TUTTI IN PIEDI di Fanck Dubosc, 2018

TUTTI IN PIEDI di Fanck Dubosc, 2018

Preceduto dall’eco del grande successo ottenuto nei mesi scorsi nelle sale francesi, arriva ora da noi Tutti in piedi, l’esordio dietro la macchina da presa di F. Dubosc già apprezzato oltr’Alpe come attore e sceneggiatore di grido. Per il suo debutto come regista l’autore sceglie un tema che non può non farci subito pensare a Quasi Amici, riuscendo, come il duo Nakache e Toledano, ad affrontare, con abilità, nei toni classici della Commedia, e con il giusto grado di delicatezza, di tenerezza ed anche di scherzosità, un tema non certamente facile quale l’incontro con l’handicap.

 

Jocelyn (F. Dubosc) imprenditore di successo, bugiardo e seduttore cronico, profitta di un malinteso per cercare di conquistare la nuova vicina di casa facendole credere di essere costretto su una sedia a rotelle. La ragazza gli presenta però sua sorella Florence (Alexandra Lamy) che è realmente disabile motoria a seguito di un incidente. Come nei migliori classici, Jocelyn si ritrova inevitabilmente preso nei lacci dell’Amore e del suo stesso inganno.

Come dicevamo, siamo proprio nei canoni classici, letterari, teatrali e cinematografici della Commedia: due personaggi, apparentemente totalmente diversi fra loro, si incontrano grazie ad un equivoco o ad una disabilità di uno di loro, per arrivare poi a stimarsi o ad amarsi e successivamente riuscire insieme a far fronte alla Realtà. Un soggetto molto delicato che però Dubosc, regista, sceneggiatore, autore anche dei dialoghi oltre che attore, riesce a trattare con eleganza e tenerezza, senza alcuna condiscendenza, mantenendo sempre i toni brillanti, con una messa in scena ricca di sorprese e con un ritmo costante. Il regista riesce infatti a giocare con i sentimenti dello spettatore senza tradirli e passa abilmente dal riso alle lacrime ed al sorriso grazie alla vivacità delle situazioni attentamente elaborate ed ai dialoghi perfettamente cesellati, trovando sempre il giusto tono anche nel susseguirsi delle varie gag , in un equilibrio perfetto fra commedia e dramma, senza mai cadere nella facile trappola del sentimentalismo o degli stereotipi cui il soggetto poteva indurre. Il successo del film è certamente dovuto anche ad un casting riuscitissimo. Gli attori sembrano divertirsi e ci divertono, una menzione speciale va fatta per la Lamy che è come un raggio di sole nel film e gli da vita quando appare sullo schermo. La sua espressività ci restituisce l’immagine di una donna bella che ha vissuto, riso, sofferto e riflettuto e che, nonostante l’incidente subìto, vuole e riesce ancora ad amare con un fascino emotivo tale da attrarre nell’anima e nel cuore chi pensava di vivere solo del proprio narcisismo. Altro punto di forza della Commedia, oltre ai dialoghi, sono in genere, anche i suoi personaggi secondari, ed infatti nel film, a fianco dei protagonisti, il regista si avvale di uno stuolo di secondi ruoli, tutti più che perfetti. Dunque, Tutti in piedi è, ancora una volta una gradevole, simpatica, elegante e romantica commedia. Una “commedia francese” di charme e bon-ton, in un mix equilibrato di momenti di humour e momenti di tenerezza. Un film che conferma che è possibile fare dei buoni film con dei buoni sentimenti. Film apprezzabili da ogni fascia di pubblico, se solo i nostri distributori avessero l’intelligenza di proporli in tutte le sale cinematografiche e non invece in circuiti limitati. Mi rifiuto infatti, tenacemente, di dover pensare che il nostro pubblico sia più ottuso od abbia meno gusto di quello francese, o, peggio ancora, il contrario.

data di pubblicazione:07/10/2018


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LES ESTIVANTS di Valeria Bruni Tedeschi, 2018

LES ESTIVANTS di Valeria Bruni Tedeschi, 2018

(75.Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

L’istante in cui una coppia si spezza… Anna (Valeria Bruni Tedeschi) è stata lasciata dal compagno (Riccardo Scamarcio) appena pochi attimi prima che lei vada a richiedere un finanziamento per il suo nuovo film e si metta poi in viaggio per riunirsi, come tutte le estati, al resto della sua vasta famiglia nella grande casa in Costa Azzurra.

 

Anche questo quarto film della Bruni Tedeschi, presentato ieri fuori concorso qui alla Mostra, ritorna, quasi riprendendo il filo interrotto nella sua precedente opera Un Castello in Italia del 2013 sul tema familiare e sulla figura del fratello scomparso nel 2006. L’artifizio è il classico film nel film. É difatti nella grande magione altoborghese di famiglia che Anna cerca, pur fra le variegate ed ingombranti presenze dei parenti: la figlia, la sorella con il marito, la madre, la zia, altri amici, segretarie e dame di compagnia, nonostante l’assenza del compagno il cui arrivo è costantemente sollecitato e sperato, prova, dicevamo, a ritrovare se stessa, ad uscire dalla sua confusione emotiva, affettiva e creativa, cercando una ispirazione per riuscire a scrivere la sceneggiatura del suo esile film autobiografico. Nella villa sono tanti, ai familiari si aggiungono ed intrecciano le storie della servitù, un incrocio di storie, di relazioni, fra i “piani alti” ed i “piani bassi”, quasi come in un film di Altman. Nonostante tutto questo cercarsi, parlarsi, incontrarsi, il vero elemento dominante in tutti i piani della villa è però la Solitudine. La solitudine delle occasioni perdute e sprecate e, con essa, la Paura e quindi le speranze residue, le illusioni, i desideri e gli amori tanto agognati quanto frustrati. Con tutto ciò il Tempo, quel tempo che inesorabilmente scorre e porta via i sogni  ed infine la Morte che appare e scompare con il tempo stesso. La Bruni Tedeschi ha ormai un suo proprio stile sia come attrice sia come regista. Può essere tanto allegra, leggera, eterea, delicata, nevrotica, quasi evanescente, quanto anche precisa e tagliente. Questo suo film è ironico, tenero, ingenuo e paradossale, ma anche capace di far sorridere e commuovere senza cadere nella seriosità grazie al dono dell’autoironia con cui la regista descrive se stessa e quello che è stato, e forse ancora è, il suo ambiente familiare altoborghese franco-italiano. Il film ha un buon ritmo, soprattutto nella prima parte è molto gradevole ed elegante nell’alternarsi ed intrecciarsi ironico delle storie fra servitù e padroni, poi rallenta un po’ per tornare a recuperare brillantemente in un finale onirico-felliniano sincero ed appassionante.

La Tedeschi è aiutata e circondata dai suoi veri familiari: la madre, la zia e la figlia ed anche da un affiatato gruppo di attori: l’ottima ed asciutta Valeria Golino nei panni della sorella, l’esperto P. Arditì perfetto nel ruolo del cognato ed inoltre uno stuolo di ottimi, direi magnifici, caratteristi francesi. Un piccolo ma gradevole film, una piacevole e garbata conferma da parte della Tedeschi, Forse la vita privata della privilegiata famiglia della Tedeschi potrà non interessare e probabilmente potrà anche infastidire, ma… se fosse tutto immaginario sarebbe un bel soggetto cinematografico.

data di pubblicazione:07/09/2018








THE NIGHTINGALE di Jennifer Kent, 2018

THE NIGHTINGALE di Jennifer Kent, 2018

(75.Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Dove inizia e dove finisce il Western? Per alcuni non sono veri film western né quelli sulla Frontiera né tantomeno quelli ambientati in Messico, quindi se ciò fosse vero non sarebbero dei veri Western né, da una parte, capolavori come Passaggio a Nord Ovest di K. Vidor del 1940, o il recente Revenant di A. Inarritu del 2015, né, dall’altra parte, capolavori come Vera Cruz di R. Aldrich del 1954, o Il Mucchio Selvaggio di S. Peckinpah del 1969, tanto per citarne alcuni. Inutile entrare nella questione, ogni appassionato resterà della sua convinzione. In senso lato, un po’ per provocazione, un po’ per ricondurre tutto a delle categorie filmiche, potremmo dire che The Nightingale dell’australiana Jennifer Kent, che ne è anche sceneggiatrice e produttrice, è il terzo film western visto qui alla Mostra. La storia non si svolge nelle praterie o fra le Montagne Rocciose del Nord America ma nell’outbush e fra le montagne della Tasmania, ma l’epoca, i personaggi, l’evoluzione del plot e la storia sono sempre gli stessi.

Siamo nella prima metà del 1800, lei è una giovane e coraggiosa ex galeotta irlandese che avuto uccisi il marito, anch’egli ex galeotto, e la figlioletta in fasce, per colpa di un gruppo di ufficiali inglesi che, non paghi, l’hanno pure violentata, decide di abbandonare la piccola fattoria, inseguire il gruppo verso il Nord per farsi giustizia da sola, avvalendosi di un aborigeno assoldato come guida per seguire le tracce del gruppo. La Tasmania era all’epoca, con l’Australia, una selvaggia colonia britannica popolata solo da galeotti ed ex galeotti sottoposti ad attento controllo dell’esercito inglese che contemporaneamente contribuiva alla strage dei nativi che tentavano di ribellarsi. In Tasmania il genocidio ha purtroppo avuto luogo, e l’ultimo aborigeno tasmaniano è morto nel 1886! Sottostante alla storia di superficie: inseguimento, vendetta personale, natura selvaggia, il vero tema del film, anche in questo caso come in tanti recenti western americani, è la perdita dell’identità, della libertà, della propria terra e della propria dignità da parte dei nativi Tasmaniani davanti all’avanzata ed al moltiplicarsi dei coloni britannici protetti dalle loro “giubbe rosse”. Man mano che il viaggio procede, la guida indigena da semplice e necessario “cane da pista”, diviene un essere umano, poi un proprio simile cui riconoscere pari capacità di soffrire, dignità, valori e sentimenti verso i propri morti e verso la propria terra.

Una storia dunque di violenza, di violenza verso le donne, di vendetta e di libertà, una storia tanto antica quanto moderna ed attuale al di là della sua ambientazione. La regista e gli interpreti, pur non essendo particolarmente famosi al di fuori del contesto cinematografico australiano, operano con apprezzabile professionalità, ben inseriti nei loro ruoli. Certo il ritmo e la durata del film sono legati alla logica stessa dell’inseguimento e del maturarsi dei cambiamenti emotivi, indubbiamente una maggiore incisività ed un ritmo più incalzante avrebbe giovato, ma ormai, e qui a Venezia si è provato con mano, un film non può più essere ricondotto nell’ambito dei classici 90’. La pellicola resta comunque interessante, apprezzabile e soddisfacente nel suo genere.

data di pubblicazione:06/09/2018








VOX LUX di Brady Corbet, 2018

VOX LUX di Brady Corbet, 2018

(75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Venezia 2018 documentari belli e strutturati come film dautore e film dautore strutturati come documentariÈ il bello della Mostra. Così può infatti apparire, a prima vista, Vox Lux di Brady Corbet. una pellicola inizialmente sgranata, una voce narrante (la splendida voce di W. Dafoe), macchina a mano, e poi la narrazione ripartita, dopo un prologo, in sezioni riferite agli anni presi in esame per le vicende narrate.

Il giovanissimo autore, l’americano B. Corbet, appena trentenne è già quasi un mostro sacro in quanto apprezzato talento sia come attore sia come regista fin dal suo primo esordio dietro alla macchina da presa con L’Infanzia del capo, premiato proprio qui a Venezia nella sezione Orizzonti nel 2015, e si concede autorialmente questo vezzo per affrontare senza inibizioni l’appuntamento con la sua opera seconda in concorso al Festival. L’avvio semidocumentaristico di cui dicevamo è infatti lo spunto per il regista per concentrarsi sugli ultimi venti anni, dal 1999 al 2017, illustrando gli eventi che hanno segnato definitivamente il nostro modo di vivere e pensare e che hanno inciso e modificato per sempre i comportamenti sociali e culturali del Mondo Occidentale in senso lato. Come ha dichiarato in conferenza stampa lo stesso regista: “il suo è un racconto sulla sindrome post-traumatica dell’Occidente, una riflessione sull’ansia collettiva che ci caratterizza ormai tutti… e… sull’intreccio fra cultura pop, spettacolo e violenza…”

Lo spunto narrativo interessante è la vicenda della giovane Celeste (Raffey Cassidy, da adolescente, e poi Natalie Portman, da adulta) sopravvissuta alle ferite riportate durante una strage nella scuola ove studiava e divenuta poi, quasi inconsapevolmente, una pop singer conosciuta ed idolatrata in tutto il mondo, aiutata dalla sorella (Stacy Martin) che, in effetti è la vera autrice dei testi e delle musiche. Metaforicamente, come la nostra Società anche Celeste subisce una trasformazione, e da dolce, ingenua, pulita e sincera ragazza la ritroviamo, passato un decennio, ormai divenuta una donna cinica, dura, indifferente ed egoista, una star violenta, irrispettosa e priva di affetto per la figlia e preoccupata solo per la sua carriera, un essere privo di riconoscenza anche verso la sorella che sempre l’ha sostenuta in tutte le sue vicende umane ed artistiche. Celeste è, secondo il regista, tutta la nostra Società che, persa ormai definitivamente la propria innocenza, in una sorta di sindrome post trauma, vive ormai cinicamente in un alternarsi umorale con la dura realtà che è costretta ad affrontare. Due anni dopo Jackie e lo splendido Il cigno nero del 2008, torna sugli schermi di Venezia una bravissima ed autorevole N. Portman nei panni di Celeste allorché è divenuta ormai una Star tanto brava, quanto disperata e sgradevole. Nel film l’attrice canta e balla su musiche composte da una cantante pop australiana e si conferma splendida interprete sia nella recitazione sia nelle parti coreografiche, con lei anche un buon Jude Law nel ruolo del suo agente. Sembra tutto perfetto, ottimo regista, ottimi interpreti, ottimi coprotagonisti, soggetto interessante… ma … ma il risultato è un film discontinuo. Sembra che qualcosa si sia perso strada facendo. L’opera è bella, ben recitata, ben diretta, ma è come priva di anima e vita, manca una vera passione ed il risultato sembra quasi didascalico…”ecco quel che volevamo rappresentare…”. Anche questo film quindi è un film di un valido autore, ma proprio per questo non basta essere “più che sufficienti”, ci si aspettava decisamente qualcosa di più.

data di pubblicazione:05/09/2018







AT ETERNITY’S GATE (ALLE PORTE DELL’ETERNITÀ) di Julian Schnabel, Venezia 2018

AT ETERNITY’S GATE (ALLE PORTE DELL’ETERNITÀ) di Julian Schnabel, Venezia 2018

(75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Dio è natura, e la natura è bellezza in queste parole pronunciate da Van Gogh (W. Dafoe) è riassunto tutto il significato e la vera chiave di lettura con cui il cinquantenne e talentuoso regista americano J. Schnabel ha inteso rappresentare il rapporto con la natura del pittore olandese negli ultimi tormentati ma anche fruttuosi anni della sua vita. Anni spesi tutti fra le campagne di Arles nel sud della Francia, alla ricerca ossessiva della giusta luce e del giusto sole per i suoi paesaggi, fra gli incontri scontri con Gaugin e fra continui ricoveri e dimissioni dal nosocomio di Saint Remy.

 

Schnabel si è affermato giovanissimo con un film su un altro pittore maledetto, Basquiat nel 1998, ha poi vinto ai festival di Venezia e di Cannes fino all’Oscar come migliore regista nel 2008 con il suo Lo scafandro e la farfalla. Appassionato ed apprezzato pittore oltre che regista, l’autore ci racconta, con cognizione di causa e dichiarata empatia, tutte le difficoltà dell’essere pittore, del dipingere la Natura, la ricerca dell’attimo di follia sottostante l’esplodere della scintilla creativa/artistica. Come da sua dichiarazione resa durante il Festival, il suo intento era proprio di centrare il suo racconto sul “significato e sul tormento dell’essere artista”. Il film può quindi essere tutto qui, non siamo però davanti ad un classico biopic, anzi siamo ben lontani, forse anche per qualità, da quelli che lo hanno preceduto: Brama di vincere del 1956 di V. Minnelli, con un indimenticabile K.Douglas, e dal più recente Vincent e Theo del 1998 di R. Altman, e poi ovviamente, lontanissimi dalle tante produzioni più o meno divulgative od artistiche sul pittore olandese che unitamente al nostro Caravaggio, per drammaticità delle loro vite, per l’eccezionalità della loro Arte e per l’amore degli appassionati, condivide il record di essere al centro di innumerevoli documentari o fiction in tutto il mondo.

È quindi proprio e solo sulla vicenda dell’essere artista di Van Gogh che si sofferma il regista cercando di renderci con passione e partecipazione gli aneliti della sua anima, la sua sensibilità, l’affannosa ricerca creativa, la complessità ed il tormento della sua fragile personalità. Schnabel si fa però prendere proprio da questa sua passione, da questa sua empatia, tenta di trasmetterci quanto prova l’artista, ed ecco allora che la macchina da presa viene volutamente usata quasi come un pennello, quasi a voler restituire allo spettatore la follia visionaria del pittore. Abbondano quindi primi piani prolungati, ci sono inquadrature sfuocate, dissolvenze, camera a mano che accompagna l’artista nel suo camminare, quasi pellegrino, fra le campagne ed i boschi alla ricerca dell’attimo e dell’apparizione del Paesaggio, dell’Infinito e dell’Eternità. Ne risulta così, a tratti, quasi danneggiata anche l’intensa e vibrante interpretazione di W. Dafoe, supportato da un pregevole cameo di una splendida E. Seigner. Purtroppo questo eccesso di mentalismo e le contraddizioni di cui sopra rallentano ed appesantiscono il giusto ritmo del film ed incidono fin troppo sul modo di raccontare, riducendo brio ed incisività. Dunque, uno Schnabel sempre autoriale e buono, ma molto lontano dalle eccellenze cui ci eravamo un po’ abituati.

data di pubblicazione:04/09/2018