da Antonio Jacolina | Mar 17, 2018
Siamo a Sacramento – California, nel 2002, subito dopo l’11 Settembre. Assistiamo al racconto di formazione ed iniziazione alla vita di un’adolescente all’ultimo anno della High School e prossima a scegliere l’Università. La giovane Christine che vuole farsi chiamare da tutti Lady Bird (Saoirse Ronan), lotta per dare spazio ai propri sogni e talenti, per uscire dal suo modesto ambiente sociale e dalla mediocrità della piccola provincia americana e per fuggire dal gap culturale che separa la Costa Ovest da quella dell’Est e da New York.
Lady Bird è il primo lungometraggio scritto e diretto dalla Gerwig, classe 1983 e già icona del Cinema Indipendente Americano. L’abbiamo ammirata anche come ottima attrice in Mistress America ed in Frances Ha con la direzione di Noah Baumbach che, oggi suo compagno nella vita, ha collaborato con lei nella sceneggiatura di questo film. Si tratta di un’opera personale in parte autobiografica, bella e delicata, caratterizzata da un tocco di sincerità nel saper trascrivere e filmare, con una naturalezza assoluta tutta al femminile, la complessità dei rapporti familiari ed intergenerazionali nel delicato passaggio all’età adulta. Un film già meritatamente premiato con due Golden Globe per la migliore commedia e per la migliore attrice. Visto l’argomento, si poteva facilmente cadere nei soliti cliché del Genere Teen Movies. La Gerwig invece riesce ad evitare la trappola con un approccio lieve ed una scrittura di uno charme tutto particolare e ci regala una storia di una delicatezza evocativa che risuona dentro ciascuno di noi. La sua regia si avvale infatti di scene brevi ed equilibrate, dialoghi secchi e precisi ed un montaggio puntuale che sembra quasi sposare gli umori della vicenda. Il racconto scorre così in modo naturale, senza vezzi o esagerazioni, dogmatismi o drammatizzazioni, con un dolce profumo di nostalgia che dà eleganza e fascino a tutti i codici del Genere. La riuscita del film è tutta qui! Non nella storia ma nel tocco delicato e nelle piccole sfumature. Dunque, un’opera tenera, pungente, autoironica, toccante e sincera che non elude nessuna delle contraddizioni adolescenziali o le complessità delle relazioni fra madre e figlia ma si limita invece ad osservarle alla giusta distanza. Punto di forza del film è la giovane e bella irlandese Saoirse Ronan già ammirata ed apprezzata in Hanna e, soprattutto in Brooklyn. L’attrice conferma la sua bravura prestando tutta se stessa alla protagonista. Un ruolo splendido ed una interpretazione per la quale oltre al Golden Globe, ha anche ricevuto la sua seconda nomination per l’Oscar come migliore attrice protagonista. Superbi anche tutti i secondi ruoli, adulti e giovani, fra questi Timothée Chalamet visto recentemente in Chiamami col tuo nome. Lady Bird, senza alcuna pretesa di figurare fra i capolavori del Cinema, è un vero gioiellino, una piccola delizia di rara bellezza, sensibilità ed autenticità, che con gli attuali frenetici ritmi di uscite settimanali imposti da una dissennata Distribuzione, pur essendo uscito sugli schermi romani solo il 1° Marzo, è già relegato in pochi cinema ed in salette da 40/50 posti! Rincorretelo anche voi: non lo perdete, ne vale la pena!
data di pubblicazione:17/02/2018
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da Antonio Jacolina | Mar 7, 2018
La scrittrice Delphine (Emmanuelle Seigner) dopo il successo del suo ultimo libro autobiografico è oppressa dai ricordi familiari riportati in vita, ed è fragile e disorientata per la stanchezza psicofisica ingenerata dalle pressioni dei suoi lettori e degli editori. Delphine è quindi in piena crisi, senza idee per un nuovo libro e tormentata da messaggi anonimi. In questa situazione di difficoltà le capita di incrociare una sua affascinante ammiratrice di nome Lei (Eva Green) che sfrutta abilmente le sue angosce e s’insinua progressivamente nella sua vita privata e professionale fino a divenire morbosamente essenziale. La loro amicizia diviene sempre più ambigua, inquietante e pericolosa.
Quel che non so di lei, presentato fuori concorso all’ultimo Festival di Cannes con giudizi contrastanti, è un adattamento operato dallo stesso Polanski, unitamente all’amico sceneggiatore e regista Olivier Assayas (suo il recente Sils Maria), del best seller Da Una Storia Vera della francese Delphine de Vigan. Dopo l’ultimo suo film La Venere in Pelliccia l’ottantacinquenne regista polacco ritorna oggi con un thriller che, seguendo un sentiero fra realtà e finzione, rinnova la sua maestria nell’adattare per il cinema storie molto forti e nell’operare riflessioni sull’ambiguità del processo creativo in una situazione ricca di suggestioni tutte virate al femminile. Polanski si muove in un incrocio fra un mondo letterario e teatrale che ci ricorda i suoi recenti Carnage e, per l’appunto La Venere in Pelliccia, riproponendoci ancora una volta il tema del “doppio”, “l’altro da sé”, scavando nelle zone d’ombra e di luce dei suoi personaggi, lasciando noi spettatori nel dubbio di quale sia il vero e quale sia il falso. È vero che Lei rappresenta la zona d’ombra di Delphine o piuttosto, è forse vero il contrario? Un lavoro dunque quello di Polanski che ci porta ad esplorare i dubbi, le manipolazioni e le prevaricazioni di ruoli fra menti fragili e che ci fa rammentare Eva contro Eva, Misery non deve morire ed anche lo stesso Polanski di The Ghost Writer. Come al suo solito il regista è un maestro nell’ambientare la vicenda in spazi ristretti, però questa volta sembra quasi porsi in una posizione di estraneità rispetto alla vicenda narrata, come se fosse desideroso di realizzare un film meno “intellettuale” e più, per così dire, “popolare”, trovandosi però in tal modo a perdere in scioltezza. Difatti nel film, a momenti interessanti e di buona tensione, si succedono altri in cui si nota un’assenza dell’inventiva geniale di altri suoi film, e la sua mano di Direttore da l’impressione di perdere il controllo delle due protagoniste che paiono recitare, per inerzia, ciascuna un suo proprio film. Va però detto che la Seigner e la Green, entrambe costantemente sulla scena, sono costrette in due personaggi cui non sono concesse sfumature e di qui certi eccessi e ridondanze della loro recitazione. Quel che non so di lei non è certamente uno dei lavori fondamentali di Polanski, ma il regista, dopo oltre 55 anni di attività prestigiosa, resta pur sempre un grande del Cinema e questo suo ultimo lavoro anche se discontinuo e distaccato è comunque coerente con la sua storia di qualità, eleganza e tensione. Dunque, non un’opera maggiore ma un dignitoso thriller psicologico in cui il regista, agendo su vari piani narrativi, punta più al “come” si son svolti i fatti raccontati, piuttosto che alla loro “logicità”, con una conclusione spiazzante che nasce dalla follia creativa, incontro fra illusione e realtà.
data di pubblicazione:07/02/2018
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da Antonio Jacolina | Feb 23, 2018
Londra, inizio anni 50, il celebre sarto R. Woodcock (Daniel Day-Lewis) e sua sorella Cyril (Lesley Manville) che dirige la “Maison”, sono al centro dell’Alta Moda Britannica. Woodcock che fino ad allora aveva rifiutato ogni relazione affettiva stabile per timore di perdere la propria ispirazione creativa, si innamora di una fascinosa cameriera Alma (Vicky Crieps), ne diviene il Pigmalione e ne fa il punto di riferimento per la sua vita e per la creazione delle sue collezioni. Questo incontro sconvolgerà la sua vita, la sua creatività artistica e tutto il suo essere.
Paul Thomas Anderson, regista e sceneggiatore, fra i migliori autori del ”nuovo cinema americano” (suoi Magnolia, Il Petroliere, The Master), con questo film elegante e raffinato torna a lavorare con Daniel Day-Lewis, uno dei massimi interpreti dei nostri giorni ed unico ad avere vinto 3 Premi Oscar come attore protagonista. Il risultato è splendido, una vera gioia per gli amanti del Cinema! Il regista è un pittore di sentimenti e questa volta, come in altri suoi film, ci ripropone, tramite un triangolo intrigante fra Woodcock, Cyril ed Alma, quella che è la vera costante dei suoi film: la ricerca da parte dei suoi personaggi del senso del loro esistere e del loro doversi confrontare con la realtà tangibile dell’”Altro” rispetto a loro stessi. Ne Il Filo Nascosto la ricerca è inscritta all’interno di una relazione amorosa. Prendendo come punto focale il grande sarto, l’autore ci rappresenta il mistero di una coscienza indecifrabile. Woodcock, è infatti un esteta ipersensibile che non lascia entrare nessuno nel suo mondo interiore. Un uomo per il quale sono solo i suoi abiti che dovrebbero parlare per lui, e che, turbato dall’ingresso nella sua vita di Alma, si ritrova a perdere i suoi ritmi, la sua disciplina ed il suo silenzio. Che altro mai potrebbe allora essere “il filo nascosto” del titolo, se non il filo invisibile con cui Woodcock fa parlare i suoi abiti celando di proposito, dei messaggi nelle fodere delle sue creazioni e, nello stesso tempo, anche il filo impercettibile, l’amore, razionalmente rifiutato ed emotivamente bramato che invece lo tiene legato ad Alma. Un sentimento esaltante e nel contempo tossico con cui il personaggio interpretato da Day-Lewis si deve confrontare costantemente. Un discorso insomma, sul tema della dominazione e sottomissione fra due esseri presi da una reciproca follia d’amore. Il Filo Nascosto è infatti un doppio film, una apparente storia di manipolazione dell’”Altro”, sotto cui si intravvede una storia d’amore in equilibrio fra perversione e tenerezza. Anderson sa condurre questo doppio registro con una capacità narrativa alla quale dobbiamo solo affidarci, apprezzandone il risultato di alta qualità estetica così vicina alla perfezione dei dettagli che in più tratti ci ricorda Visconti. Il regista è anche autore della scenografia e direttore della fotografia, ed è bravissimo, pur avendo girato il film tutto in interni, ad evitare con il giusto ritmo cinematografico, ogni possibile elemento teatrale, aiutato in ciò da un montaggio rapido e da un eccezionale gioco delle luci e delle inquadrature. Il casting è perfetto, dai primi ai secondi ruoli. La presenza di Daniel Day-Lewis è dominante e cattura gli sguardi costantemente per la sua intensità recitativa e per la sua capacità, con pochi cenni, di rendere tutte le sfumature e complessità del suo personaggio. Eccezionale. Un quarto Oscar sarebbe meritatissimo! La giovane Krieps e la Manville sono poi complici di pari misuratezza e sensibilità recitativa basata tutta sulla forza dello “sguardo”.
Dunque un film bello, quanto bello è il soggetto ed è curata la sua messa in scena. Il Filo Nascosto è un film drammatico ed anche un film d’amore che rasenta quasi la perfezione, di sicuro un ottimo “film classico” in una perfetta fusione di forma e sostanza. Un film di un grande autore e di grandi attori destinato in assoluto alla gioia degli amanti del Vero Cinema.
data di pubblicazione:23/02/2018
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da Antonio Jacolina | Feb 16, 2018
Con questo film siamo ormai arrivati alla quarta collaborazione fra il giovane regista spagnolo J. C. Serra, ormai re dei B Movie Hollywoodiani, ed il suo attore feticcio Liam Neeson (sono per lui lontani i bei tempi di Mission, Schindler List e Michael Collins). Il poliedrico attore è il solito buon padre di famiglia che, pur volendo vivere una vita di persona normale, è sempre un “ex qualcosa” (ex agente segreto, ex detective, ex poliziotto …), un passato che lo perseguita oppure lo aiuta, allorché si trova risucchiato in oscure vicende.
Questa volta è un manager assicurativo, uno dei tanti pendolari giornalieri sui treni fra New York e le belle villette in periferia. È stato appena dimissionato, e torna a casa angustiato dalle conseguenti difficoltà economiche che vede ora piombare sulla sua famiglia. In questo stato d’animo viene avvicinato in treno da una affascinante sconosciuta (Vera Formiga) che gli offre una cifra enorme purché riesca ad identificare un passeggero misterioso che si trova anche lui sul treno. L’uomo viene così preso subito in un terribile ingranaggio che diviene presto questione di vita o di morte per tutti.
Da Taken 1, 2 e 3 in poi Liam Neeson fa ormai solo… Liam Neeson. Anche lui è divenuto un “genere di se stesso” ed un sottogenere degli action movie/ thriller. Nulla di nuovo sotto i cieli del cinema anglosassone di serie B o B1, a partire addirittura, dai tempi dei western di Randolph Scott per finire oggi ai film di Jason Statham o Nicola Cage, tanto per citarne alcuni.
Comunque sia, per gli appassionati del genere il problema non si pone affatto. Film come L’uomo sul Treno sono prodotti d’azione e suspense più o meno dignitosi, che non vanno visti dal punto di vista della logicità della storia o della veridicità delle azioni, ma vanno goduti solo per il susseguirsi di scontri fisici, di tensione, inseguimenti adrenalinici: ieri per le vie di Parigi o sui tetti di Istanbul o nel chiuso di un aereo in volo, oggi in una lotta all’interno di un treno in corsa. Sono, oseremmo dire, i “western di oggigiorno” in cui, comunque sia, i buoni trionfano sempre sui cattivi.
Il regista J. C. Serra si conferma abile realizzatore di film commerciali basati su una sceneggiatura tutta azione e tensione, bravo nel suo ambito, ed abilissimo nel creare azioni in uno spazio confinato e ristretto. Infine, il nostro Liam, nonostante i suoi prossimi 66 anni, continua a dar sfoggio di capacità atletiche e, lo ribadiamo, è perfetto nel ruolo di se stesso, e non ha ormai più rivali nell’interpretare il suo solito personaggio: il buon americano tranquillo che, se costretto, è capace di passare dal ruolo di vittima a quello di combattente, sfoderando forza, coraggio e determinazione. Sempre “the same old story”.
data di pubblicazione: 16/2/2018
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da Antonio Jacolina | Feb 8, 2018
Quasi il complemento ideale del recente Dunkerque di C. Nolan, ecco sugli schermi L’Ora Più Buia di J. Wright, brillante regista inglese che conferma qui le qualità già espresse in Orgoglio e Pregiudizio ed in Anna Karenina. In questi film Wright aveva già messo in mostra il suo talento nella ricostruzione di realtà, atmosfere e personaggi storici. Un dono questo che sembra essere, da sempre, peculiare del cinema britannico. Quest’ultima opera è un nuovo biopic dedicato alla figura di W. Churchil, l’uomo che con la sua determinazione ha, letteralmente, cambiato il corso della Storia.
Il film si concentra su quelle settimane decisive della primavera del 1940, quando la Germania è vittoriosa in tutta Europa ed i resti dell’esercito inglese sono intrappolati a Dunkerque, lasciando così l’Inghilterra indifesa davanti ad una possibile invasione tedesca. Churchill (Gary Oldman) da poco eletto Primo Ministro, deve affrontare, nella rassegnazione generale e nello scetticismo assoluto contro di lui degli avversari politici e dello stesso Re, la drammatica scelta se negoziare una pace, o, tentare di risollevare la nazione portandola a battersi, fino allo stremo, per l’Inghilterra e per la Libertà. Sono le “ore più buie” per la Gran Bretagna e per Churchill stesso, che da solo, con la sua tenacia personale e politica, con il sostegno della moglie Clementine (K. Scott Thomas), e, soprattutto, con la sola forza delle sue parole e della sua retorica deve riuscire a restituire al Paese la speranza nella Vittoria.
Wright sfugge abilmente alla trappola di filmare una mera rievocazione quasi documentaristica o, l’ennesima ricostruzione storica. E’ proprio in questa sua intelligente scelta tutta la complessità dell’impresa e la sua bravura nel darci un’opera del tutto originale. Come in altri biopic di successo, uno fra tutti: Lincoln di Spielberg, il nostro regista preferisce ritrarre il proprio personaggio circoscrivendolo in un momento decisivo per la sua vita e per la Storia, scolpendone, in un’eccezionale visione del “dietro le quinte della Storia”, la figura attraverso i suoi discorsi fondamentali, destinati a divenire essi stessi un mito. L’Ora Più Buia è dunque un film in cui il dialogo e le parole assumono un’importanza fondamentale. E’ un film di discorsi, girato però come un film d’azione. Wright governa il difficile compito con mano sicura, con una regia asciutta ed essenziale, una perfetta sceneggiatura, un buon ritmo ed una bellezza di immagini ed allestimenti scenografici in grado di restituirci come reali i luoghi e le atmosfere. I movimenti della cinepresa tendono a rappresentare tutta la solitudine dell’uomo e del politico, sottolineando gli stati d’animo, le debolezze e l’egocentrismo di Churchill. La genialità del film è tutta qui. Ovviamente al centro di tutto è l’eccezionale interpretazione di G. Oldman, sicuro vincitore del prossimo Oscar, che è capace di impersonare lo statista con un talento artistico frutto evidente di un enorme lavoro di immersione nel ruolo, aiutato da un trucco così perfetto da far sembrare l’attore più vero dell’originale. Al suo fianco la sempre brava K. Scott Thomas. L’Ora Più Buia è dunque un film apprezzabile e godibile, un biopic non convenzionale che ridà lustro ad un genere non sempre all’altezza. Un film che è un gradevole melange di eleganza, dramma ed anche humour tutti britannici.
data di pubblicazione:08/02/2018
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