da Antonio Iraci | Giu 1, 2023
Nel 1858, anno in cui inizia l’incredibile storia di Edgardo Mortara, Bologna si trova sotto la giurisdizione del Papa Re Pio IX. Un bambino di appena sette anni viene tolto alla famiglia, di religione ebrea, per essere cresciuto e educato come cattolico a Roma. Nonostante i vari appelli, anche a livello internazionale, affinché il piccolo venga restituito ai genitori, la Santa Sede attraverso i suoi insigni rappresentanti si trincera dietro l’espressione “non possumus”, locuzione che esprime l’opposizione granitica ad ogni tentativo di risolvere la questione con il semplice buonsenso…
Siamo ben lontani, anche in termini temporali, dal film d’esordio I pugni in tasca con il quale l’allora giovanissimo regista piacentino intendeva manifestare un ben definito malessere sociale, precursore di ciò che sfocerà a breve nella rivoluzionaria contestazione sessantottina. Anche nei film successivi, Bellocchio ha manifestato la volontà di entrare, quasi con circospezione, nell’intimo dell’anima dei suoi personaggi, per esaminarne i lati più oscuri e le sue deformazioni. In questi suoi ultimi lavori sembra tralasciare quelle tematiche un tempo a lui care, quelle situazioni claustrofobiche che volente o nolente portavano i suoi personaggi a rasentare la follia pura. Dopo Buongiorno, notte, in Esterno notte il regista torna all’impegno politico con una minuziosa cronaca dei giorni del sequestro Moro che tanto impegnarono, senza successo, i politici di quel tempo. In questa fase evolutiva, o involutiva per i critici più spietati, il regista ha presentato in concorso a Cannes il suo ultimo lavoro Rapito, un film a dir poco colossale non solo per la complessa tematica affrontata, quanto per l’impegno a realizzare un’ambientazione storica, quanto più aderente possibile a quegli anni in cui crollò il potere temporale della Chiesa. In questo contesto si inseriscono le vicende del giovane Edgardo Mortara, di famiglia ebrea, che ancora bambino viene sottratto alla famiglia e, con un pretesto poco credibile, viene trascinato con la forza per essere educato ad abbracciare la religione cattolica, in palese contrasto con le abitudini e le convinzioni delle sue origini. Una sceneggiatura, ben curata dallo stesso regista insieme a Susanna Nicchiarelli, che riesce a catturare lo spettatore, imprigionandolo in una bolla emotiva, carica di tensione e angoscia. Ci si chiede cosa possa oggi rappresentare la religione, di qualunque credo si tratti, e di come possa anche ferire in nome di una fede ottusa, da accettare come dogma inconfutabile. La fotografia, curata da Francesco Di Giacomo, utilizza quel gioco di luci e ombre radenti, quasi caravaggesche, per meglio rappresentare quell’anima che non sa prendere una netta posizione tra l’obbedienza incondizionata all’autorità ecclesiastica e la semplice logica del buonsenso. Cast ben curato dove emerge la figura di Edgardo, interpretato alla perfezione dal piccolo Enea Sala, mentre la madre è interpretata da Barbara Ronchi, molto credibile nel ruolo di una donna disperata che non si rassegna alla perdita del figlio. Bellocchio non vuole manifestare solo palese irriverenza verso quel tipo di chiesa che imperversava al tempo di Pio IX, ma ancora una volta si impegna in un atto di ribellione verso ogni autorità che, mai come in questo caso, dovrebbe occuparsi dell’ultraterreno e se lo fa, decisamente lo fa male.
data di pubblicazione:01/06/2023
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da Antonio Iraci | Mag 24, 2023
(Teatro India – Roma, 23/28 Maggio 2023)
Una madre oramai anziana e i suoi tre figli, Simona, Riccardo e Gioia, sono al supermercato con i carrelli della spesa. Proprio lì avverrà l’incontro/scontro da cui nascerà una seria e approfondita riflessione sul loro rapporto interpersonale. Il pianeta terra è alla sbando, oramai prossimo a morire, e ci si interroga su una prevedibile apocalisse. Ma è proprio vero che gli elefanti, dotati di un cervello tre volte superiore a quello dell’uomo, sono destinati a prevaricare su tutti noi sovvertendo cosi i principi darwiniani dell’antropogenesi?
Lucia Calamaro è una regista e drammaturga romana alla quale non manca certo una consolidata esperienza comunicativa per utilizzare il teatro, per definizione luogo di gioco interattivo, come trampolino di lancio per un messaggio sociale e ambientalista. Nello spazio ben delineato della scena è possibile allora naufragare su alcune riflessioni profonde quali l’origine del mondo e l’autodistruzione causata dall’incuranza da parte del genere umano. Forse Darwin stesso non avrebbe mai immaginato che le sue teorie evoluzionistiche avrebbero invece generato un processo involutivo irreversibile e l’uomo avrebbe un giorno lasciato il posto a specie animali più capaci di imporsi. Maria Grazia è un’artista prima di essere una madre, sa studiare bene le sue performances e sa come attirare su di sé l’attenzione dei propri figli, distratti dalle loro fatiche quotidiane, ma poco inclini a lasciarsi abbindolare da una sua presunta imminente morte. Anche i tre fratelli sembrano avere difficoltà a trovare punti di incontro, ognuno ha le proprie teorie su ciò che è giusto o ingiusto, su come interagire nei confronti di una madre performativa, brava certo in tutto ma incapace di manifestare un affetto genuino nei loro confronti. Se Riccardo, maestro elementare, è ossessionato dalla sua invadente fisicità, Simona, ostetrica di professione, difende senza vera convinzione le proprie idee ambientaliste e si scontra con la sorella Gioia, artista anche lei come la madre, paladina del principio di supremazia del mondo vegetale su quello animale. Dialoghi e elucubrazioni filosofiche sulla vita e sulla morte, due facce della stessa medaglia che ci portano a riflettere sul senso delle cose e sulla deriva verso la quale siamo consapevolmente diretti. Una regia, quella della Calamaro, attenta al peso delle parole più che alle azioni, un ambiente luminoso dove far muovere gli attori, semplici burattini lasciati a rincorrersi alla ricerca affannosa di un briciolo di umanità. Sulla scena Riccardo Goretti, Gioia Salvatori, Simona Senzacqua, Maria Grazia Sughi con una recitazione perfetta, spontanea e divertente che ha conquistato sin dalle prime battute il pubblico in sala.
data di pubblicazione:24/05/2023
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da Antonio Iraci | Mag 23, 2023
Peter von Kant è un regista ben introdotto nell’ambiente cinematografico internazionale, più volte premiato per le sue opere. Dopo aver lasciato il suo compagno, sta attraversando un momento di crisi assistito fedelmente dal suo segretario e cameriere Karl, apparentemente muto, che accetta passivamente i maltrattamenti e i capricci del suo padrone. Un giorno l’amica/attrice Sidonie si presenta a casa sua con Amir, giovane seducente e nullatenente, in cerca di una facile sistemazione…
Presentato in apertura alla Berlinale dello scorso anno, Peter von Kant del poliedrico Ozon trova ispirazione nell’opera teatrale di Rainer Werner Fassbinder Le lacrime amare di Petra von Kant di cui lo stesso nel 1972 ne aveva tratto un film, in concorso per l’Orso d’oro a Berlino. Dopo cinquant’anni esatti, il regista e sceneggiatore francese dirige un remake dalla pellicola in cui ripropone i temi a lui cari, che trovano quasi sempre riscontro nelle sue opere, quali l’identità sessuale e in particolare l’identità di genere, l’affettività, la morte. Ozon, pur lasciando la tipica impostazione teatrale classica, con unità di azione, di luogo e di tempo, modifica il dramma originario di Fassbinder trasformando le protagoniste in personaggi al maschile in modo tale che il soggetto principale, la stilista Petra diventerà il cineasta Peter, con tutto quello che ne consegue. Al rigor del vero l’esperimento non sembra pienamente riuscito anche se tutto l’impianto scenico è pensato volutamente artificioso, oltre al necessario, per riportare l’intera ambientazione a quella originaria tipica di quegli anni. L’infatuazione di Peter verso l’efebico Amir, di cui poi si innamorerà perdutamente perdendo ogni forma di autocontrollo, ha non solo dell’irrazionale ma del patetico, tutta esageratamente rivolta verso una relazione sofferta da un lato, e marcatamente interessata dall’altro. Se Peter (Denis Ménochet) risulta poco credibile, ancora di più lo è il giovane Amir (Khalil Ben Garbia) entrambi impegnati in una recitazione sopra le righe, a volte persino fastidiosa. Per fortuna in loro soccorso interviene una splendida Hanna Schygulla, passata dal ruolo della bellissima Karin, nel film di Fassbinder a quello della madre di Peter in Ozon, piccolo cameo che fa risaltare ancor di più la bravura della talentuosa attrice tedesca, oramai ottantenne. Nel cast anche l’affascinante Isabelle Adjani, perfetta in Sidonie, amica di Peter e oramai considerata un’attrice sul viale del tramonto, immagine costruita ma l’unica veramente sincera in un entourage di sentimenti falsi. Tentativo quindi che voleva essere un più che sentito omaggio al grande Fassbinder, forse però non del tutto azzeccato. La scenografia è intenzionalmente troppo scontata: un atelier kitsch con sullo sfondo immagini ripetute di un San Sebastiano trafitto in tutte le posizioni, oramai simbolo martirizzato di una iconografia che, senza fare falsa retorica e cercando di evitare ogni perbenismo, rasenta a volte il ridicolo. Con rispetto alla buona volontà di Ozon, non ci si può esentare dal manifestare qualche seria perplessità.
data di pubblicazione:23/05/2023
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da Antonio Iraci | Mag 17, 2023
(Teatro Vascello – Roma, 16/28 Maggio 2023)
Fil e Charlie coltivano in casa marijuana. Per ristabilire un certo equilibrio internazionale, visto che gli Stati Uniti, sotto la parvenza di una solida democrazia, hanno annientato i cartelli della droga messicani, decidono solidalmente di esportarla in quel paese. Come corriere utilizzeranno Wanda che, per il suo fisico da cicciona, ha impensabili capacità ricettive. Mentre la ragazza viene preparata opportunamente al grande viaggio, improvvisamente, dopo anni di assenza, riappare Annalisa, trans che è padre di Fil e ex marito di Lucia, sua madre…
Carrozzeria Orfeo si presenta con una pièce del tutto originale, irriverente nel linguaggio e molto significativa per quanto riguarda la critica verso tutte quelle forme di falsa democrazia. In un mondo, quello in cui viviamo, dove l’arte di arrangiarsi è diventata necessità di sopravvivenza, ritroviamo i nostri personaggi, ognuno per la propria parte con le rispettive aspirazioni e con i propri concreti fallimenti. Fil manifesta, con la sua rabbia, la propria disillusione verso la vita che lo ha fatto vivere con una madre dipendente dal gioco e con un padre che, dopo molti anni, si ripresenta in veste di trans, già accolto in una comunità teocratica e manipolatrice. Di contro Charlie, socio negli affari, porta avanti le sue lotte come animalista e come integerrimo difensore dei diritti civili. Per non parlare poi di Wanda, completamente priva di autostima, che aiuta come può il fratello disabile a soddisfare i propri impellenti bisogni sessuali. In questo miscuglio di differenti sconfitte si articola un’azione corale, una cage aux folles dove le situazioni sfuggono di mano perché non c’è possibilità di riscatto sociale, con una illusione sempre disillusa e dove ogni speranza è destinata alla deriva. Un lavoro ironico e graffiante, ben congegnato per portare avanti una protesta, una ribellione verso qualcuno o qualcosa dai contorni incerti. La troupe segue una drammaturgia perfetta in ogni dettaglio, anche se con qualche eccesso il risultato è decisamente gradevole e spassoso, i dialoghi divertenti e profondi che lasciano vagare il pensiero per portare lo spettatore a interrogarsi: ma tutto questo è vero o semplice finzione? Gabriele Di Luca, uno dei registi nonché attore lui stesso sulla scena, è riuscito a portare questa sua opera dal teatro al cinema realizzando un film di tutto rispetto, senza sacrificare la sostanza dei temi affrontati come quello delle dipendenze e dei disagi mentali. Una produzione Marche Teatro/Carrozzeria Orfeo, nei prossimi giorni al Teatro Vascello di Roma.
data di pubblicazione:17/05/2023
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da Antonio Iraci | Mag 16, 2023
Beau Wessermann abita da solo, terrorizzato da tutti quelli che vivono attorno a lui, in un appartamento fatiscente, sito in un luogo imprecisato ed invaso da criminali di ogni tipo. Un giorno decide di partire per incontrare la madre, verso la quale nutre un devastante rapporto di amore, quasi di morbosa sottomissione. Per una serie di strane circostanze non può più raggiungerla, avrebbero dovuto festeggiare insieme il suo compleanno. Da quel momento inizia la sua odissea attraverso un mondo ostile che lo respinge e che attenta persino alla sua incolumità…
Martin Scorsese, grande ammiratore di Ari Aster che aveva già più volte lodato per i suoi precedenti Hereditary e Midsommar, nel vedere l’ultimo suo attesissimo film ha definito il giovane regista newyorkese “una delle più straordinarie nuove voci nel mondo del cinema”. In effetti non si può che concordare con il grande maestro sull’abilità tecnica che sta dietro a questo film e soprattutto sul linguaggio visionario utilizzato, così unico e coinvolgente che oggi solo pochi sono in grado esprimere con un così alto livello. A differenza dei due lavori precedenti, in cui oltre all’aspetto onirico si era dato più rilievo alla componente horror, in Beau ha paura, protagonista Joaquin Phoenix, si vuole dare risalto alle sensazioni adrenaliniche che il personaggio trasmette, alle sue ansie, alle sue paure verso una madre matrigna e verso un mondo che sembra voler accoglierlo, ma che nella buona sostanza lo respinge, anzi tenta proprio di annientarlo. Difficile ricostruire una trama che possa rientrare in uno spazio temporale ben definito, in un percorso che va dal momento della sua nascita a quello della sua morte, un percorso insidioso pieno di incontri con personaggi al limite della schizofrenia. Beau è destinato a essere un perdente, a lui è precluso anche fare sesso perché ha ereditato dal padre e, prima di lui dal nonno e dal bisnonno, il triste destino di morire al primo rapporto completo con una donna. Questo è solo uno dei tanti misteri che avvolgono la sua vita: una madre troppo presente e un padre troppo assente, morto appunto al momento esatto del suo concepimento. Non è casuale che una scena iniziale riguardi una seduta di psicoterapia in cui si affronta il tema fondamentale del rapporto madre-figlio e della sue nevrosi, facendo da lì scaturire una sorta di ansia soffocante, una avversità cosmica che si riversa sull’infelice protagonista. Un film che esce da qualsiasi schema e che in tre ore riesce a trasmettere allo spettatore irritazione, impotenza, frustrazione. L’interpretazione di Joaquin Phoenix supera quella di Joker, nell’omonimo film per il quale ricevette l’Oscar come migliore attore: anche per questo incredibile ruolo si spera possa ottenere un più che meritato riconoscimento. Gli è dovuto…
data di pubblicazione:16/05/2023
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