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HAPPY END di Michael  Haneke, 2017

HAPPY END di Michael Haneke, 2017

Dopo 5 anni torna a noi il pluripremiato regista Michael Haneke. Suoi successi: Il nastro bianco Palma d’Oro a Cannes 2009, ed Amour Palma d’Oro a Cannes 2012 ed anche Premio Oscar 2013 come miglior film straniero. Con Happy End, il regista ci dipinge, senza falsi pudori, la realtà di una famiglia altoborghese di Calais con tutte le sue perversità, le colpe celate nel profondo, gli egoismi e le centrature sull’apparenza e sull’ipocrisia sociale. La famiglia Laurent, priva di valori e quasi allo sbando, è anche specchio di una Società ormai destinata all’infelicità cui fa da sfondo lontano una Calais, luogo di transito dei tanti migranti in attesa di riuscire a passare in Inghilterra. Sotto l’apparente ed adagiata normalità di imprenditori e professionisti, tutti i Laurent hanno qualcosa di cui vergognarsi.

 

L’anziano patriarca (J.Louis Trintignant) ormai ritiratosi dagli affari, è stanco e deluso della vita e corteggia e desidera la morte; i suoi due figli: Thomas (Mathieu Kassovitz) chirurgo affermato e sposato, in seconde nozze con una giovane donna è centrato su se stesso ed è preso solo dalle sue pulsioni di meschino traditore seriale; Anne (Isabelle Huppert) governa con cinica determinazione ed ambizione l’impresa di famiglia, attenta solo a salvare le apparenze; suo figlio trentenne è imbelle, inetto ed incapace di inserirsi nella direzione degli affari familiari, infine la giovane adolescente Eva (Fantine Harduin), figlia del primo matrimonio di Thomas, che, a seguito dell’ospedalizzazione della madre vittima della depressione, vive ora anche lei nell’opulenta magione  di famiglia.

Happy End è un film sulle relazioni umane, sulla mancanza di affetto, di sentimenti e di emozioni che si ritrova nella realtà in cui noi tutti siamo immersi. E’ una denuncia della solitudine, della difficoltà e del mal di vivere, dell’anaffettività, dell’egoismo e della loro pervasività, al di là di ogni emozione, nella società attuale. E’ un film fedele alle “ossessioni” di Haneke ed alla sua maniera di filmare, in cui il regista ci ripropone i temi a lui cari e che tanto hanno fatto apprezzare i suoi precedenti successi: la morte, la malattia, le ipocrisie, il suicidio, l’aridità delle emozioni, la mancanza di sentimenti e la famiglia.

La storia viene vista con lo sguardo ed i pensieri della ben poco innocente tredicenne Eva, ed è proprio attorno a lei, e tramite lei che si sviluppa la narrazione. La giovane adolescente che vive nel più assoluto disincanto, priva di emozioni, affetti e sentimenti, osserva freddamente, filma e commenta con il proprio cellulare la realtà quotidiana ed il disgregarsi, come in un gioco al massacro, di tutta la famiglia e di tutti i suoi componenti nessuno escluso. Non c’è speranza nel futuro per nessuno, nemmeno per la stessa giovane Eva.

Tornano a recitare, ancora una volta, con Haneke i suoi due attori “feticcio”: la Huppert e  Trintignant, due mostri sacri del cinema francese e colonne portanti dei suoi passati successi ed anche anima di questo suo ultimo film che si impreziosisce veramente della loro sempre attenta ed equilibrata recitazione. Da notare poi l’interessante, brava e giovanissima Harduin che interpreta ottimamente un ruolo non certo facile, oltre a lei anche un buon cast di attori di prima qualità.

Il regista, con la sua direzione, con i suoi abili movimenti di macchina e con riprese dal taglio freddo e chirurgico, incide senza pietà nella carne della famiglia Laurent, quasi un’autopsia dal vivo, di una classe sociale cieca e suicida. Le riprese sono volutamente scarne, particolari, veri brani di ottimo cinema ed ottimo controllo della recitazione, con anche alcuni momenti recitativi e scene  di alta qualità, come il dialogo fra il patriarca e la sua giovanissima nipote, oppure la splendida e commovente inquadratura finale. La maestria di Haneke è fuori discussione e in questo film viene totalmente riconfermata. Ma … ma sono solo sprazzi di splendore affogati in un qualcosa di troppo, un qualcosa che non riesce a librarsi in alto. Questa volta, purtroppo, non ci ritroviamo nel solito meccanismo filmico in cui tutto è perfettamente equilibrato per ritmo e sottigliezza di linguaggio cinematografico cui il regista ci aveva, da tempo, abituati. La sensazione che resta addosso è che il film, a tratti, giri a vuoto o su se stesso, con una tendenza a ripetersi o a dilungarsi in frammenti insignificanti nello sviluppo narrativo.

Il cineasta ha certamente e scientemente inteso tendere un parallelo fra la maniera fredda e controllata della vita della famiglia Laurent e la modalità, misurata e distante, con cui ha voluto riprendere la storia familiare. Lo stile adottato da Haneke è senza concessioni al conformismo e, senza dubbio, la messa in scena è molto meticolosa e rigorosa. Tutto nelle immagini è bello ed elegante, ma scene, spunti e riprese affascinanti e particolari, restano solo belle da vedere e non riescono a smuovere emozioni o sentimenti nello spettatore. Ne risulta quindi freddo ed anestetizzato anche il film stesso che non trova così il necessario scatto di qualità, perché tutto si ferma al solo e mero livello estetico e descrittivo. Il ritmo generale è poi troppo lento con molte scene troppo insistite, con notevoli vuoti narrativi ed inutili virtuosismi e divagazioni prive di intensità. È un po’ poco per un autore del calibro di Haneke e lo spettatore, anche il più ben disposto, ne resta più che disorientato e indispettito.

Dispiace dunque doverlo dire, ma Happy End, contrariamente alle attese ed agli altri film del regista, è decisamente un’opera minore, poco convincente e non perfettamente riuscita, quasi come se, ad un certo punto, Haneke avesse ceduto al vezzo di autocitarsi. Opera minore certo, ma pur sempre un film di un cineasta di alta capacità intellettuale e rappresentativa. Un film d’autore, anche se non agli alti livelli di scrittura ed estetica narrativa cui il regista ci aveva quasi resi certi ad ogni suo nuovo lavoro.

data di pubblicazione:04/12/2017


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MISTERO A CROOKED HOUSE di Gilles Paquet-Brenner, 2017

MISTERO A CROOKED HOUSE di Gilles Paquet-Brenner, 2017

È la prima trasposizione cinematografica di un romanzo del 1949 di Agatha Christie, fra i meno noti, ma fra i più amati dalla scrittrice. La vicenda si svolge in una grande magione di una ricca famiglia nella splendida campagna inglese, nell’immediato secondo dopoguerra. Il ricco capostipite, di origini greche, viene trovato morto, e subito appaiono dubbie le cause della sua improvvisa scomparsa.

La giovane e prediletta nipote Sophia (Stefanie Martini), volendo agire prima che intervenga ufficialmente Scotland Yard, incarica di recarsi nella villa per le indagini, un giovane detective privato Charles Hayward (Max Iron), con il quale lei aveva avuto un breve ma intensa storia d’amore durante un soggiorno a Il Cairo.

La scena si svolge, come è tipico dei romanzi della Christie, tutta all’interno della ricca residenza di campagna. Qui vivono forzatamente, mal sopportandosi, anzi odiandosi “affettuosamente”, ben tre generazioni della famiglia e la giovane seconda moglie del patriarca defunto.

Come al solito tutti sono colpevoli, tutti sono innocenti, tutti si accusano l’un l’altro, tutti attendono il testamento. Gli odi, i rancori, le invidie e le frustrazioni, represse e contenute dalla presenza autoritaria del capo famiglia, una volta scomparso lui esplodono davanti alle prime domande del giovane investigatore.

La storia si intreccia seguendo le varie articolazioni fra i diversi personaggi, e, come da tradizione letteraria, dopo un susseguirsi di eventi, si carica di un’atmosfera sempre più densa di tensione aggravata da piccoli e grandi incidenti. Il mistero che all’inizio sembrava irrisolvibile, si scioglie nel procedere dell’inchiesta ed il meccanismo porta alla rivelazione finale ed al dramma a sorpresa in cui si scarica tutto il meccanismo dell’indagine.

Siamo ovviamente in un film di genere giallo-poliziesco, e, non poteva essere altrimenti vista l’origine letteraria.

Il giovane regista Gilles Paquet-Brenner qui alla sua terza pellicola, dirige abilmente un cast corale di attori perfettamente inseriti nei loro ruoli. Spiccano per collaudata qualità ed esperienza recitativa gli “anziani” Glen Close (la sorella della prima moglie) e Terence Stamp (l’ispettore di S. Yard), entrambi guidano e supportano il resto del cast di attori ancor giovani ma tutti di buona qualità.

Ovviamente perfetta l’ambientazione e l’atmosfera tipicamente british che il regista sa rendere particolarmente suggestiva con un uso originale della camera, delle inquadrature e delle angolature di ripresa. Particolare è anche l’uso dei colori nelle varie riprese con effetti volutamente onirici ed illusori.

Insomma un gradevole film di genere, una buona produzione capace di mantenere fede all’obiettivo principale: tenere alta la tensione fra il pubblico in attesa che fra possibili colpevoli emerga la verità. È però fondamentale, va sottolineato, il notevole contributo al buon risultato finale del film dell’ottima sceneggiatura di Julian Fellowes, premio Oscar nel 2002 per Godsford Park nonché premio Emmy nel 2011 per quella di Downton Abbey.

data di pubblicazione:12/11/2017


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IL MIO GODARD di Michel Hazanavicius, 2017

IL MIO GODARD di Michel Hazanavicius, 2017

Michel Hazanavicius, poliedrico e talentuoso regista e sceneggiatore, dopo i premi vinti a Cannes nel 2011 ed i cinque Oscar nel 2012 per The Artist, torna nuovamente sugli schermi con Il mio Godard. Il film già dal titolo potrebbe sembrare uno di quei prodotti di genere che gli Americani definirebbero come biopic, ma non è affatto così: è qualche cosa di ben più raffinato, che potremmo definire un falso biopic, o meglio, una sottile ed impertinente commedia, venata di ironia, charme e humour intelligente tipico del miglior Hazanavicius.

Il mio Godard è un perfetto equilibrio fra omaggio e delicata desacralizzazione dell’icona Godard, il maestro principe della Nouvelle Vague, regista politicamente arrabbiato ed impegnato; contemporaneamente, è anche una frizzante ed ironica sottolineatura dei difetti e contraddizioni del Godard uomo con tutte le sue caratteristiche ed egocentriche debolezze, ispirato alle vicende reali riportate nel libro autobiografico della ex moglie nonché musa del regista. Un sapiente collage di momenti seri e faceti della sua vita, un ritratto sia aspro, sia affettuoso.

Siamo a Parigi nel biennio 1967-1968, Godard (interpretato dal talentuoso Louis Garrel) sta girando La Chinoise con protagonista l’amore e musa del momento: Anne Wiaremsky (la brava e delicata Stacy Martin). Sono entrambi felici, lei ha quasi 20 anni, lui 37, sono innamorati, seducenti e sedotti, l’uno della bellezza e dolcezza di lei, l’altra del fascino intellettuale del regista e dell’uomo. Si amano, convivono, e si sposano. Il film però, alla sua uscita è un fiasco totale, sia di critica, sia di pubblico. La dura realtà, l’imprevisto insuccesso, mettono in crisi profonda il regista.Da un punto di vista artistico Godard pone in dubbio le proprie capacità ideative, realizzative e tutto il senso ed il valore delle opere prodotte fino a quel momento.

Da un punto di vista privato, le sue incertezze e, contemporaneamente il suo ego smisurato e narcisistico, incrinano nel profondo la sostanza del suo rapporto affettivo con la moglie, compagna, musa ed attrice.

Con l’esplosione poi del Maggio Francese nel 1968, con tutte le sue esasperazioni rivoluzionarie, culturali, sociali ed artistiche, Godard, ormai in piena crisi, si trasforma profondamente da artista innovativo di avanguardia in un regista con forte connotazione politica estremistica, rivoluzionaria e “maoista”. Ormai si è posto fuori e contro tutto il sistema artistico e politico, è ormai un militante ed attivista tanto incompreso quanto incomprensibile ai suoi stessi amici, ai colleghi, ai collettivi studenteschi ed al pubblico.

Hazanavicius ci restituisce con tenerezza ed un sotterranea malinconia, in ogni più minimo dettaglio, anche con un voluto uso del technicolor per meglio renderci i colori netti del cinema di quegli anni, l’epoca, i luoghi e le atmosfere di quelle settimane esaltanti di Parigi.

Guarda, con tutta la tenerezza di chi, 50’anni dopo, sa come sono andate le cose, i sogni rivoluzionari, le affermazioni contro la Società, il mito del maoismo egalitario e salvifico per cui Godard lotta e sogna.

Il film procede con un ritmo leggero, quasi senza prendersi troppo sul serio, quasi ammiccando allo spettatore. E proprio questa ricercata leggerezza narrativa, tra l’insolente e l’affettuoso, tra il divertito ed il divertente è la vera chiave narrativa con cui si deve leggere tutta l’opera. Pellicola intelligente, frizzante che ci fa pensare che un film d’Autore può e, non deve aver vergogna di essere, anche un gradevole divertimento.

data di pubblicazione:12/11/2017


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WHO WE ARE NOW di Matthew Newton, 2017 – Selezione Ufficiale

WHO WE ARE NOW di Matthew Newton, 2017 – Selezione Ufficiale

(12^ FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 26 ottobre/5 novembre 2017)

Beth (Julianne Nicholson) è uscita anticipatamente di prigione per buona condotta, dopo aver scontato una pena di 10 anni per omicidio colposo causato durante una rapina. Il suo unico pensiero è cercare di riavere o, almeno, poter vedere liberamente il suo bambino che, dato in custodia alla sorella ed al cognato subito dopo la nascita, oramai la crede sua zia perché gli è sempre stata nascosta la verità. La sorella si oppone però con assoluta fermezza e freddezza anche ad una custodia parziale o a qualsiasi altra concessione a favore delle richieste della vera mamma.

Beth non può accettare di rinunciare al suo unico sogno e, quindi, con ogni mezzo cerca di trovare un lavoro stabile per riuscire a reintegrarsi nella Società. Affronta con coraggio e determinazione gli ostacoli, i pregiudizi e le umilianti prevaricazioni di chi non ha scrupoli ad approfittarsi del suo stato di bisogno. L’incontro con una giovane e determinata avvocatessa, idealisticamente impegnata in uno studio legale che assiste gratuitamente le persone prive di mezzi economici, ridà vita alle sue speranze e la determinazione ad usare ogni mezzo per ottenere, per vie legali, la possibilità di vedere il figlio. Contemporaneamente, la solitudine di Beth ed il muro dietro cui  difende sé ed i propri sentimenti, sembrano cautamente aprirsi, dopo un primo incontro occasionale, ad un rapporto sentimentale vero.

Who we are now, già presentato al Festival di Toronto, come film indipendente, è il quinto film del giovane autore e regista australiano Matthew Newton. Con quest’opera il regista intendeva evidenziare l’impegno e la possibilità degli individui qualsiasi, delle persone normali, di ritrovare la fiducia in se stessi e nella società, e di riuscire a recuperare gli errori commessi cominciando a credere in un nuovo possibile futuro. Intenzioni e risultati non riescono però a coincidere del tutto. Nel film si incrociano infatti troppe storie appena accennate o non adeguatamente sviluppate ed integrate fra loro, facendo così perdere in parte valenza e spessore comunicativo alle intenzioni del regista.

Il risultato finale è comunque un film di genere che si lascia certamente vedere, anche se a tratti il ritmo diviene discontinuo e scontato.

La protagonista, la graziosa Julianne Nicholson,(presente al Festival anche fra le interpreti di I, Tonya), qui alla seconda collaborazione con il regista, è indubbiamente attrice con ampia e positiva esperienza maturata in Laws & Orders ed in altre serie televisive di successo. Ha una bella maschera espressiva che fa ben intendere tutto il suo disagio e dolore interiore, ed è coadiuvata da un bel gruppo di altri professionisti, fra cui emerge Emma Roberts nel ruolo della giovane avvocatessa. Le loro buone prestazioni compensano le giovanili incertezze dello script e del regista.

data di pubblicazione:03/10/2017







WHO WE ARE NOW di Matthew Newton, 2017 – Selezione Ufficiale

THE ONLY LIVING BOY IN NEW YORK di Marc Webb, 2017 – Selezione Ufficiale

(12^ FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 26 ottobre/5 novembre 2017)

 The only living boy in New York di Marc Webb, talentuoso regista degli ultimi due Spiderman, prende il titolo da una canzone di Simon e Garfunkel che, con altre di Bob Dylan, fanno da splendida colonna sonora alla storia del giovane Thomas, interpretato dal promettente Calum Turner. Thomas, di ottima famiglia della Upper Class di New York, ha appena terminato gli studi e non sa ancora cosa fare della sua vita affettiva e professionale. La sua rettitudine lo fa però considerare dalla ragazza, con la quale pur avendo passato una splendida notte d’amore, solo come un ottimo amico con cui condividere soltanto platonicamente ogni tipo di comuni interessi.

 

Frastornato ed in crisi di prospettive, il giovanotto incontra casualmente un tipo misterioso, fascinoso e semialcolizzato. E’ il suo nuovo vicino di casa (Jeff Bridges) nel Lower Side di New York dove ha deciso di vivere lontano dai benestanti genitori. Lo sconosciuto, grazie al suo carisma ed al suo fare diretto, diviene ben presto il maestro di vita di Thomas e lo aiuta e consiglia soprattutto quando costui scopre casualmente che il padre (Pierce Brosnan), editore di successo, ha una relazione con la giovane ed affascinante Johanna  (la splendida Kate Beckinsale). Il mondo di Thomas crolla e, preoccupato per le reazioni che la madre, già emozionalmente fragile, potrebbe avere, decide di cercare di interrompere la storia entrando in contatto con la giovane donna. Coinvolto dalle circostanze o, forse, desideroso anche di rivalersi sul padre da cui non si è mai sentito amato ed apprezzato, anche lui finisce fra le braccia della bella ed intelligente Johanna.

Da questo punto in poi si mette in moto una concatenazione di eventi che cambieranno e sconvolgeranno, non necessariamente in negativo, la vita stessa di Thomas ed anche delle persone da lui amate e non. Il film si presenta quindi come un insolito triangolo amoroso inserito in una commedia garbata di gusto romantico, patinata, ben confezionata e ben recitata da interpreti di sicuro spessore. Di sfondo, un’accattivante, rarefatta e splendida New York, mai così affascinante dai tempi di W. Allen.

La pellicola di Marc Webb è poi anche un triangolo fra ideali romantici, intellettualismo “newyorkese” e realtà; ma è soprattutto un film sugli errori, le indecisioni che l’amore vissuto o non completamente, rifiutato o condiviso, idealizzato o nostalgico, può causare a noi stessi ed agli altri.

Purtroppo il gusto tutto americano di non voler lasciare i finali aperti, ma volere, al contrario, sistemare al giusto posto tutti i personaggi della commedia e riannodarne correttamente i fili delle loro vite, impone al film un Happy End non necessario e troppo sdolcinato, rappresenta una caduta di tono che allontana i personaggi da un loro spessore reale ed indebolisce la qualità del film.

Gli americani però sanno perfettamente che il grande pubblico ed il “botteghino” amano le belle storie in cui tutti “vissero felici e contenti”.

data di pubblicazione:01/11/2017