da Antonio Jacolina | Feb 2, 2018
C’era una volta Tutti gli uomini del Presidente di A. Pakula (1976), centrato sull’affare del Watergate, oggi invece abbiamo il magistrale The Post centrato sulla pubblicazione dei cosiddetti Pentagon Papers, un fatto che rivoluzionerà, per sempre, i rapporti fra Potere Politico e Libera Stampa e che prefigura già quel che da lì a pochi anni il giornalismo investigativo realizzerà con la scoperta, per l’appunto, dello scandalo del Watergate.
Con questo suo 31° film Spielberg realizza anche il suo primo lavoro sul cosiddetto Quarto Potere, muovendosi con maestria in uno dei tradizionali filoni del cinema americano. Un genere in cui si intrecciano fra loro la denuncia contro gli abusi del Potere ed il ruolo della Stampa. In filigrana The Post può anche essere letto come una risposta, fatta con stile e vigore, agli attacchi di Trump ai Giornali Americani, di cui invece Spielberg intende metaforicamente sottolineare la forza e la capacità di resistere alle pressioni politiche.
Siamo agli inizi degli anni ’70, il Washington Post è ancora un giornale di secondaria importanza rispetto a colossi come il New York Times, suo principale concorrente. Katharine Graham (Maryl Streep) figlia del ricco fondatore del quotidiano, fra lo scetticismo generale, ne diviene editrice/direttrice prendendo il posto che era stato del marito appena morto. Direttore/capo redattore effettivo è invece Ben Bradley (Tom Hanks). Il giornale viene in possesso di documenti segretissimi: i Pentagon Papers, che comprovano tutte le implicazioni degli Stati Uniti nel Sud Est Asiatico e che la Casa Bianca, mentendo ai propri concittadini, ha sempre saputo che la guerra in Vietnam non ha mai avuto alcuna possibilità di essere vinta. Il dilemma morale che si pone la Direzione del Giornale, fra l’altro in una lotta contro il tempo con il potente concorrente New York Times, è se pubblicare o meno i documenti, nella consapevolezza che farlo significherebbe violare le leggi dello Stato e provocare effetti devastanti nei rapporti tra l’opinione pubblica e fra i vertici politici.
Poteva uscirne uno dei tanti buoni film sul giornalismo, invece Spielberg, con la sua maestria, coadiuvato dall’ottima sceneggiatura di Josh Singer (premio Oscar 2016 per Spotlight), fa la vera differenza, e ci regala un film maturo, elegante ed intelligente, non solo sulla Libera Stampa, ma, contemporaneamente, anche su una splendida figura di donna. Solo lui infatti, poteva dirigere con una scrittura capace di non perdere mai il punto di vista dello spettatore, mantenere intatta l’atmosfera dei fatti ed orchestrare una suspense credibile nel succedersi degli eventi, disegnandoci anche uno dei migliori ritratti femminili degli ultimi anni. Una donna che, in un’epoca dominata dal maschilismo, riesce invece trovare in sé la forza per trasformarsi e divenire capace di prendere, in prima persona, decisioni cruciali.
Il film non può che essere un film d’attori, e quindi cosa dire ancora di due mostri sacri e carismatici come Maryl Streep (nuovamente candidata all’Oscar) e Tom Hanks? Sono entrambi meravigliosamente capaci di far vibrare di umanità i loro personaggi. Attorno a loro un cast di ottimi caratteristi, ognuno perfetto nei vari ruoli. I virtuosismi filmici del regista: riprese in continuo movimento, inquadrature dal basso, piani e contro piani fanno infine di The Post una vera lezione di ottimo cinema oltre che un bel thriller giornalistico, sullo stesso livello dei migliori film di genere degli anni d’oro di Hollywood. La forza delle parole può essere più potente delle pallottole.
data di pubblicazione: 02/02/2018
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da Antonio Jacolina | Feb 1, 2018
“Se qualcosa può andare male, andrà male”. Si avvererà l’articolo 1 della legge di Murphy? Ç’est la vie! sembra infatti quasi voler rappresentare una scommessa, una sfida a questo assioma. Una sfida che si gioca fra sorprese e colpi di scena durante i vari preparativi del ricevimento e della festa per il matrimonio di Pierre ed Elena.
La giovane coppia ha deciso di celebrare in grande stile le proprie nozze in uno splendido castello del XVII sec., sito non molto lontano da Parigi e, per organizzare al meglio tutto quanto necessario per i festeggiamenti, si sono affidati al migliore organizzatore di eventi. Max (J. Pierre Bacrì), con un’esperienza ormai trentennale nel campo, è in assoluto il migliore organizzatore di feste, cerimonie e rinfreschi. E’ lui che coordina il tutto in ogni dettaglio, cura la decorazione floreale, provvede al catering con la sua squadra di cuochi e di camerieri, è lui che ha consigliato il fotografo Guy (J. Paul Rouve) ed è ancora lui che ha scelto l’orchestra ed il cantante ed entertainer James (Gilles Lellouche ). Sono tutti i “migliori professionisti” che si possano trovare nei rispettivi ambiti.
In breve, dunque, gli elementi necessari perché i festeggiamenti riescano perfetti in ogni loro minimo dettaglio, sono stati già studiati, previsti e predisposti. Andrà tutto bene o scatterà la legge di Murphy?
Con Ç’est la vie! i due registi Eric Toledano ed Olivier Nakache, dopo il trionfo del loro Quasi Amici ritornano sugli schermi con un’opera perfetta che li conferma, senza alcun dubbio, ancora una volta, come i Maestri della Commedia. Di quella Commedia à la française con un gradevole misto di dolce ed amaro, dotata di quel tocco di classe e garbo in più che la rende apprezzata da ogni tipo di spettatore.
I registi si soffermano e ci fanno scrutare, ora per ora, tutto ciò che avviene “dietro le quinte” fra tutti gli addetti alla realizzazione dell’evento, durante i vari preparativi preliminari e poi durante la festa. Un “dietro le quinte” osservato con lo sguardo di quelli stessi che vi lavorano e sono impegnati allo stremo a superare tutto ciò che non va come dovrebbe andare. Come nei peggiori sogni, tutto ciò che non dovrebbe mai succedere sembra invece succedere, in una concatenazione di eventi che, ogni volta, sembrano condurre la festa sull’orlo di divenire un incubo. Il peggior incubo di ogni organizzatore di eventi.
Ç’est la vie! è un piccolo gioiello, del tutto privo di tempi morti e false note, un film corale, una galleria di ritratti feroci e teneri dominata dal grande Jean Pierre Bacrì al sommo della sua capacità artistica ed espressiva. E’ lui il fil rouge che lega tutti i personaggi le cui vicende personali e professionali si intrecciano e si sciolgono nel succedersi incalzante degli eventi. Attorno a lui una bella galleria di ritratti con attori che recitano tutti con talento. Fra i tanti spiccano Gilles Lelouche e, in un ruolo un po’ secondario, quell’eccellente attrice che è Suzanne Clement.
I due registi dominano perfettamente ed armoniosamente i tempi ed i ritmi in un crescendo continuo di dialoghi spiritosi e frizzanti e, talora, anche esilaranti. Dialoghi ovviamente cesellati al dettaglio, battute veloci e pungenti, perfettamente inserite in una messa in scena precisa che ben adatta ed integra il susseguirsi delle varie situazioni con un garbo ed un gusto assai ricercati. Non manca, a tratti, un tumulto di pura follia che aiuta però a rendere ancora più dolce e gradevole l’intero spettacolo.
Dunque, un bel film gradevole come una bella boccata d’aria fresca pulita e … gioiosa. … Che ci volete fare?… Ç’est la vie!
data di pubblicazione:01/02/2018
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da Antonio Jacolina | Gen 27, 2018
Vittoria (Virginia Efira) è una graziosa quarantenne, ottima penalista che si trova in pieno deserto affettivo, è separata e madre di due bambine cui non riesce a star dietro presa come è nel cercare di conciliare una vita frenetica fra problemi professionali, relazioni insoddisfacenti, sogni romantici ed incontri con psicologhe e veggenti. Il suo già precario equilibrio crolla quando recatasi ad un matrimonio, vi incontra due persone che le complicheranno ancor più l’esistenza: Sam (Vincent Lacoste) un ex spacciatore da lei difeso con successo nel passato, e Vincent (Melvil Poupad) un suo caro amico che accusato di tentato omicidio non vuole essere difeso che da lei. Unico testimone del fatto un cane. È l’inizio della perdita di controllo e tutte le situazioni precipitano in una spirale emotiva che Vittoria non riesce più a governare.
Tutti gli uomini di Vittoria, il cui titolo originale è più elegantemente e correttamente solo Victoria (quando cesserà il malvezzo di dare ai film stranieri titoli in italiano del tutto fuorvianti, ed ambigui?), è l’opera seconda della giovane regista francese Justine Trietche aveva esordito con successo nel 2013 con La Battaglia di Solferino. Ancora una volta il cinema francese ci regala l’opportunità di apprezzare un cinema tutto al femminile e constatare quanto i ruoli di donna dominino il cinema d’oltr’Alpe. Pensiamo solo ad Elle ad Irréprochables nel 2016 ed al recentissimo 50 Primavere.
Come in quest’ultimo film, siamo ancora una volta davanti ad una brillante collaborazione fra due donne: la regista J. Triet e la protagonista, la sempre più convincente V. Efira, giovane attrice belga molto apprezzata in Francia (l’abbiamo vista in 20 anni di meno ed in Un amore all’altezza). Anche questa volta l’anima della storia è una bella figura di donna. Vittoria è bella, brillante ed energica. Una quarantenne dei nostri tempi, pienamente affermata, che vuole avere successo in tutto, famiglia, professione ed affetti. Vittoria è l’eroina ideale per una rivista femminile. È un’eroina come tantissime altre donne in carriera, che resta però schiacciata sotto il peso della molteplicità di ruoli da sostenere, fino a perdere il controllo della sua vita. In lei c’è tutta la forza di una donna moderna ed anche tutte le sue fragilità e debolezze. La Efira è in questo film in stato di grazia ed è genialmente capace di renderci tutte le sfumature di questa donna che è volitiva ed incongruente, patetica e brillante, tenera e acida al vetriolo. Una figura di donna che ci ricorda, a tratti, il W. Allen dei primi tempi. Un Allen nevrotico tutto virato al femminile.
La Triet conferma le sue capacità riuscendo a governare la storia con mano ferma, garantendo un perfetto equilibrio fra il dramma e la commedia e dando il giusto ritmo al succedersi delle situazioni. Tutti gli uomini di Vittoria è frutto di una regia elegante, di una buona sceneggiatura e di dialoghi ben scritti nonché di un montaggio attento. Il cast è perfetto, ottimi tutti gli interpreti che non eccedono mai nel tratteggiare i loro personaggi. L. Poitreneaux, è l’ ex marito, preciso per il ruolo dell’intellettuale folle, M. Poupaud è eccellente con la sua perfetta faccia da colpevole. Il film della Triet è dunque una garbata commedia romantica molto ben riuscita. Certo, non è la Commedia dell’anno, ma di sicuro è una gradevole commedia stravagante, ricca di humour nero, drammatica e brillante che si rivela molto divertente senza andare a cercare gags o risate a tutti i costi. Se poi ci è consentito, con tutto il dovuto rispetto delle proporzioni, Tutti gli uomini di Vittoria emana anche un leggero profumo che richiama alla mente il gradevole sapore delle deliziose sophisticated comedies americane degli anni ’30 e ’40 e cerca di farne rivivere l’inventiva ed il ritmo senza essere mai banale. Sia ben chiaro, non si raggiungono i livelli dei modelli americani, ma non si è nemmeno troppo lontani dal loro spirito.
Per concludere, un buon film, un buon cinema d’Autore e, al tempo stesso, un cinema Popolare. Chi ha mai detto che l’uno e l’altro debbano per forza essere antitetici fra loro? Tutti gli uomini di Vittoria ribadisce ancora una volta che la cinematografia francese può e sa riuscire a conciliare autorialità e popolarità, e a far convivere commedia raffinata con cinema commerciale.
Non domandiamoci poi, perchè film gradevoli come questo trovino così poco spazio nella programmazione dei nostri cinema e perché poi, mentre in Francia il numero degli spettatori nelle sale aumenta, da noi invece cala sempre più, di anno in anno, soprattutto quello dei film italiani.
data di pubblicazione:27/01/2018
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da Antonio Jacolina | Gen 26, 2018
Da un po’ di tempo sta prendendo piede la moda degli “Eventi Cinematografici”. Proiezioni tematiche, a prezzo del biglietto più alto del solito, orari particolari e permanenza in sala solo pochi giorni. Operazione Culturale o Commerciale? My Generation ci induce a pensare chiaramente ad un’operazione commerciale piuttosto che artistica, giocata, fin dal titolo stesso, sulla nostalgia e sui ricordi di quella generazione di sessantenni di oggi che nei ruggenti anni della loro giovinezza hanno avuto la fortuna di viverli direttamente nella Swinging London di quei mitici 4/5 anni fra il 1962/63 ed il 1966/67, o che hanno partecipato altrove agli eventi ed ai cambiamenti rivoluzionari da Londra propagatisi in breve in tutto il resto del mondo. La British Revolution, quel movimento giovanile che quasi impercettibilmente, passo dopo passo, consentì, in quegli anni, alla gioventù inglese di buttar giù le barriere di classe che tenevano ingessata l’Inghilterra. La Libertà, la libertà sociale, la libertà dalle convenzioni, la libertà individuale, fu il vero detonatore iniziale, e… da lì in poi: la rivoluzione sessuale, nuovi abbigliamenti, nuove sensibilità artistiche, culturali, musicali e cinematografiche, nuova moda, nuovi colori sgargianti, nuove scelte di vita, spazio ai giovani. Le minigonne, i capelli lunghi, i pantaloni a zampa d’elefante e, soprattutto, i Beatles, gli Who, i Rolling Stones, il Beat, il Pop, le droghe, Mary Quant, Twiggy e tantissimo altro.
Detto ciò, My Generation è un documentario con la regia di D. Batty e, soprattutto prodotto da Simon Fuller, noto produttore discografico e televisivo nonché ideatore di format di spettacoli televisivi, e con lui anche Michael Caine. E’ proprio M. Caine, con il suo fascino, ad arricchire il documentario facendo sia la voce narrante sia il fil rouge che, con la sua presenza e gli spezzoni dei suoi film dell’epoca come Ipcress ed Alfie, lega i vari capitoli del documentario stesso e ci fa da guida nel tempo.
Ci troviamo davanti ad un abile collage e montaggio di materiale d’archivio, di spezzoni di filmati d’epoca, riprese delle vie di Londra, brani di trasmissioni televisive, frammenti di concerti e stralci di nuove e vecchie interviste ad alcuni dei mostri sacri di allora (M. Quant, Sandie Shaw, M. Faithfull) ed infine, scorci dei primi mitici concerti al glorioso Cavern Club di Liverpool. Il tutto ovviamente immerso in una meravigliosa e superba colonna sonora che pesca a piene mani in alcuni brani del repertorio delle Band e dei Solisti dell’epoca. E’ indubbio che chiunque sia interessato al cinema, alla musica e all’arte di quegli anni potrà, volendolo decisamente, pur riuscire a trovare qualcosa guardando My Generation, ma… è forse sufficiente per ridarci lo spessore, l’anima e la forza di quel quinquennio, la voce di M. Faithfull ? Oppure basta qualche brano dei primi concerti dei Beatles a Liverpool? O ancor più, una breve performance degli Who o le immagini di Twiggy e della meravigliosa Jean Shrimpton? Direi proprio di no! Difatti più il documentario procede, tanto più perde in capacità di approfondire la realtà e di fornire un’analisi con la giusta qualità e quantità di immagini. Dopo un po’ non bastano più nemmeno le memorie e le riflessioni dell’ironico M. Caine per farci capire cosa veramente fossero quei giorni, o, per spiegarli a chi non li conosce o, per restituirli a chi li ha vissuti di persona. Anzi, paradossalmente le stesse confidenze autobiografiche di M. Caine, annoiano perché si prolungano troppo, spezzano il ritmo e portano fuori tema e contesto lo spettatore.
Va poi detto che la stessa scelta del materiale d’archivio appare troppo limitata, spesso casuale, ripetitiva e ridotta ad alcuni clichè, e, soprattutto, non riesce a dare il giusto spazio ai fatti, ai luoghi ed alle persone o alle vere immagini significative. Il regista appare quasi disorientato ed incapace di fare la giusta scelta fra cosa proporci, come evidenziarlo e come riportarlo nel giusto modo. Insomma My Gerneration , bisogna avere l’onestà di dirlo, è un documentario che non documenta nulla, o, ad essere generosi, documenta molto poco e male, privo come è di una genuina capacità di analisi, privo di anima e di sincero impegno. A tratti è veramente deludente anche per l’eccessiva semplificazione dell’”anima” di quegli anni. E’ veramente solo un’operazione commerciale.
Vale allora la pena di andare a vedere questo prodotto reso accattivante dalla sola presenza di M. Caine che fa da specchietto per le allodole essendone, del resto, anche lui coproduttore ? Come ho detto, se avete vissuto quel periodo resterete molto delusi, se volevate invece conoscere qualcosa dei luoghi e degli anni in cui nacque quel movimento e fenomeno sociale che portò poi a Berkeley ed al Maggio Francese ed al ’68 , non vi fornirà assolutamente gli elementi giusti. Meglio quindi fare qualche altra cosa!
data di pubblicazione:26/01/2018
da Antonio Jacolina | Gen 19, 2018
Nella Francia occupata dai Tedeschi durante la seconda guerra mondiale, due giovani fratelli parigini di religione ebraica, il quattordicenne Maurice e l’ancora bambino Joseph, vengono scientemente e dolorosamente lasciati a loro stessi da parte dei genitori per meglio consentire loro di poter nascondere la propria identità e meglio sfuggire alle retate di Ebrei operate dai Nazisti. I due fratelli, soggetti ad ogni istante ad essere arrestati, fanno prova d’una incredibile dose di malizia, coraggio ed ingegnosità lungo il loro avventuroso cammino verso il sud della Francia, verso la “Zona Libera”, per potersi ricongiungere a Nizza al resto della famiglia. Il “sacchetto di biglie” da cui il giovanissimo Joseph non si separa mai è il piccolo talismano che ricorda i bei momenti spensierati, e dà forza per superare le paure e le difficoltà che lui ed il fratello incontrano.
Il giovane e poliedrico Christian Duguay, regista franco-canadese molto attivo nel campo delle miniserie televisive, dopo il suo grande successo cinematografico di Belle e Sebastien l’avventura continua (2015), sequel del primo Belle e Sebastien del 2013, conferma, con questo suo ultimo film, di cui è anche direttore della fotografia, tutta la sua particolare sensibilità verso il mondo adolescenziale e la sua abilità nel dirigere i bambini.
Un sacchetto di biglie è il secondo adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo autobiografico di J. JOFFÒ, un libro di formazione giovanile divenuto in Francia un classico per ragazzi. Duguay, con una regia di lungo respiro, una buona tecnica, belle inquadrature, buon ritmo ed una fotografia interessante, sa governare con polso sicuro la storia, mantenendosi in equilibrio fra dramma e leggerezza, senza cadere nel sentimentalismo, riuscendo abilmente ad evitare i rischi che, stante il soggetto, potevano facilmente eccedere o su un lato o sull’altro. Malgrado la crudeltà dei momenti storici in cui la vicenda è ambientata, il film non cede mai alla tristezza.
Certo, l’emozione di fondo è presente, ma, il regista evita di cadere nei clichès , anzi, al contrario, dona sapore e tensione continua a tutta la narrazione. Intelligentemente sceglie di narrare la storia dal punto di vista e attraverso gli occhi e la prospettiva dei due ragazzi, raccontandoci così il loro passaggio anzitempo dall’infanzia alla consapevolezza dell’età adulta. Perfetta è la ricostruzione dei contesti storici ambientati nella Parigi e nella Nizza degli anni ’40. Eccellente è soprattutto la scelta degli attori, un casting senza false note. I due giovani interpreti Batyste Fleural e Dorien Leclech sono formidabili per la loro spontaneità recitativa e sembrano crescere e maturarsi come i loro personaggi, man mano che procedono nella loro fuga verso la Libertà. Accanto a loro, due star del cinema francese: Patrick Bruel che con talento e sincerità interpreta il padre, e l’intensa Elsa Zylberstein nel toccante ruolo della mamma. Attorno a loro anche uno stuolo di buoni attori di secondo piano che ci rappresentano la varia umanità che i ragazzi incrociano nella fuga, un’ umanità fatta di egoisti, di collaborazionisti, di tedeschi e di persone altruiste o generose.
Un film gradevole, una bella storia di famiglia, tenera ed anche maliziosa, un quadro familiare di notevole freschezza che traspira autenticità. Il tema ed il contesto storico sono un soggetto molto ricorrente nel cinema francese che però è quasi sempre trattato con garbo, senso della misura e delicatezza, basta ripensare ad Au revoir les enfants di Louis Malle del 1987 o, al più recente Monsieur Batignole del 2002 .
Va fortemente sottolineato che Un sacchetto di biglie non è affatto un film destinato e limitato al solo pubblico francese, tutt’altro, è invece un film che si rivolge a tutti, giovani ed adulti,
di qualsiasi nazionalità, anche a noi Italiani, perché è un film che tocca e denuncia temi universali, senza tempo ed anche molto attuali. La forza dei legami, l’infanzia e l’adolescenza rubate, la solidarietà, la diversità, la fuga, le famiglie separate, la debolezza della natura umana, e… nello sfondo, ovviamente, anche le discriminazioni ed il razzismo. Il tutto però senza alcuna saccente o supponente pedanteria.
Dunque, un film di genere, ben riuscito, divertente e toccante che ci ricorda, ancora una volta, che il piccolo buon cinema d’autore, senza la pretesa di dover necessariamente essere un capolavoro, pur restando un prodotto “commerciale”, può e sa parlarci anche di temi drammatici, mantenendo gusto e stile. Quel gusto e quello stile che nello scenario dei film attualmente in circolazione, quali che siano i generi, molto spesso non si riesce a ritrovare.
data di pubblicazione:19/01/2018
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