LA RUOTA DELLE MERAVIGLIE di Woody Allen, 2017

LA RUOTA DELLE MERAVIGLIE di Woody Allen, 2017

Siamo nel cuore degli anni 50, nel favoloso parco dei divertimenti di Coney Island, fuori New York. Incrociamo, introdotti da una voce narrante, le vicende esistenziali di quattro personaggi, i loro sogni, le aspirazioni, le delusioni ed anche un improbabile triangolo amoroso. Gunny (l’ottima Kate Winslet) è una donna non più giovane, mancata attrice, ossessionata da un passato di speranze artistiche svanite. E’ una sognatrice, un po’ lunatica che si trova ora a fare la cameriera in un locale sul Broad Walk, il pontile di legno sul lungomare del Parco. Piuttosto che accettare la triste realtà quotidiana, si racconta che sta recitando il ruolo di cameriera. E’ sposata, non molto felicemente, con il direttore di una giostra, Humpty (Jim Belushi) la cui figlia del precedente matrimonio, Carolina (Juno Temple), emerge all’improvviso dal buio, ove era scomparsa da anni, per  ritrovare il padre e rifugiarsi a casa sua  per sfuggire dei gangster che sono sulle sue tracce. Infine Mickey (Justin Timberlake), seducente bagnino, studente alla N. Y. University che aspira a divenire un drammaturgo. Mickey che è la voce narrante degli avvenimenti, attraversa la vita di Gunny e, nonostante la differenza di età, le riaccende desideri e passione per la vita per poi però abbandonarla nella sua depressione, preferendole la giovane e vivace Carolina, anche lei sedotta dal suo “allure” di scrittore.

Puntuale come il succedersi delle Stagioni, ogni anno arriva un nuovo Woody Allen. Con La ruota delle meraviglie il troppo prolifico regista lasciate definitivamente le sue non sempre felici “escursioni” fra le città europee, questa volta ci riporta nella sua New York, negli anni e nei luoghi delle sue nostalgie. I luoghi ove il suo alter ego, la voce narrante del mitico Io ed Annie, diceva di essere nato e cresciuto proprio sotto la ruota girevole del Parco dei Divertimenti.

Kate Winslet vive infatti in un appartamento le cui finestre prospettano direttamente sul Parco e  sulla Ruota delle Meraviglie (ricreata con ottimi effetti speciali) che le riduce la vista sull’Oceano ma le illumina le stanze di casa con le sue luci blu e rosso, nello sfondo di magnifici tramonti. Sia ben chiaro, siamo molto, molto lontani da Io ed Annie e da altri capolavori NewYorkesi di W. Allen. Il regista ha 82 anni, si sentono tutti, ed il film è pervaso di una profonda tristezza esistenziale come mai prima d’ora. Il film inoltre ha un’impostazione molto teatrale, i dialoghi sono sovrascritti e freddamente letterari. L’azione e le vicende si incrociano come su un palcoscenico e l’interpretazione degli attori è molto manierata. La pellicola è ambientata negli anni 50, ma la recitazione è come in un film degli anni 40 e fa il verso alle atmosfere dei drammi teatrali di O’ Neil, o ancor più di T. Williams. Il personaggio di Gunny, interpretato magistralmente da K. Winslet è infatti pensato per farla quasi sembrare un nuova Blanche Dubois, l’eroina di Un Tram che si chiama Desiderio di Williams.

Quel che però rende particolare il film è la collaborazione di Allen con Vittorio Storaro. Siamo qui alla seconda collaborazione dopo Cafè Society, fra il regista americano ed il “nostro” direttore della fotografia, vincitore di ben tre Oscar. Oserei quasi dire che il film dovrebbe essere a doppia firma.

Storaro inquadra Coney Island volutamente con colori caldi e densi che rimandano scientemente ai film in Technicolor di quegli anni. I colori stessi sono poi una chiave di lettura del susseguirsi degli stati d’animo dei personaggi e sottolineano ancor più l’atmosfera di finzione, di distanza, per l’appunto quasi teatrale, fra la storia filmata ed il mondo reale.

Le inquadrature ed i set, le location ed i livelli cromatici sono , su dichiarazioni dello stesso Storaro, ispirati ai dipinti e ai colori di Norman Rockwel.

Oltre alla fotografia, punto centrale del film è la performance eccezionalmente vera ed appassionata di K Winslet che ci offre tutta la sua fisicità corporea ed è bravissima, senza cadere nei clichè , nel dar vita ad una donna tormentata, intrappolata nei sogni, che spera ancora di crearsi un diverso destino, un personaggio che ama, soffre, tenta di liberarsi, ma non trova una via di uscita. E’ condannata, il Fato gioca crudelmente la sua partita e vince ancora una volta. Memorabile l’interpretazione della Winslet nella scena del monologo, accompagnato da un crescendo di primi e primissimi piani del suo volto illuminato dalla luce della luna e dai riflessi dell’Oceano. Inevitabile il confronto fra la Winslet e la Cate Blanchett di Blue Jasmine che ci dava, a sua volta, un’altrettanta splendida e premiata “versione elegante” di Blanche Dubois. Gli altri attori, fra cui emerge la forte recitazione di J. Belushi, danno del loro meglio con diversi livelli di espressione e qualità anche se costretti  in ruoli molto caratterizzati.

I film però non diventano grandi per associazione. Non bastano un’ottima e coinvolgente fotografia ed una eccezionale interpretazione attoriale a rendere grande La Ruota delle Meraviglie, né tantomeno un possibile Oscar per la migliore attrice può rendere indimenticabile un film.

Allen sembra provare a ricatturare la magia creativa di Blue Jasmine ma ne siamo molto lontani ed il risultato non ha lo spessore e la verve creativa necessari, nonostante qualche lampo di bravura. Non siamo certo davanti ad uno dei migliori prodotti della sua filmografia.

Come la ruota delle meraviglie  anche la prolifica produzione di Allen gira e rigira, a volte su e a volte giù. Alcune volte il giro è più bello degli altri, altre volte invece gira un po’ su se stesso. Questa volta il regista non è certo al massimo ed il film si salva appena dal poter essere scordato.  Ma … nessuna paura, nel 2018/19 è già previsto un suo nuovo film con Jude Law. Avanti con un nuovo giro di ruota!

data di pubblicazione:24/12/2017


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50 PRIMAVERE di Blandine Lenoir, 2017

50 PRIMAVERE di Blandine Lenoir, 2017

È un grazioso ritratto, a tratti ironico, a tratti commovente e sensibile di Aurore ( Agnès Jaouì ), una cinquantenne che vive in una cittadina vicino a Bordeaux ed è in piena crisi ormonale, professionale e sentimentale. Il marito l’ha lasciata da tempo per una più giovane, ha appena perso il lavoro, si deve confrontare con le figlie ormai uscite di casa, e, con il prossimo ruolo di nonna. Tutto sembra insomma, spingerla, con grazia ma inesorabilmente verso “l’uscita“, ed a farla divenire una “donna invisibile” fuori dalla Società attiva. Aurore è però una donna moderna, positiva che riesce a reagire e decide di non accettare passivamente il percorso in discesa cui tutto sembra destinarla.

 

Blandine Lenoir, regista ed anche sceneggiatrice, qui al suo secondo lungometraggio, torna con 50 Primavere (sarebbe stato meglio lasciare il titolo originale: Aurore) ad un tema a lei caro, quello dei rapporti e del ruolo femminile nella Società. Tratteggia infatti, con delicatezza ed uno sguardo tenero, divertito e divertente, uno squarcio di vita di una bella figura di donna, ricca di personalità e sentimenti, che affronta le nuove circostanze con umiltà, ironia e  positività. Aurore riesce a cogliere attorno a sé i motivi e gli obiettivi per cui ritrovare la speranza di una vita più dolce e la capacità di rinnovare gli slanci giovanili ed affettivi, ridisegnandosi un diverso ruolo, perché la vita continua e può essere altrettanto bella nonostante l’età che avanza.

È ottima complice della regista la brava Agnès Jaouì che, in un momento in cui tutte le “eroine” dei film sono oggi solo giovani e belle, oppure solo anziane e sagge, affronta con coraggio il ruolo della cinquantenne protagonista. L’attrice ci dipinge infatti, con sensibilità, con charme e con la sua bellezza ancora seducente di donna matura, questo bel ritratto femminile, dimostrandosi  veramente a suo agio nel personaggio, e confermandoci, con la sua capacità e passione interpretativa, tutto il suo intenso talento. Se la Jaouì è l’indubbia colonna portante del film, attorno a lei gravita, nei vari ruoli secondari, anche un bel gruppo di attrici ed attori, ben noti agli spettatori francesi, tutti perfettamente calibrati e brillanti.

Una buona sceneggiatura ed un montaggio sapiente e rapido danno poi al film un ritmo brioso, diretto dall’autrice e regista con mano attenta e non convenzionale capace di governare il susseguirsi di situazioni, personaggi e dialoghi brillanti, senza soffermarcisi un secondo più del dovuto, evitando con abilità di cadere al semplice livello di sketches o di banali clichès. 50 Primavere è una piccola commedia, molto francese, ben riuscita, romantica, tenera e buffa, con un tocco leggero a tratti anche dolce-amaro perché appena, appena  velato da una sottile sensazione di nostalgia o rammarico per le opportunità che il tempo e le circostanze si sono portate via.

Anche se il film è stato scritto, diretto ed interpretato con grande complicità, abilità ed intensità tutta al femminile, non è  però un film che si rivolge esclusivamente ad un pubblico di donne, tutt’altro, perché anche il pubblico maschile può apprezzare ed essere coinvolto in questa  cronaca tenera e dolce di un momento chiave della vita di tutti.

Dunque un bel film “generazionale”, non certo per adolescenti, che scivola via con garbo e humour, complice una colonna sonora che passa ironicamente dal classico al moderno senza fratture. Un gioiellino con il gradevole e leggero sapore dei buoni piccoli film d’autore e, nel contempo, quella piacevole sensazione di assistere ad uno spettacolo già tante volte apprezzato e purtuttavia ancora pienamente apprezzabile.

data di pubblicazione:20/12/2017


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STAR WARS – GLI ULTIMI JEDI di Rian Johnson, 2017

STAR WARS – GLI ULTIMI JEDI di Rian Johnson, 2017

Due anni dopo il Ritorno della Forza di J.Abrams, ecco oggi il regista Rian Johnson con Gli Ultimi Jedi riprendere la narrazione della Saga di Guerre Stellari. Siamo arrivati ormai all’ottavo episodio del Ciclo ed al secondo di quella che è stata già preannunciata come una terza Trilogia, quella del “Sequel”. Gli Ultimi Jedi, riparte esattamente da dove ci aveva lasciati il precedente film. La giovane Rey (Daisy Ridley) è partita alla ricerca delle sue origini e della Forza, sulle tracce dell’ultimo dei Jedi, Luke Skywalker (Mark Hamill). Lo ritrova in un’isola deserta di uno sperduto pianeta dove si era autoesiliato, deluso di sé e del mondo. Non senza contrasti gli chiede di insegnarle a trovare e governare la Forza e di tornare a sostenere la Resistenza che sta cedendo all’ormai straripante offensiva del Primo Ordine. Nel frattempo, nell’ultimo incrociatore spaziale rimasto, la principessa Leila Organa ( l’indimenticabile Carrie Fisher) e le  poche truppe ribelli superstiti, sono sotto l’attacco dell’armata del Primo Ordine guidata da Snoke (Andy Serker) e da Kylo Ben (Adam Driver),  quest’ultimo sempre più tormentato interiormente fra il Bene ed il Male, fra Luce e Oscurità. Le forze della Resistenza prossime ormai a soccombere definitivamente, cercano di salvare il salvabile con audaci ed irruente azioni ed iniziative del giovane pilota Poe (Oscar Isaac) e dell’ex assaltatore Finn (John Boyega).

 

Da quel Maggio 1977 quando usciva sugli schermi Star Wars di G. Lucas, sono passati quaranta anni. Quattro generazioni di spettatori si sono succedute ammirando e godendo la Saga di Guerre  Stellari. Cosa sarebbe la Saga se anche le generazioni di eroi e personaggi che ci hanno accompagnato finora non si avviassero a passare il testimone a nuovi eroi e nuovi personaggi? Scritto e diretto dal giovane e talentuoso regista R. Johnson (autore di Looper nel 2012), Gli Ultimi Jedi introduce nell’universo di Star Wars la domanda:”Si deve restare nell’ombra dorata del Passato, o, usare questo Passato per evolversi?” La Saga deve restare nel Passato o evolversi? Se i Miti e gli Eroi sono alla base dell’Universo Spaziale, questi stessi Miti e Leggende sono, per la prima volta, messi al centro di questo ottavo episodio. Nel film infatti si confrontano i vecchi personaggi, divenuti ormai Eroi, Miti e Leggende viventi, con i nuovi giovani protagonisti, creando e rinnovando così le basi per una nuova Mitologia che guarda verso il Futuro, mantenendo però tutta intatta la fascinazione della precedente. Il regista fa infatti una specie di inventario della Saga, umanizza le glorie e le storie dei personaggi leggendari del Passato, esplora i loro segreti, i loro errori ed i loro dubbi. Questo tuffo nell’umanità dei vecchi eroi, rende agevole il passaggio del potere dalla generazione dei protagonisti che si sono succeduti dal 1977, a quella dei nuovi, di oggi e delle prossime Trilogie che già si intravvedono, e, non ultimo, delle nuove generazioni di spettatori. Un Futuro in cui, fra personaggi liberi dei pesi del passato, si preannunciano anche varie protagoniste femminili in ruoli di sicuro sviluppo e spessore per l’intrepidità ed energia delle eroine.

L’inizio de Gli Ultimi Jedi è folgorante. Immediato e subito coinvolgente fin dalle primissime immagini, proietta inaspettatamente lo spettatore in una battaglia spaziale ed in un susseguirsi di immagini mozzafiato. Johnson, che nella pur breve carriera si è già dimostrato un abile esteta dell’immagine, conferma in questo film la sua capacità di miscelare con equilibrio riprese reali con effetti speciali sempre più stupefacenti, di giocare con un’inventiva senza fine sapendo, con raffinatezza e gusto, inserire alcuni effetti retrò in certe scene, divertendosi anche a citare, per la gioia dei fans, grandi momenti dei film precedenti. Non mancano poi virtuosismi che faranno storia, come la velocità della luce delle astronavi, e, soprattutto, il “quadro” della battaglia sul deserto di sale che lascia scie di rosso sangue. Tecnicamente il regista gioca, come da suo stile, con riprese dal basso, inquadrature marcate, moltitudine di primi e primissimi piani tutti funzionali alla narrazione ed ai personaggi. La messa in scena è del tutto innovativa, si vedano per esempio i campi ed i controcampi separati da milioni di km.

Colonna portante del film sono le performances dei “vecchi” M. Hamil e C. Fisher, deceduta al termine delle sue riprese. Attorno a loro, il forse eccessivo stuolo di giovani futuri protagonisti fra cui emergono per intensità recitativa D. Ridley e A. Driver.  In due incisivi camei ammiriamo anche Laura Dern e Benicio del Toro, con la speranza di poterli rivedere anche nelle prossime puntate. Dunque, sicuramente un film bello, toccante e divertente, un grande spettacolo, probabilmente uno fra i migliori del Ciclo, dopo ovviamente, quelli della trilogia iniziale. Gli unici difetti possono essere trovati nella prima mezz’ora in cui il regista appare ancora incerto sul giusto approccio ed anche in alcuni eccessi di umorismo che, pur nella tradizione, non appaiono ancora ben controllati. La complessità della vicenda impone poi l’avvio di due trame narrative parallele, quasi due film, che si muovono però con scarti di tonalità e ritmo che sembrano inizialmente rallentare e destabilizzare l’equilibrio centrale del film. Difetti tutti che ben presto il regista riesce a ricomporre magistralmente definendo il giusto ritmo, affermando così la sua bravura e la vitalità della sua direzione. Johnson firma un vero film autoriale ed esce a testa alta dalla sfida con il Mito della Saga evitando di esserne schiacciato, dandole, al contrario, nuova energia e futuro. Le due ore e mezza di spettacolo intenso ed appassionato scorrono in un attimo, lasciando lo spettatore, da una parte, rammaricato che la storia sia già terminata e, dall’altra, già in attesa del prossimo appuntamento nel 2019.

data di pubblicazione:16/12/2017


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HAPPY END di Michael  Haneke, 2017

HAPPY END di Michael Haneke, 2017

Dopo 5 anni torna a noi il pluripremiato regista Michael Haneke. Suoi successi: Il nastro bianco Palma d’Oro a Cannes 2009, ed Amour Palma d’Oro a Cannes 2012 ed anche Premio Oscar 2013 come miglior film straniero. Con Happy End, il regista ci dipinge, senza falsi pudori, la realtà di una famiglia altoborghese di Calais con tutte le sue perversità, le colpe celate nel profondo, gli egoismi e le centrature sull’apparenza e sull’ipocrisia sociale. La famiglia Laurent, priva di valori e quasi allo sbando, è anche specchio di una Società ormai destinata all’infelicità cui fa da sfondo lontano una Calais, luogo di transito dei tanti migranti in attesa di riuscire a passare in Inghilterra. Sotto l’apparente ed adagiata normalità di imprenditori e professionisti, tutti i Laurent hanno qualcosa di cui vergognarsi.

 

L’anziano patriarca (J.Louis Trintignant) ormai ritiratosi dagli affari, è stanco e deluso della vita e corteggia e desidera la morte; i suoi due figli: Thomas (Mathieu Kassovitz) chirurgo affermato e sposato, in seconde nozze con una giovane donna è centrato su se stesso ed è preso solo dalle sue pulsioni di meschino traditore seriale; Anne (Isabelle Huppert) governa con cinica determinazione ed ambizione l’impresa di famiglia, attenta solo a salvare le apparenze; suo figlio trentenne è imbelle, inetto ed incapace di inserirsi nella direzione degli affari familiari, infine la giovane adolescente Eva (Fantine Harduin), figlia del primo matrimonio di Thomas, che, a seguito dell’ospedalizzazione della madre vittima della depressione, vive ora anche lei nell’opulenta magione  di famiglia.

Happy End è un film sulle relazioni umane, sulla mancanza di affetto, di sentimenti e di emozioni che si ritrova nella realtà in cui noi tutti siamo immersi. E’ una denuncia della solitudine, della difficoltà e del mal di vivere, dell’anaffettività, dell’egoismo e della loro pervasività, al di là di ogni emozione, nella società attuale. E’ un film fedele alle “ossessioni” di Haneke ed alla sua maniera di filmare, in cui il regista ci ripropone i temi a lui cari e che tanto hanno fatto apprezzare i suoi precedenti successi: la morte, la malattia, le ipocrisie, il suicidio, l’aridità delle emozioni, la mancanza di sentimenti e la famiglia.

La storia viene vista con lo sguardo ed i pensieri della ben poco innocente tredicenne Eva, ed è proprio attorno a lei, e tramite lei che si sviluppa la narrazione. La giovane adolescente che vive nel più assoluto disincanto, priva di emozioni, affetti e sentimenti, osserva freddamente, filma e commenta con il proprio cellulare la realtà quotidiana ed il disgregarsi, come in un gioco al massacro, di tutta la famiglia e di tutti i suoi componenti nessuno escluso. Non c’è speranza nel futuro per nessuno, nemmeno per la stessa giovane Eva.

Tornano a recitare, ancora una volta, con Haneke i suoi due attori “feticcio”: la Huppert e  Trintignant, due mostri sacri del cinema francese e colonne portanti dei suoi passati successi ed anche anima di questo suo ultimo film che si impreziosisce veramente della loro sempre attenta ed equilibrata recitazione. Da notare poi l’interessante, brava e giovanissima Harduin che interpreta ottimamente un ruolo non certo facile, oltre a lei anche un buon cast di attori di prima qualità.

Il regista, con la sua direzione, con i suoi abili movimenti di macchina e con riprese dal taglio freddo e chirurgico, incide senza pietà nella carne della famiglia Laurent, quasi un’autopsia dal vivo, di una classe sociale cieca e suicida. Le riprese sono volutamente scarne, particolari, veri brani di ottimo cinema ed ottimo controllo della recitazione, con anche alcuni momenti recitativi e scene  di alta qualità, come il dialogo fra il patriarca e la sua giovanissima nipote, oppure la splendida e commovente inquadratura finale. La maestria di Haneke è fuori discussione e in questo film viene totalmente riconfermata. Ma … ma sono solo sprazzi di splendore affogati in un qualcosa di troppo, un qualcosa che non riesce a librarsi in alto. Questa volta, purtroppo, non ci ritroviamo nel solito meccanismo filmico in cui tutto è perfettamente equilibrato per ritmo e sottigliezza di linguaggio cinematografico cui il regista ci aveva, da tempo, abituati. La sensazione che resta addosso è che il film, a tratti, giri a vuoto o su se stesso, con una tendenza a ripetersi o a dilungarsi in frammenti insignificanti nello sviluppo narrativo.

Il cineasta ha certamente e scientemente inteso tendere un parallelo fra la maniera fredda e controllata della vita della famiglia Laurent e la modalità, misurata e distante, con cui ha voluto riprendere la storia familiare. Lo stile adottato da Haneke è senza concessioni al conformismo e, senza dubbio, la messa in scena è molto meticolosa e rigorosa. Tutto nelle immagini è bello ed elegante, ma scene, spunti e riprese affascinanti e particolari, restano solo belle da vedere e non riescono a smuovere emozioni o sentimenti nello spettatore. Ne risulta quindi freddo ed anestetizzato anche il film stesso che non trova così il necessario scatto di qualità, perché tutto si ferma al solo e mero livello estetico e descrittivo. Il ritmo generale è poi troppo lento con molte scene troppo insistite, con notevoli vuoti narrativi ed inutili virtuosismi e divagazioni prive di intensità. È un po’ poco per un autore del calibro di Haneke e lo spettatore, anche il più ben disposto, ne resta più che disorientato e indispettito.

Dispiace dunque doverlo dire, ma Happy End, contrariamente alle attese ed agli altri film del regista, è decisamente un’opera minore, poco convincente e non perfettamente riuscita, quasi come se, ad un certo punto, Haneke avesse ceduto al vezzo di autocitarsi. Opera minore certo, ma pur sempre un film di un cineasta di alta capacità intellettuale e rappresentativa. Un film d’autore, anche se non agli alti livelli di scrittura ed estetica narrativa cui il regista ci aveva quasi resi certi ad ogni suo nuovo lavoro.

data di pubblicazione:04/12/2017


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MISTERO A CROOKED HOUSE di Gilles Paquet-Brenner, 2017

MISTERO A CROOKED HOUSE di Gilles Paquet-Brenner, 2017

È la prima trasposizione cinematografica di un romanzo del 1949 di Agatha Christie, fra i meno noti, ma fra i più amati dalla scrittrice. La vicenda si svolge in una grande magione di una ricca famiglia nella splendida campagna inglese, nell’immediato secondo dopoguerra. Il ricco capostipite, di origini greche, viene trovato morto, e subito appaiono dubbie le cause della sua improvvisa scomparsa.

La giovane e prediletta nipote Sophia (Stefanie Martini), volendo agire prima che intervenga ufficialmente Scotland Yard, incarica di recarsi nella villa per le indagini, un giovane detective privato Charles Hayward (Max Iron), con il quale lei aveva avuto un breve ma intensa storia d’amore durante un soggiorno a Il Cairo.

La scena si svolge, come è tipico dei romanzi della Christie, tutta all’interno della ricca residenza di campagna. Qui vivono forzatamente, mal sopportandosi, anzi odiandosi “affettuosamente”, ben tre generazioni della famiglia e la giovane seconda moglie del patriarca defunto.

Come al solito tutti sono colpevoli, tutti sono innocenti, tutti si accusano l’un l’altro, tutti attendono il testamento. Gli odi, i rancori, le invidie e le frustrazioni, represse e contenute dalla presenza autoritaria del capo famiglia, una volta scomparso lui esplodono davanti alle prime domande del giovane investigatore.

La storia si intreccia seguendo le varie articolazioni fra i diversi personaggi, e, come da tradizione letteraria, dopo un susseguirsi di eventi, si carica di un’atmosfera sempre più densa di tensione aggravata da piccoli e grandi incidenti. Il mistero che all’inizio sembrava irrisolvibile, si scioglie nel procedere dell’inchiesta ed il meccanismo porta alla rivelazione finale ed al dramma a sorpresa in cui si scarica tutto il meccanismo dell’indagine.

Siamo ovviamente in un film di genere giallo-poliziesco, e, non poteva essere altrimenti vista l’origine letteraria.

Il giovane regista Gilles Paquet-Brenner qui alla sua terza pellicola, dirige abilmente un cast corale di attori perfettamente inseriti nei loro ruoli. Spiccano per collaudata qualità ed esperienza recitativa gli “anziani” Glen Close (la sorella della prima moglie) e Terence Stamp (l’ispettore di S. Yard), entrambi guidano e supportano il resto del cast di attori ancor giovani ma tutti di buona qualità.

Ovviamente perfetta l’ambientazione e l’atmosfera tipicamente british che il regista sa rendere particolarmente suggestiva con un uso originale della camera, delle inquadrature e delle angolature di ripresa. Particolare è anche l’uso dei colori nelle varie riprese con effetti volutamente onirici ed illusori.

Insomma un gradevole film di genere, una buona produzione capace di mantenere fede all’obiettivo principale: tenere alta la tensione fra il pubblico in attesa che fra possibili colpevoli emerga la verità. È però fondamentale, va sottolineato, il notevole contributo al buon risultato finale del film dell’ottima sceneggiatura di Julian Fellowes, premio Oscar nel 2002 per Godsford Park nonché premio Emmy nel 2011 per quella di Downton Abbey.

data di pubblicazione:12/11/2017


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