da Antonio Jacolina | Set 4, 2018
(75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)
Abbiamo visto il secondo film italiano in concorso a questa 75ma Mostra del Cinema di Venezia le cui proiezioni sono state accolte tutte con calorosi consensi dal pubblico presente. Roberto Minervini è ormai un apprezzato autore, già affermatosi e distintosi con Ferma il tuo cuore in affanno del 2013 e soprattutto con il durissimo Louisiana del 2015 presentato a Cannes nella sezione un certain regard.
Con quest’ultima sua opera il nostro regista ci parla appassionatamente e coinvolgentemente della diseguaglianza e del razzismo nell’America Nera negli stati del profondo sud. Un quadro preciso ed intenso, a tratti, impietoso, ingentilito solo da un meraviglioso bianco e nero, sulla comunità afro-americana dei dintorni di New Orleans, la cui esistenza è segnata quotidianamente dalla violenza, delle discriminazioni raziali, dalla povertà ineludibile e dalla brutalità gratuita della polizia. Un film sicuramente di denuncia, ma anche un film dolce, violento, appassionato e pungente che illustra tre vicende umane emblematiche. Minervini che si era affermato inizialmente come fotografo poi come reporter, mantiene ancora questo suo approccio professionale di testimoniare direttamente ciò che rappresenta nelle sue opere, difatti ha vissuto a lungo nel 2017 con la comunità presa in esame, entrando e vivendo lui stesso la stessa quotidianità documentata, da qui la forza e l’intensità profonda e partecipativa delle sue analisi. La cinepresa è lasciata libera di riprendere la vita con lunghi piani sequenza, registrando la vita, la collera, l’impegno e le stesse riflessioni degli uomini e delle donne che ha incontrato e ripresi. Ne risulta un lavoro che va ben oltre le stesse frontiere delle categorie cinematografiche, un reportage che si distacca notevolmente dall’idea di documentario, un prodotto autoriale di tutto rispetto per contenuti e qualità filmica. Senza più dubbi Minervini può essere considerato ormai come un talento capace di osservare, ascoltare e con il grande dono dell’inquadratura.
data di pubblicazione:04/09/2018
da Antonio Jacolina | Ago 13, 2018
L’afa, la calura estiva vi tormentano? Cosa c’è allora di meglio che trovare un po’ di fresco in una bella sala cinematografica con aria condizionata oppure in una ventilata arena e… ritrovarsi nello splendore di un’isoletta greca fra scenari e spiagge da cartolina.
Sono passati dieci anni dal successo planetario di Mamma Mia!, adattamento, a sua volta, della fortunata commedia musicale, ed eccoci tornare di nuovo sulla piccolissima e paradisiaca isola greca ove Sophie (Amanda Seyfried) si industria a riaprire l’Hotel creato da sua madre Donna, lottando contro la sorte e rivivendo le stesse prove che sua madre aveva dovuto affrontare nel passato.
Alla regista Phyllida Lloyd è subentrato oggi Ol Parker che abbiamo già visto dirigere i due film su Marigold Hotel, il risultato è un film mezzo prequel e mezzo sequel, un alternarsi di flash back in cui la giovane Donna (Lily James) scopre e si innamora dell’isola e fa “conoscenza” dei tre padri di Sophie, e di scene in tempo reale sulle difficoltà di quest’ultima, trenta anni dopo.
Di nuovo una commedia musicale ritmata dalle canzoni di successo degli Abba, una commedia che, come il gruppo svedese, è kitsch, colorata, zuccherosa, romantica, ingenua, melancolica, allegra. Una commedia che prova a riprendere e ricomporre tutti gli ingredienti e le ricette di successo di Mamma Mia! Nulla di nuovo rispetto al primo film, resta tutta l’incredibile energia delle melodie degli Abba, la messa in scena è scoppiettante, belle le coreografie ed il film a tratti è veramente esilarante e piacevole, però la sceneggiatura è debole e talora scontata. Il film non riesce infatti a trovare un suo giusto ritmo e non raggiunge certo lo charme e la gioiosità della pellicola del 2008. Uno dei punti forti resta pur sempre il cast, i veterani di dieci anni prima sono sempre tutti perfetti ed impeccabili, garbatamente istrionici sono poi i tre padri: P. Brosnan, C. Firth, St. Skarsgàrd, incantevole e brava come sempre M.Streep, infine superbamente kitsch ed autoironica l’apparizione di Cher.
Nonostante queste piccole /grandi pecche, Mamma Mia! Ci risiamo resta tuttavia un film che ci fa ridere, commuovere ed ovviamente cantare. Un classico film di buoni sentimenti, ingenuamente tenero, un “feel good movie”, ideale per questo scorcio di Estate.
data di pubblicazione:13/08/2018
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da Antonio Jacolina | Apr 22, 2018
Isabelle (Juliette Binoche) è una splendida cinquantenne, parigina, artista e madre divorziata di una adolescente. E’ una donna dalla personalità complessa, romantica, fragile e forte. Una donna che ha passata l’epoca delle illusioni amorose ma non si rassegna, e cerca ancora l’Amore, l’anima gemella, l’uomo giusto. Quanto è difficile amare veramente!
La settantenne regista e sceneggiatrice francese C. Denis è conosciuta ed apprezzata fin dal suo primo esordio nel 1988 per il suo cinema fortemente rigoroso ed impegnato, centrato tutto sullo studio della condizione umana e sulle problematiche interculturali. Con L’Amore secondo Isabelle (Un beau soleil intérieur) già presentato a Cannes 2017 e visto, in anteprima italiana, in occasione dell’VIII Festival del Cinema Francese tenutosi a Roma ad inizio mese, la regista si concede invece, di affrontare il tema delle relazioni uomo-donna, dei rapporti di forza sentimentali fra individui ed anche il discorso sul concetto dell’Amore Deluso, agendo, insolitamente per lei, con un film tutto virato sul registro dei toni di una commedia dolce-amara. Pur senza omettere di delineare una graffiante satira sociale di una certa borghesia intellettuale parigina, la cineasta ci disegna in effetti, un magnifico e luminoso ritratto di una donna matura ancora aperta all’Amore, e, nel contempo, tramite le sue vicissitudini affettive ed i suoi sentimenti, ci delinea, anche e soprattutto, un mosaico di ritratti maschili al vetriolo (seduttori, ipocriti, egoisti …) che ruotano tutti, come piccoli satelliti, attorno alla luce ardente della solarità interiore di Isabelle. L’Amore secondo Isabelle è un film pensato, scritto e diretto da donne, ma non è un film solo al femminile, al contrario è un film sui sentimenti amorosi in generale, sul bisogno d’Amore, sulla seduzione, sul potere manipolatorio delle parole, dei sottintesi e dei silenzi, il tutto all’interno di un gioco in cui si può essere, indifferentemente uomini o donne, sia attori, sia vittime, sia eterni sognatori.
Al centro del film, costantemente presente in ogni scena, punto focale della cinepresa, dei suoi amanti e dello sguardo degli spettatori è la magnifica e bella J. Binoche. L’attrice sostiene letteralmente il film regalandoci una performance eccezionale con continui cambi di registri recitativi. Attorno a lei ruota la crema degli attori francesi, e, in un significativo cameo finale, emerge anche un monumentale G. Depardieu. La Denis dirige con mestiere e seduce per il ritmo del montaggio e per la maniera di filmare con una cinepresa che sembra quasi accompagnare i movimenti degli attori come in un ballo. Primi piani, campi e contro campi sembrano voler sottolineare, di volta in volta, la forza dei diversi personaggi. Il tono generale del film è reso leggero da una sceneggiatura ben scritta e da dialoghi ironici, pungenti e scoppiettanti. A tratti però, quasi per effetto di improvvisi corti circuiti, il film ha delle cadute di tono, perde di sobrietà, diviene ripetitivo, troppo verboso e frammentato a livello di banali clichés. Ciò non di meno, pur con questa alternanza fra tanti pregi e qualche difetto, L’Amore secondo Isabelle resta un buon film d’autore, supportato da una grande interpretazione della Binoche, una pungente commedia ironica, romantica, malinconica ed anche solare sui capricci dell’Amore e sulle difficoltà di cercare l’Amore e di amare veramente.
data di pubblicazione:22/04/2018
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da Antonio Jacolina | Apr 22, 2018
Chloe (Marine Vatch) è una donna giovane ed affascinante ma fragile e depressa da star anche male fisicamente. Inizia ad andare in terapia e si innamora, ricambiata, del suo psicanalista Paul (Jérémie Renier), interrotta la terapia i due vanno a vivere insieme. Dopo qualche mese però Chloe scopre che Paul le ha nascosto una parte oscura della sua vita e della sua personalità.
Preceduto dall’alone sulfureo sollevato al Festival di Cannes 2017 e visto, in anteprima italiana, in occasione dell’VIII Festival del Nuovo Cinema Francese tenutosi a Roma ad inizio mese, eccol’attesa opera di Ozon, il poliedrico e talentuoso regista e sceneggiatore francese, di sicuro uno degli autori di maggior successo e fra i più interessanti del cinema d’oltr’Alpe. Doppio Amore è il suo 17° lungometraggio ed è stato adattato dallo stesso regista da un romanzo breve: Vita di Gemelli di J.C.Oates. Dopo il delicato ed intimista Frantz, il nostro regista torna sugli schermi in un genere e su un tema che non ci saremmo di certo aspettati veder riaffrontare. Il cineasta francese ritorna infatti al genere thriller di cui aveva già dato ottimi prodotti ai tempi dei suoi Swimming Pool ed Amanti Criminali. Lo spunto questa volta è tornare ad analizzare ancora una volta, uno dei temi a lui cari: l’esplorazione, la ricerca del “doppio di sé”, il doppio benefico o malefico, o, tutti e due contemporaneamente, che ognuno di noi porta dentro di sé. Il tema dei gemelli. Chi sono infatti i “doppi” che Chloe incontra? chi siamo noi? si domanda il regista, chi è, alla fin fine, la stessa Chloe? Quali sono e cosa si nasconde nelle zone d’ombra di ciascuno di noi? Bravo nel miscelare generi cinematografici diversi, Ozon ci offre un thriller brillante, erotico e psicologico rendendo omaggio ai thriller psicologici o sovrannaturali degli anni ‘70 ed ‘80. Il regista si inserisce scientemente nella scia dei Polanski, De Palma e Cronemberg, con anche notevoli richiami ad Hitchcock. Un tale approccio poteva essere schiacciante. Invece l’autore riesce, pur nella continua citazione dei Maestri, a rompere gli schemi, esce dall’esercizio del mero omaggio e tributo e, con talento prende in mano la narrazione con uno stile tutto suo personale, dandogli spessore ed autonomia. Ozon sembra letteralmente far sua la sceneggiatura e trascina lo spettatore in una serie di giuochi, piste e manipolazioni che già nel suo precedente Nella Casa aveva dimostrato di saper ben maneggiare. Doppio Amore, in linea con le regole del genere, è un film sufficientemente trasgressivo ed ansiogeno da poter facilmente trascinare l’immaginario dello spettatore in una serie di intrighi narrativi, giocando abilmente con la paura, l’erotismo ed il fantastico. Non tutto è però perfetto, a tratti ci si perde nei vari meandri, ci sono purtroppo degli effetti gratuiti che riducono l’impatto con il sottinteso e l’implicito, c’è qualche elemento un po’ kitsch ed un finale poi troppo spiazzante che lascia delusi. Comunque sia, pur con i difetti di cui sopra, il film è un bel viaggio nei labirinti del subconscio femminile, un buon pretesto per uno studio sulle personalità multiple. Intense le interpretazioni della sua icona M. Vatch e del suo attore feticcio J. Renier, giunto con questa alla terza collaborazione con il regista. Doppio Amore è certamente un film meno convincente di Frantz, anzi molto lontano dalla sua eleganza e bellezza, ma resta pur sempre un buon prodotto di genere, un buon dramma psicologico girato con maestria e mestiere pur con qualche furberia di troppo.
data di pubblicazione:22/04/2018
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da Antonio Jacolina | Apr 11, 2018
Una banda di rapinatori, duri, determinati ed ex appartenenti alle forze speciali, progetta e mette in atto un audace colpo in una banca superblindata. Sulle loro tracce una squadra d’élite della polizia di Los Angeles composta da uomini ancora più duri e violenti che operano con modi assolutamente non convenzionali. Non ci sono buoni o cattivi, ma solo due gruppi che si affrontano senza esclusione di colpi.
Nella tana dei lupi è il primo lungometraggio di Christian Gudegast, collaudato ed affermato sceneggiatore di film d’azione che, passando dietro la macchina da presa, mostra di possedere anche un’apprezzabile maestria e capacità di governare racconto ed azione. Siamo in un film di genere, fra il poliziesco ed il noir, un film maschio, testosteronico ed adrenalinico, uno scontro fra opposti gruppi, rivalità ed anche stima fra capibranco. Un film duro, diretto ed efficace con anche tratti di eleganza nella struttura e nella messa in scena. Gudegast non lascia nulla al caso, si è chiaramente ispirato e misurato con i canoni estetici del ricchissimo genere e con alcuni classici polizieschi: Heat-La Sfida, The Town, e, non ultimo I Soliti Sospetti, non trascurando nemmeno di flirtare abbondantemente con il Western. Siamo nelle atmosfere descritte da J. Ellroy, nella Los Angeles ove le frontiere fra la legge ed il crimine sono molto tenui, sbirri e delinquenti sono buoni e cattivi, simpatici ed antipatici in pari misura. Il film fa man bassa degli archetipi e degli elementi classici dei vari generi: il poliziotto ambiguo, i gruppi contrapposti … L’autore miscela poi sapientemente le varie componenti, le mischia con gli schemi altrettanto classici e popolari del sottogenere della preparazione del colpo grosso ed infine, serve un cocktail molto gradevole, con la ciliegina di un sottofinale a sorpresa che prepara e prelude al sequel già in lavorazione ed ambientato, questa volta, a Londra. Per quanto opportunistico possa apparire il percorso, la realizzazione ed il risultato finale sono però molto efficaci e ne risulta un insieme ricco di emozioni e molto coinvolgente. Nella tana dei lupi è certamente un film con qualche cosa di più rispetto alla media, certo nulla di rivoluzionario, ma apprezzabilissimo per gli appassionati grazie ad una sceneggiatura solida e ben strutturata ed ad una messa in scena stilisticamente molto accurata. Il montaggio è tagliente, il ritmo incalzante, Los Angeles superbamente filmata e l’intero cast, fin nei ruoli più marginali è perfetto e professionale. Finalmente una buona opportunità recitativa per Gerard Butler nei panni del capo della squadra anticrimine, un attore, fino ad oggi sprecato in film d’azione improponibili o in commedie sentimentali zuccherose, che ha saputo qui cogliere forse l’occasione della sua vita disegnando ed interpretando magistralmente la figura del poliziotto dai metodi poco ortodossi. Gli fanno da contr’altare: il capobanda (Pablo Schreiber) e, soprattutto, l’autista della banda (O’Shea Jackson Jr.). Nella tana dei lupi è dunque un film astuto, un thriller-poliziesco moralmente ambiguo fino al finale, un prodotto di discreta qualità che mantiene tutte le promesse attese dagli amanti del genere e li farà felici per quasi due ore di spettacolo. Una buona occasione di svago. Non mancano di certo le inevitabili cadute di tono con dialoghi e situazioni a tratti meccaniche e stereotipate e con la proposizione di cliché con cui però il regista sembra voler scientemente giocare dando così prova di notevole autoironia ed intelligenza.
data di pubblicazione:11/04/2018
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