Alessandro Sperduti e Carlotta Gamba, rispettivamente nel ruolo di Dante giovane e di Beatrice, recitano in maniera convincente e ci inducono a riconsiderare il pessimo approccio che ognuno di noi aveva avuto a scuola in quanto costretti ad imparare a memoria quelle terzine di endecasillabi, tanto odiose quanto incomprensibili in quella lingua volgare fiorentina. Grazie a questo film possiamo riscoprire l’umanità di un genio assoluto, con la fragilità di un giovane che rimane tale per sempre anche se possiamo immaginarlo “nel mezzo del cammin di nostra vita”. Ottima la fotografia firmata Cesare Bastelli e i costumi curati da Andrea Sorrentino che hanno contribuito alla realizzazione di un film compiuto, che si lascia seguire bene e che probabilmente ci farà dimenticare quel Dante scolastico, di cui tutti noi abbiamo triste ricordo.
data di pubblicazione:28/09/2022
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da Antonio Iraci | Set 25, 2022
Joong-Man proprietario con la vecchia madre di un negozio oramai sull’orlo del fallimento, lavora come dipendente part-time in una sauna. Un giorno, nel ripulire gli armadietti destinati alla clientela, trova una borsa apparentemente abbandonata che contiene un patrimonio in contanti. Da quel momento diversi personaggi senza scrupoli si fronteggeranno per entrare in possesso di quell’ingente somma di denaro.
Sulla scia del successo planetario ottenuto da Parasite di Bong Joon-ho (Palma d’oro alla 72° edizione del Festival di Cannes e a seguire quattro Premi Oscar, di cui uno per il miglior film) il sudcoreano Kim Yong-Hoon presenta il suo film di esordio Nido di Vipere. La sceneggiatura, curata dallo stesso regista, è congegnata come un meccanismo di precisione: i vari personaggi ruotano attorno ad un unico obiettivo che è quello di impossessarsi di una borsa (di Louis Vuitton sic!) ricolma di denaro. Sicuramente, nel corso della narrazione, lo spettatore riconosce un tratto “tarantiniano” che caratterizza l’intera storia con un mix di thriller-noir-splatter drammatico, con scene sanguinolente di cui si tralasciano i particolari per non impressionare più del dovuto. Ciascuno, per motivi diversi, si sente legittimato ad entrare in possesso della borsa che, come spesso accade nelle favole a lieto fine, finirà nella mani di chi non c’entra proprio niente in tutta questa pasticciata faccenda. Il film è suddiviso in vari capitoli i cui titoli servono per focalizzare l’attenzione dello spettatore sul tema principale al fine di assecondare la cosiddetta quadratura del cerchio poiché la storia si conclude nel punto in cui era iniziata. Decisamente convincente la recitazione dei vari attori anche se è opportuno riconoscere che la tendenza leggermente sopra le righe delle situazioni è dovuta essenzialmente al tipo di atteggiamento interpretativo orientale che si discosta molto da quello occidentale. Tra le interpreti femminili riconosciamo Youn Yuh-jung, già Premio Oscar nel 2021 come miglior attrice non protagonista nel film Minari di Lee Isaac Chung. Con Nido di Vipere abbiamo certamente ulteriore conferma che il cinema sudcoreano stia attirando molta attenzione nel panorama cinematografico mondiale, specializzandosi in un genere dove la famiglia e l’individuo stanno al centro delle storie anche se poi ci sono interferenze cruente e spietate che sembrano rimandare inevitabilmente alla prima filmografia dei fratelli Coen. Il film è accattivante, i personaggi sono ben assortiti e le situazioni ben concatenate dove nulla è lasciato al caso. Il regista, che con questa sua prima opera ha già vinto diversi premi, dimostra di saper cogliere gli aspetti essenziali dei fatti senza indugiare nelle situazioni e senza prolungare i tempi oltre il dovuto. Esperimento interessante in una pellicola di cui si consiglia la visione.
data di pubblicazione:25/09/2022
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