da Antonio Jacolina | Ott 23, 2018
(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 13ma Edizione, 18/28 ottobre 2018)
Starr (Amandla Stenberg) è una 16nne afro-americana, vive due vite. La prima nel suo quartiere periferico ed emarginato dove la maggior parte delle persone sono nere e povere e dove dominano le gang e le droghe. La seconda è invece nel suo ambiente scolastico in uno dei migliori istituti privati della città ove l’hanno iscritta i genitori per darle migliori opportunità e dove il contesto è bianco e ricco. Non è facile per la ragazza vivere in equilibrio in questi due mondi così lontani e diversi fra loro. Un giorno, dopo una festa da vicini di casa, un suo amico d’infanzia viene ucciso senza aver fatto nulla da un poliziotto bianco. Starr è l’unica testimone, gli equilibri saltano ed inizia per lei un viaggio di scoperta di se stessa, delle sue convinzioni, appartenenze e verità …
Tillman è un affermato sceneggiatore e discreto regista americano che ha esordito nel 2000 con Men of honor e ci regala oggi un’opera forte, evocativa e bella, tratta da un romanzo di successo di pari titolo di A. Thomas. Un film che può sembrare essere solo una storia di crescita e formazione giovanile, un teen-movie sui problemi amorosi adolescenziali, in realtà il regista sa andare ben oltre lo spirito narrativo di cornice e realizza un lavoro che parla non solo ad un audience giovanile ma anche ad un pubblico adulto di tutte le età. Difatti, sia pure dalla prospettiva di una giovane, ci fa riflettere tutti su: dignità dell’individuo, forza della verità, solidarietà familiare, giustizia sociale ed identità individuale e collettiva.
Starr è una ragazza che è alla ricerca del suo “essere chi” e scopre ciò in cui credere e ciò che effettivamente è, solo dopo una presa di coscienza di se stessa davanti alla brutalità della polizia, del razzismo e della violenza di ogni tipo. Tutto il film è in perfetto equilibrio fra mondo scolastico e storia individuale da una parte, e mondo emarginato e dramma sociale dall’altra, senza sacrificare mai spazio e qualità di nessuna delle due parti. La narrazione è supportata da una buona sceneggiatura dietro la quale si vede tutta la forza del libro da cui è tratta, i dialoghi sono ben definiti e realistici, il ritmo è costante senza pause o cedimenti. La regia sa poi abilmente alternare momenti di allegria o leggeri con svolte drammatiche, sentimenti di dolcezza e rabbia individuale con sentimenti di commozione e rabbia collettiva. La composizione del cast, come tipico delle produzioni americane, è perfetta fin nei ruoli più marginali. Emerge su tutti, e, praticamente, illumina il film con la sua bellezza e con il suo splendido sorriso, la giovanissima e talentuosa Stenberg. La sua interpretazione ha una forza creativa che cresce in capacità e profondità in ogni scena, cesellando con intensità il suo personaggio. Nel ruolo del padre giganteggia Russel Hornsby.
Il film di Tillman è senza dubbio un film da vedere e da godere, uno dei suoi migliori. Un film che è anche fortemente rappresentativo della realtà odierna della comunità nera degli Stati Uniti, stretta fra una nuova auto rappresentazione di se stessa sul piano della famiglia, della comunità, delle nuove generazioni e, di contro, la permanenza di vecchi pregiudizi e mai scomparsi razzismi. Un film che è uno sguardo giovane, fresco e consapevole su tale realtà e che merita tutta la simpatia, l’empatia e gli apprezzamenti dello spettatore. Decisamente un bel film.
data di pubblicazione:23/10/2018
da Antonio Jacolina | Ott 22, 2018
(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 13ma Edizione, 18/28 ottobre 2018)
Agosto 2000, il sottomarino nucleare russo Kursk affonda, a seguito di alcune esplosioni, nel mare di Barents. Solo 23 membri dell’equipaggio riescono a rifugiarsi nell’unico scompartimento stagno rimasto intatto. Mentre a bordo i marinai lottano per sopravvivere, a terra le loro famiglie lottano contro la cortina di silenzio che le autorità cercano di porre attorno all’incidente. Una corsa contro il tempo per salvarli fra le inefficienze dei soccorsi e le esitazioni politiche se accettare o meno gli aiuti internazionali.
Thomas Vinterberg, sceneggiatore e celebrato regista danese, ci propone un film che è agli antipodi della Carta Cinematografica Dogma 95 di cui egli stesso è stato uno dei cofondatori ma da cui si è ormai molto allontanato da anni, passando così da Festen fino al remake di Via dalla pazza folla. Siamo difatti ben lontani dai vincoli di verità e sinteticità imposti dal Movimento, siamo piuttosto nel filone tutto commerciale del drama-movie centrato su un evento catastrofico, nella ennesima riproposizione di una “storia vera” senza però avere la profondità analitica di un documentario. La pellicola traendo spunto dall’evento agisce infatti in assoluta libertà creativa ed inventiva nel generale contesto degli eventi reali di cui, fra l’altro, moltissimi sono gli enigmi ancora insoluti.
Il film si apre con una citazione de Il cacciatore e richiama ovviamente le varie atmosfere di U-Boot96 e di tanti film sui sommergibili, nel corso della narrazione l’attenzione si sposta però velocemente sul lato umano della tragedia, sui suoi effetti nelle azioni e nella psiche dei marinai intrappolati e nella vita dei loro familiari. L’occhio del regista si focalizza sul dolore, sulla perdita, sui valori della famiglia, della fratellanza, del mutuo sostegno, sulla vita e sulla morte. Il sottomarino e l’incidente sono come uno specchio che riflettono il dolore umano del vivere sotto l’assillo del Tempo che passa e l’effetto di forza consolatoria che riesce ad avere la solidarietà.
Il risultato di tale impegno è un lavoro intenso, ben costruito, egregiamente realizzato, con un ritmo coinvolgente. La messa in scena è sobria, priva degli artifizi rutilanti delle produzioni hollywoodiane ed il cast è un cast tutto europeo. Fra i tanti spiccano il talentuoso attore danese Matthias Schoenaerts nei panni di un ufficiale di bordo, la francese Léa Saydoux in quelli della sua combattiva moglie e Colin Firth un alto ufficiale della Marina Britannica.
Ciò non di meno, Kursk è un lavoro riuscito solo in parte. Il film, nonostante tutto l’impegno, perde infatti mordente proprio quando esce dal dramma claustrofobico chiuso nelle pareti dello scafo inabissato e va a seguire il dramma parallelo delle famiglie a terra. L’alchimia non funziona, i due piani narrativi sembrano quasi due diversi film, due diverse mano.
Pur con questo difetto il lavoro di Vinterberg resta comunque accettabile perchè sostenuto dal suo innegabile mestiere di regista. Un film accettabile ma convenzionale che pur pieno di buoni propositi e buoni sentimenti non suscita nessuna empatia o reazione da parte dello spettatore. Proprio da Vinterberg ci saremmo aspettato molto di più.
data di pubblicazione:22/10/2018
da Antonio Jacolina | Ott 19, 2018
(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 13ma Edizione, 18/28 ottobre 2018)
Una magica avventura vissuta dal giovane Lewis (Owen Vaccaro) che rimasto orfano va a vivere dal misterioso ed eccentrico zio Jonathan (Jack Black) in una casa particolare ma apparentemente tranquilla. Ben presto il ragazzino si rende conto di strani fenomeni e presenze tutto attorno a lui e scopre anche che lo zio e la sua vicina Mme Zimmerman (Cate Blanchet) sono in realtà dei maghi e che dentro le mura della casa è nascosto un orologio capace di provocare … la fine del mondo!
Eli Roth, sceneggiatore ed attore americano, è conosciuto come regista per la sua realizzazione di film splatter e gore che altro non sono che sottogeneri del cinema horror per adulti. Quanto di più macabro, sanguinolento e violento si possa immaginare. Chi avrebbe mai potuto pensare che dopo gli eccessi dei suoi film l’autore avrebbe saputo annacquare i suoi furori dirigendo un film come questo, destinato invece ad un pubblico di famiglie e di giovanissimi, traendo ispirazione da un romanzo per ragazzi di costante gran successo negli Stati Uniti: Il Mistero della Casa nel Tempo di J. Bellair, pubblicato nel remoto 1973. Il regista è di certo lontanissimo dall’avere il gusto o il tocco di Spielberg nel saper passare da un genere all’altro, eppure questo non gli impedisce di mettersi alla prova in un cinema del tutto opposto a quello da lui abitualmente frequentato e cimentarsi con quest’ultima sua pellicola nel mondo del Fantasy e Mistery per il grande pubblico. L’autore attinge palesemente sia al mondo della “magia bianca” di Harry Potter, sia all’universo della “magia nera” di Tim Burton senza però eguagliare la ricchezza del primo né riproporre la follia poetica del secondo. Siamo anche dalle parti di Jumanji e di Cronache di Narnia in una storia parimenti ricca di trovate ingegnose e di personaggi accattivanti ed anche in quelle dei Gremlins ma, in ogni caso arriviamo anni ed anni dopo di loro, è stato tutto già visto e ne siamo distanti anche per qualità!
Comunque sia, nulla di nuovo, la lotta fra il Bene ed il Male è una costante e funziona sempre, come funzionano sempre anche il percorso di crescita adolescenziale e la famiglia. Il risultato dell’operazione risulta quindi accettabile, soprattutto grazie anche al notevole contributo di attori talentuosi ed in particolar modo di C. Blanchet. Sia la due volte premio Oscar che J. Black sono infatti molto convincenti ed a loro agio nei panni dei loro personaggi e ci divertono sembrando divertirsi anch’essi. Certo a tratti non si può non pensare con nostalgia a Robin Williams ed a quanto sarebbe stato a pennello nel ruolo dello zio. La prima parte del film risulta però troppo lunga e lenta, il regista non riesce infatti a catturare immediatamente l’attenzione dello spettatore ed il film sembra così girare un po’ a vuoto. L’ingresso in scena dei due attori riesce però a restituire un po’ di ritmo e un po’ di magnetismo all’azione e la pellicola finalmente decolla sostenuta dalla direzione artistica che gioca fra sequenze ipercolorate e sequenze scure, senza ovviamente tralasciare lo spirito e le atmosfere gotiche del romanzo originale. Pur non totalmente riuscito The house with a clock in its walls è comunque una discreta commedia fantasy per famiglie, colorata e kitch, che regala quasi due ore di distrazione gentilmente inquietante, qualche brivido e nulla più. Un film quindi che, di sicuro, non rivoluziona né porta nulla di nuovo al Fantasy, ma che comunque resta pur sempre un discreto prodotto per ragazzi, ricco di creatività ed un bell’omaggio alla magia, che trova una sua esatta collocazione nella fascia media, media-alta del Genere. Quanto poi alla traiettoria creativa di Eli Roth va forse detto che il regista resta tuttora una speranza di genialità artistica che non si è però ancora concretizzata nella sua interezza perché l’autore sembra non riuscire a liberarsi da una sua visione del cinema quasi come pietrificata e da una scrittura troppo rigida che lo confinano ancora in un segmento di qualità molto, molto, molto lontano da possibili modelli quali i Tim Burton, gli Zemekis o gli Spielberg.
data di pubblicazione:19/10/2018
da Antonio Jacolina | Ott 18, 2018
(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 13ma Edizione, 18/28 ottobre 2018)
Drew Goddard apprezzato sceneggiatore e regista statunitense (Quella casa nel bosco, 2011), inaugura con la sua opera seconda la 13ma edizione della Festa del Cinema di Roma. Il film è ambientato nella fine degli anni 60. Sette personaggi si incontrano in un hotel fra la California ed il Nevada. L’albergo, oggi decaduto e quasi deserto, è stato nel passato un dorato rifugio di ricchi e famosi d’ogni tipo ed origine. Ognuno dei sette sconosciuti non è ciò che pretende di essere e nasconde un segreto, dal curioso al terribile fino al pericoloso. Durante la notte avranno tutti la possibilità di rivedere le proprie vite e …
Un inizio fulminante. Fin dalla prima sequenza il regista si impadronisce dello spettatore e lo incatena subito alla sua poltrona. Tutta la prima parte del film è infatti assolutamente affascinante ed ipnotizza letteralmente, nell’intento esplicito di omaggiare sia il cinema noir, sia la letteratura poliziesca dell’epoca, sia il Tarantino di The Hateful Eight, riproponendone atmosfere, situazioni, riprese, dialoghi e strutture narrative. Come già nel suo primo film Goddard intendeva decostruire il Genere Horror, così in questa sua nuova opera decostruisce di fatto e con notevole perizia filmica, tutto il Cinema Noir Classico ricorrendo ad una messa in scena complessa, articolata su più piani visivi e narrativi, una sorta di film multiplo, in cui ripropone tutti gli stilemi del Genere ed anche i suoi stessi sottogeneri fino all’hard boiled. Ne risulta un suggestivo mix fra noir, mistery-movie, dramma criminale, thriller, film di rapina e gangster con non ultimo e, quasi ovviamente nel sottofinale, un classico rimando al modello dei modelli: il Western. In una parola, Goddard destruttura tutto quanto lo spettatore già conosce e si attende e, gli restituisce in cambio un modello tutto nuovo, tutto diverso, ma parimenti intrigante: un film Neo-Noir.
Il prodotto è tecnicamente ben costruito con una serie di flash-backward e back stories che grazie all’abilità del regista sembrano inserirsi quasi per magia nelle vicende rappresentate. Al centro della narrazione e di ogni singola storia è sempre il tema costante dell’autore, vale a dire il ritratto della condizione umana e la sua eterna dualità, quale che essa sia, fra verità e menzogna, tra avidità e falsa saggezza. Il risultato finale è un film sorprendente, interessante che non lascia mai indifferenti, ma, pur tuttavia, a voler essere molto esigenti, un film che resta in parte non perfetto, incompleto.
Difatti la somma di intrighi e situazioni, per quanto ben costruiti, conduce al Nulla e, proprio quando il regista vorrebbe o dovrebbe dire qualche cosa di più, viene a mancare quel guizzo talentuoso che, viste le premesse, ci si aspetterebbe e l’autore sembra quasi adagiarsi nel mero compiacimento del raccontare le singole storie, nell’eccesso di fatti e spiegazioni, perdendosi così nell’autocontemplazione stessa. Nonostante un finale lungo e magnifico, la seconda parte del film è difatti molto più convenzionale e perde un bel po’ del ritmo iniziale. L’impegno del regista e sceneggiatore è ben supportato da un gruppo di attori tutti perfetti, ben calibrati ed a loro agio nei ruoli, su tutti spicca l’interpretazione del sempre grande J. Bridges. Fa poi da sottofondo costante una colonna sonora di musiche anni sessanta precisa, come altrettanto precisa è la ricostruzione della location e la scelta dei toni dei colori d’epoca della splendida fotografia e delle messe in scena. Pur se parzialmente imperfetto Bad Times at the El Royale resta pur sempre una conferma di un regista da continuare a seguire con attenzione per abilità e personalità e, soprattutto, un eccellente esempio di buon cinema popolare finemente confezionato e godibile dall’inizio alla fine.
data di pubblicazione:18/10/2018
da Antonio Jacolina | Ott 13, 2018
Ancora una volta un film campione di incassi in Francia, ancora una volta il cinema francese ci regala l’opportunità di apprezzare quanto i bei ruoli di donna dominino la cinematografia di oltr’Alpe. Abbiamo già ammirato Vittoria in Tutti gli uomini di Vittoria; Aurore in 50 Primavere; Isabelle in L’amore secondo Isabelle; ed oggi abbiamo Nathalie.
Nathalie (Karin Viard), divorziata, è una donna bella e desiderabile, cinquantenne, professoressa in un Liceo parigino e madre di una diciottenne in procinto di far carriera nel mondo della danza classica. Tutto perfetto, almeno così sembrerebbe, il suo mondo inizia però a vacillare all’improvviso, quando d’un tratto si rende conto della sua reale solitudine affettiva e della sua imprevista posizione di debolezza e fragilità. La figlia, sempre più indipendente, può divenire anche una concorrente potenziale, una giovane professoressa insidia il suo prestigio e ruolo proponendo nuovi e migliori metodi didattici, l’ex marito ha una nuova e bella compagna. La svolta esistenziale, i 50 anni, divengono un peso e Nathalie inizia a considerare con occhio diverso il complicato mondo che la circonda e … si difende e … aggredisce tutti!
I fratelli Foenkinos, già affermati scrittori e sceneggiatori, a 6 anni dal loro primo lungometraggio La Delicatezza, ispirandosi ad un loro soggetto originale, tornano a firmare insieme un film dolce ed amaro, a metà strada fra la commedia graffiante e spassosa ed il dramma psicologico. Ci disegnano, con assoluta sensibilità e leggerezza, senza condiscendenze ipocrite, un delicato ritratto di una donna amabile ma destabilizzata dal passaggio dell’età. Costante della produzione filmica dei due fratelli è la descrizione dello stato di incertezza dei momenti di passaggio cruciali della vita, difatti, mentre nella loro opera prima la protagonista affrontava il disagio del lutto e della perdita, questa volta il tema è il disagio dell’ètà che avanza, le ambivalenze e le meschinerie, l’incapacità di condividere le gioie altrui e, non ultimo, anche il tabù della gelosia fra madre e figlia. I registi sono molto bravi, senza voler giudicare navigano abilmente fra dramma e commedia, mantenendo un giusto equilibrio, descrivendo solo le mille sfaccettature di un personaggio complesso, fino al punto che lo spettatore si affeziona alle sue traversie. Nathalie è difatti così totalmente umana ed autentica che nonostante le sue cattiverie, fra lei e lo spettatore non può non scattare una certa complicità. E’ una donna mezzo angelo e mezzo demonio che l’interpretazione della Viard, evitando ogni aspetto caricaturale, rende divertente, umana e simpatica, addolcendone così le tante sfaccettature ed evidenziandone, pur nella comicità delle situazioni, la sofferenza interiore di una persona che è pur conscia dei propri eccessi. Un ruolo che sembra costruito per esaltare proprio le capacità artistiche dell’attrice. Attorno a lei un cast di secondi ruoli impeccabili e ben disegnati. La scrittura del racconto è efficace, i dialoghi sono intelligenti, veri e sottilmente calibrati ed il susseguirsi di situazioni mantiene sempre elevato il ritmo narrativo. L’esito complessivo è discreto.
Alla fine il transfert cinematografico ricercato dai registi riesce perfettamente e lo spettatore si identifica totalmente in Nathalie perché riconosce in lei e nelle sue reazioni qualcosa di nascosto che sente potenzialmente anche proprio. Il complicato mondo di Nathalie è dunque una commedia dallo humour molto corrosivo che però funziona egregiamente e che regala allo spettatore anche un divertente processo di autoanalisi in compagnia della bellezza luminosa della brava Viard.
data di pubblicazione:13/10/2018
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