da Antonio Jacolina | Ott 31, 2018
Una magica avventura vissuta dal giovane Lewis (Owen Vaccaro) che rimasto orfano va a vivere dal misterioso ed eccentrico zio Jonathan (Jack Black) in una casa particolare ma apparentemente tranquilla. Ben presto il ragazzino si rende conto di strani fenomeni e presenze tutto attorno a lui e scopre anche che lo zio e la sua vicina Mme Zimmerman (Cate Blanchet) sono in realtà dei maghi e che dentro le mura della casa è nascosto un orologio capace di provocare … la fine del mondo!
Eli Roth, sceneggiatore ed attore americano, è conosciuto come regista per la sua realizzazione di film splatter e gore che altro non sono che sottogeneri del cinema horror per adulti. Quanto di più macabro, sanguinolento e violento si possa immaginare. Chi avrebbe mai potuto pensare che dopo gli eccessi dei suoi film l’autore avrebbe saputo annacquare i suoi furori dirigendo un film come questo, destinato invece ad un pubblico di famiglie e di giovanissimi, traendo ispirazione da un romanzo per ragazzi di costante gran successo negli Stati Uniti: The house with a clock in its walls
di J. Bellair, pubblicato nel remoto 1973. Il regista è di certo lontanissimo dall’avere il gusto o il tocco di Spielberg nel saper passare da un genere all’altro, eppure questo non gli impedisce di mettersi alla prova in un cinema del tutto opposto a quello da lui abitualmente frequentato e cimentarsi con quest’ultima sua pellicola nel mondo del Fantasy e Mistery per il grande pubblico. L’autore attinge palesemente sia al mondo della “magia bianca” di Harry Potter, sia all’universo della “magia nera” di Tim Burton senza però eguagliare la ricchezza del primo né riproporre la follia poetica del secondo. Siamo anche dalle parti di Jumanji e di Cronache di Narnia in una storia parimenti ricca di trovate ingegnose e di personaggi accattivanti ed anche in quelle dei Gremlins ma, in ogni caso arriviamo anni ed anni dopo di loro, è stato tutto già visto e ne siamo distanti anche per qualità!
Comunque sia, nulla di nuovo, la lotta fra il Bene ed il Male è una costante e funziona sempre, come funzionano sempre anche il percorso di crescita adolescenziale e la famiglia. Il risultato dell’operazione risulta quindi accettabile, soprattutto grazie anche al notevole contributo di attori talentuosi ed in particolar modo di C. Blanchet. Sia la due volte premio Oscar che J. Black sono infatti molto convincenti ed a loro agio nei panni dei loro personaggi e ci divertono sembrando divertirsi anch’essi. Certo a tratti non si può non pensare con nostalgia a Robin Williams ed a quanto sarebbe stato a pennello nel ruolo dello zio. La prima parte del film risulta però troppo lunga e lenta, il regista non riesce infatti a catturare immediatamente l’attenzione dello spettatore ed il film sembra così girare un po’ a vuoto. L’ingresso in scena dei due attori riesce però a restituire un po’ di ritmo e un po’ di magnetismo all’azione e la pellicola finalmente decolla sostenuta dalla direzione artistica che gioca fra sequenze ipercolorate e sequenze scure, senza ovviamente tralasciare lo spirito e le atmosfere gotiche del romanzo originale. Pur non totalmente riuscito Il Mistero della Casa nel Tempo è comunque una discreta commedia fantasy per famiglie, colorata e kitch, che regala quasi due ore di distrazione gentilmente inquietante, qualche brivido e nulla più. Un film quindi che, di sicuro, non rivoluziona né porta nulla di nuovo al Fantasy, ma che comunque resta pur sempre un discreto prodotto per ragazzi, ricco di creatività ed un bell’omaggio alla magia, che trova una sua esatta collocazione nella fascia media, media-alta del Genere. Quanto poi alla traiettoria creativa di Eli Roth va forse detto che il regista resta tuttora una speranza di genialità artistica che non si è però ancora concretizzata nella sua interezza perché l’autore sembra non riuscire a liberarsi da una sua visione del cinema quasi come pietrificata e da una scrittura troppo rigida che lo confinano ancora in un segmento di qualità molto, molto, molto lontano da possibili modelli quali i Tim Burton, gli Zemekis o gli Spielberg.
data di pubblicazione:31/10/2018
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da Antonio Jacolina | Ott 28, 2018
I Cartelli Messicani del narcotraffico si occupano anche del lucroso transito clandestino di esseri umani e di infiltrare terroristi nel territorio degli Stati Uniti. Dopo aver subito da parte di quest’ultimi un sanguinoso attacco suicida, il Governo Americano decide di reagire usando gli stessi metodi brutali dei nemici che combatte, organizzando il rapimento della figlia di un capo clan, facendone ricadere la colpa su gang rivali e scatenare così una guerra fratricida fra le bande del Cartello. Della missione segreta è incaricato l’agente Graves (Josh Brolin) e con lui anche il misterioso Alejandro (Benicio del Toro). La situazione però degenera, occorrerà chiudere l’operazione costi quel che costi.
Dopo il grande successo di critica e di pubblico, ottenuto nel 2015 da Sicario era più che evidente che avremmo presto visto un suo seguito. Soldado riprende infatti tutti gli elementi del precedente film, a partire dalla valida sceneggiatura dell’ottimo Taylor Sheridan, i luoghi poi sono sempre gli stessi: i territori selvaggi della frontiera fra Messico e Stati Uniti, anzi, il senso del paesaggio è proprio uno degli elementi di continuità, unitamente alla lotta contro i Cartelli ed ai due protagonisti, due personaggi sempre più disillusi e privi di scrupoli in un universo ancora più brutale e cupo. La nuova pellicola non è però la semplice replica di quella che abbiamo già visto, tutt’altro. L’italiano Sollima che, dopo il successo di Gomorra, subentra nella regia al pluripremiato canadese Villeneuve (Blade Runner 2049), vince senza alcun dubbio la scommessa di questa sua prima produzione internazionale. Il nostro regista afferma la sua diversità stilistica e la sua personale visione creativa ricreando tutto un altro mondo in cui la violenza è l’elemento dominante unitamente alla corruzione che pervade un universo amorale, selvaggio e brutale ove gli individui lottano solo per la sopraffazione o la sopravvivenza. Mentre il tocco di Villeneuve era un po’ visionario ed estetizzante, quello di Sollima è invece molto più realistico, direi classico, essenziale e decisamente orientato verso l’azione con scene spettacolari di formidabile efficacia e di assoluto virtuosismo cinematografico. In questo nuovo duro contesto, in questo “abisso” non c’è più posto per protagoniste femminili, e l’autore concede così molto più spazio ai due carismatici protagonisti e alla costruzione di una realtà ormai solo e soltanto tutta maschile. Brolin e B. del Toro, entrambi sempre talentuosi e tesi ad approfondire il lato umano dei loro personaggi, sono perfetti in due parti tagliate sempre più su misura per loro. Il primo è imponente con la sua recitazione classica, il secondo, con una interpretazione di prim’ordine, accentua l’aspetto tenebroso e fascinoso del personaggio che diviene tanto più ambiguo quanto più sembra assumere una rilevanza tutta sua nell’evoluzione della storia stessa.
Un sequel dunque di notevole robustezza, intensità e personalità, supportato da una messa in scena efficace, da tecniche di ripresa affascinanti, da una regia asciutta e rigorosa, da un montaggio con un ritmo incalzante ed adrenalinico senza mai tempi morti che affascina letteralmente lo spettatore unitamente ad una musica ossessiva, cupa ed opprimente che sottolinea però perfettamente lo svolgersi dell’azione, la tensione e gli scoppi di violenza.
Soldado è un ottimo film di genere, un eccellente thriller d’azione, certo è anche cinema commerciale ma è di buona fattura e molto convincente. Il film è poi pervaso da una singolare vena di malinconia, di tristezza e assurdità fuori del tempo, quasi fosse preso dal “senso della fine” provato dai suoi eroi/antieroi, che richiama esplicitamente le atmosfere proprie di un western crepuscolare. Per gli appassionati del genere le due ore di spettacolo voleranno via troppo velocemente, ma … si preannuncia già nel finale stesso, l’arrivo di un terzo e forse conclusivo episodio.
data di pubblicazione:28/10/2018
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da Antonio Jacolina | Ott 27, 2018
Drew Goddard apprezzato sceneggiatore e regista statunitense (Quella casa nel bosco, 2011), ha inaugurato con la sua opera seconda la 13ma edizione della Festa del Cinema di Roma. Il film è ambientato nella fine degli anni 60. Sette personaggi si incontrano in un hotel fra la California ed il Nevada. L’albergo, oggi decaduto e quasi deserto, è stato nel passato un dorato rifugio di ricchi e famosi d’ogni tipo ed origine. Ognuno dei sette sconosciuti non è ciò che pretende di essere e nasconde un segreto, dal curioso al terribile fino al pericoloso. Durante la notte avranno tutti la possibilità di rivedere le proprie vite e …
Un inizio fulminante. Fin dalla prima sequenza il regista si impadronisce dello spettatore e lo incatena subito alla sua poltrona. Tutta la prima parte del film è infatti assolutamente affascinante ed ipnotizza letteralmente, nell’intento esplicito di omaggiare sia il cinema noir, sia la letteratura poliziesca dell’epoca, sia il Tarantino di The Hateful Eight, riproponendone atmosfere, situazioni, riprese, dialoghi e strutture narrative. Come già nel suo primo film Goddard intendeva decostruire il Genere Horror, così in questa sua nuova opera decostruisce di fatto e con notevole perizia filmica, tutto il Cinema Noir Classico ricorrendo ad una messa in scena complessa, articolata su più piani visivi e narrativi, una sorta di film multiplo, in cui ripropone tutti gli stilemi del Genere ed anche i suoi stessi sottogeneri fino all’hard boiled. Ne risulta un suggestivo mix fra noir, mistery-movie, dramma criminale, thriller, film di rapina e gangster con non ultimo e, quasi ovviamente nel sottofinale, un classico rimando al modello dei modelli: il Western. In una parola, Goddard destruttura tutto quanto lo spettatore già conosce e si attende e, gli restituisce in cambio un modello tutto nuovo, tutto diverso, ma parimenti intrigante: un film Neo-Noir.
Il prodotto è tecnicamente ben costruito con una serie di flash-backward e back stories che grazie all’abilità del regista sembrano inserirsi quasi per magia nelle vicende rappresentate. Al centro della narrazione e di ogni singola storia è sempre il tema costante dell’autore, vale a dire il ritratto della condizione umana e la sua eterna dualità, quale che essa sia, fra verità e menzogna, tra avidità e falsa saggezza. Il risultato finale è un film sorprendente, interessante che non lascia mai indifferenti, ma, pur tuttavia, a voler essere molto esigenti, un film che resta in parte non perfetto, incompleto.
Difatti la somma di intrighi e situazioni, per quanto ben costruiti, conduce al Nulla e, proprio quando il regista vorrebbe o dovrebbe dire qualche cosa di più, viene a mancare quel guizzo talentuoso che, viste le premesse, ci si aspetterebbe e l’autore sembra quasi adagiarsi nel mero compiacimento del raccontare le singole storie, nell’eccesso di fatti e spiegazioni, perdendosi così nell’autocontemplazione stessa. Nonostante un finale lungo e magnifico, la seconda parte del film è difatti molto più convenzionale e perde un bel po’ del ritmo iniziale. L’impegno del regista e sceneggiatore è ben supportato da un gruppo di attori tutti perfetti, ben calibrati ed a loro agio nei ruoli, su tutti spicca l’interpretazione del sempre grande J. Bridges. Fa poi da sottofondo costante una colonna sonora di musiche anni sessanta precisa, come altrettanto precisa è la ricostruzione della location e la scelta dei toni dei colori d’epoca della splendida fotografia e delle messe in scena. Pur se parzialmente imperfetto Bad Times at the El Royale resta pur sempre una conferma di un regista da continuare a seguire con attenzione per abilità e personalità e, soprattutto, un eccellente esempio di buon cinema popolare finemente confezionato e godibile dall’inizio alla fine.
data di pubblicazione:27/10/2018
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da Antonio Jacolina | Ott 26, 2018
(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 13ma Edizione, 18/28 ottobre 2018)
Un gruppetto di studenti benestanti, stanchi ed annoiati della loro vita piatta e banale, cercano di uscire dalla pesantezza della routine e fare qualche cosa di eccitante. Pianificano un furto che più folle non si può: rubare un raro libro antico custodito nella biblioteca della loro Università nel Kentucky. Però … nulla va come previsto.
Layton è un giovane cineasta britannico, conosciuto come valente documentarista ed autore di docufiction. Questa sua ultima opera, di cui ha anche scritto la sceneggiatura, è stata già presentata e premiata al Sundance Festival, ed è interamente ispirata ad una storia vera. L’autore ci racconta i fatti connessi con il furto con una capacità evocativa così fuori dal comune che riesce a tenerci legati alla nostra poltrona di spettatori dall’inizio alla fine, facendoci totalmente immedesimare con i personaggi e con il loro progetto. La vicenda è tutta narrata al passato e la narrazione unisce e fonde abilmente in un ottimo amalgama realtà e finzione, vale a dire: ricerca dei fatti e rappresentazione dei fatti stessi. Nel film infatti, pur prevalendo la fiction, i veri protagonisti del colpo sono intervistati e raccontano davanti alla cinepresa lo svolgimento degli eventi reali di ieri, e, contemporaneamente, con costanti cambi temporali, la scena si sposta sulla rappresentazione diretta dell’azione e di quegli stessi eventi con gli attori al loro posto. L’effetto filmico che ne risulta non è solo credibile ed equilibrato ma è anche rimarchevole e godibile grazie ad un montaggio accelerato perfetto, senza alcuna cesura o tempi morti, e ad un ritmo narrativo sempre sostenuto ed incalzante, accompagnato da una musica rock di fondo che scandisce il succedersi dei fatti.
Oltre alla narrazione del furto ed alla satira graffiante di una certa America, quel che veramente sembra interessare all’autore è capire “il perché” degli avvenimenti raccontati. Perché mai dei ragazzi privi di veri problemi abbiano prima potuto pensare e poi addirittura potuto decidere di mettere in moto un tale progetto criminoso, perché mai abbiano voluto provocare il Destino. Forse, perché convinti di dovere avere una vita interessante, e, in assenza, di potersene creare una.
Comunque sia, il film mantiene tutta la struttura degli Heist Movies classici e dei migliori film del genere che lo hanno preceduto, anzi l’autore si diverte a citarli esplicitamente e ad ammiccare a Tarantino, facendo riferimento, non ultimo, anche a Rashomon, il vero ed unico modello di un racconto di testimonianze contraddittorie a seconda di chi narra la “verità” della storia. Apprezzabile infine la capacità di Layton nel dirigere i suoi giovani attori che infatti, sotto la sua guida, sono tutti molto credibili nel rendere evidenti i passaggi emotivi e psicologici dei vari personaggi che passano dalla noia iniziale, all’euforia della fase di pianificazione del furto, al panico durante la fase esecutiva, al senso di colpa e disillusione finale. Da seguire in particolare i talentuosi astri nascenti Evan Peters e Barry Keoghan.
American Animals, pur non sembrandoci all’altezza delle aspettative generate dall’entusiastica accoglienza ottenuta in America, va comunque segnalato perché è pur sempre un piccolo gioiello che rinnova il genere, un buon melange fra film comico e heist movie, una pellicola da vedere e da godersi, convinti che il buon cinema lo si trova sempre più spesso fra i piccoli film.
data di pubblicazione:26/10/2018
da Antonio Jacolina | Ott 25, 2018
(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 13ma Edizione, 18/28 ottobre 2018)
William (Aneurin Barnard) è un giovane scrittore che non riesce a pubblicare nulla, è privo di affetti, è depresso ed ha deciso di porre fine alla sua esistenza senza senso. Dopo una decina di tentativi tutti falliti tragicomicamente, ingaggia Leslie (Tom Wilkinson) un killer professionista in età avanzata perché provveda lui a “suicidarlo” entro una settimana. Anche il killer, a sua volta, ha i suoi problemi con il Boss della sua Organizzazione perché deve riuscire a raggiungere la quota prevista di omicidi, pena il suo pensionamento anticipato, inoltre, ahinoi, proprio subito dopo aver sottoscritto il contratto, il nostro William scopre finalmente validi motivi per vivere e sognare. Ma … il contratto è contratto …
Tom Edmunds debutta con questa pellicola sia come sceneggiatore sia come regista e ci regala subito, con buon istinto artistico ed in modo convincente, nonostante la serietà dell’argomento trattato, una divertente commedia permeata di un dark humour molto inglese. Il suicidio è un argomento così serio che prescindendo, a priori, dal fare riferimento a valori morali, l’autore l’affronta scientemente portando subito il racconto molto oltre le righe ed anche oltre il piano dell’ironia, ricercando talora effetti molto comici. La narrazione stessa sembra non volersi prendere troppo sul serio. In realtà il film è invece un’occhiata comica sul senso della vita e sulle ragioni per viverla e giunge ad esaltare proprio la forza della vita stessa rispetto a qualsiasi altra situazione umana. Una storia quindi bizzarra e surreale che non annoia, anzi, al contrario, rallegra e sorprende con idee e situazioni brillanti che, a tratti, fanno anche sentire l’influenza o il ricordo di alcune scene e situazioni già viste in In Bruges del 2008.
Alla base di questa gradevole opera prima c’è dunque una perfetta sceneggiatura ben costruita ed autoironica, ma la sua brillantezza deriva anche dal gioco dei ruoli dei vari personaggi, tutti perfettamente disegnati e caratterizzati, da un ritmo sempre sostenuto e poi dalla talentuosa interpretazione dell’ottimo cast di attori britannici. Spiccano, fra tutti, i due protagonisti che sembrano quasi rispecchiarsi l’uno nell’altro: il giovane A. Barnard già apprezzato nel recente Dunkirk, e, soprattutto, il collaudato T. Wilkinson. La sua performance è così eccellente che riesce ad asciugare il suo ruolo fino a dare con la sua recitazione tutto il senso della noiosa routine accumulatasi negli anni, quasi il killer fosse un banale e stanco impiegato prossimo al pensionamento. Una interpretazione ricca di eleganza e finezza, veramente tutta British Style e soprattutto understatement.
Cogliere il senso di una Commedia è sempre anche molto soggettivo perché dipende, ovviamente, anche dal senso individuale di humour di ciascuno spettatore, ma, riteniamo di non sbagliare definendo Dead in a week una più che eccellente British Dark Comedy che non si prende mai troppo seriosamente e che oltre a far sorridere fa anche ridere. Un piccolo e piacevole film che certamente assicura un gradevole divertimento così come una fredda bevanda, o, se preferite, come una bella tazza di tè inglese, che si apprezza al momento in cui la si gusta per poi dimenticarsene molto gradevolmente, piano piano, dopo un po’…
data di pubblicazione:25/10/2018
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