da Antonio Jacolina | Gen 25, 2019
Inghilterra XVIII secolo, gli Inglesi sono in guerra con la Francia. La regina Anna (Olivia Colman), donna fragile, malata e capricciosa, siede sul trono, ma, di fatto, governa per lei la sua favorita ed intima amica lady Sarah Churchill (Rachel Weisz) prendendosi cura sia del Regno sia della Regina stessa. L’equilibrio va in crisi quando lady Sarah concede generosamente di lavorare a corte alla sua lontana cugina, la giovane Abigail (Emma Stone). Costei, nobile decaduta e povera, dietro alla facciata di umiltà ed innocenza, cela in verità una subdola e fredda voglia di rivalsa e di potere. Tra dissimulazioni, intrighi, sotterfugi ed amori saffici si apre una lotta senza quartiere fra le due dame per le grazie della volubile regina e per il potere.
Già pluripremiato a Venezia, da dove nei suoi Appunti di viaggio ce ne aveva fornito alcuni accenni con la sua brillante sintesi ed acutezza di giudizio la nostra M. Letizia Panerai, arriva oggi sui nostri schermi, ricco di altri premi e di ben dieci nomination per i prossimi Oscar l’ultimo film di Lanthimos. Il giovane regista greco è uno dei cineasti più sorprendenti ed originali per la natura dei suoi lavori e per la traiettoria singolare che ha saputo costruirsi nel corso di un breve lasso di tempo. Gli sono bastati infatti appena un pugno di film per essere inserito dai critici nel gruppo dei pochi autori di valenza internazionale, grazie al suo talento artistico, al suo humour surreale e dissacrante ed al suo gusto per una satira sociale molto caustica e libera da ogni tabù.
La Favorita, dopo The Lobster ed Il Sacrificio del cervo sacro, film entrambi, a dir poco, spiazzanti, è difatti il suo terzo progetto internazionale ed il primo di cui si limita alla sola regia. E che regia! Il film non delude nessuna delle attese che lo precedevano perché assistiamo al risultato di un lavoro prodigioso e riuscito sulle forme del cinema spettacolare e commerciale attuale. Il regista infatti si impadronisce e si diverte con i codici e le convenzioni dei film storici, dei drammi in costume e dei biopic, e, con ingegnosità ed audacia li fa propri, ne cambia radicalmente il registro e ne rende un insieme amalgamato che, nel contempo, è però radicalmente nuovo e del tutto originale. Può sembrarci un film apparentemente semplice, ma, in realtà è ben più complesso ed affascinante di tutte le precedenti realizzazioni dell’autore. Un film che dovrà essere rivisto per meglio coglierne tutti i vari piani di lettura. Pur uscendo dall’astrazione dei suoi pregressi lavori, il regista ama infatti continuare a sorprendere e spiazzare lo spettatore proprio mentre sembra avergli offerto un modo ed una prospettiva concreta, sia pur insolita e corrosiva, per leggere la storia che viene narrata.
Il film non è assolutamente il remake di un qualcosa già visto, al contrario è un’opera in tutto e per tutto originalissima e, se proprio vogliamo cedere al gioco dei rimandi, un qualche richiamo si può provare a fare solo al grande Kubrick di Barry Lyndon od anche al Greenaway di Compton House per alcuni tocchi scenici e per alcune riprese a lume di candela per restituire le atmosfere cupe dell’epoca.
Fra costumi sontuosi ed arredi di interni fastosi, l’autore ci racconta dunque di un intrigante gioco di amore e potere che vede coinvolte tre donne con pochi scrupoli, quale mero spunto per poi fare una amara e durissima riflessione sull’arrivismo, sull’egoismo, sul potere e, soprattutto sul desiderio del potere fine a se stesso, costi quel che costi pur di primeggiare sugli altri. Contemporaneamente il regista ci regala anche uno studio sulle rivalità al femminile, ove invidie, gelosie, competizione, manipolazione, uso della forza della bellezza o sfruttamento della debolezza psicofisica, dei sentimenti e del bisogno di affetti divengono tutte armi da usare, con pari cinismo e crudeltà, come armi vere, ed allora sesso e potere divengono ben presto lame pericolose e a doppio taglio. Pur cambiando il contesto narrativo, per Lanthimos resta sempre costante elemento distintivo della sua narrazione filmica la condanna inesorabile dell’animo umano ad essere sempre corrotto dal potere, dall’avidità e dalle sue debolezze nascoste. Per raccontarci tutto ciò l’autore mette in scena un mondo di immagini lussuose, un perfezionismo fastoso di ambientazioni, arredi ed acconciature, ripreso spesso, ma senza infastidire però troppo lo spettatore, con inquadrature in fish-eye o con primi piani o grand’angoli, per sottolineare così che l’immagine è al servizio della narrazione e rendere altrettanto palese allo spettatore che la storia e la realtà raccontate sono parzialmente finte e deformate, rendendo in tal modo il tutto molto più moderno.
Una regia quella di Lanthimos sempre dinamica e creativa ma mai eccessiva, una direzione che con ritmo incalzante tiene lo spettatore incollato allo schermo per seguire gli sviluppi narrativi dei complotti e dei giochi delle tre donne. Sono proprio le tre attrici protagoniste che danno con la loro recitazione un qualche cosa di intrigante ed interessante in più al film che lo rende alla fine quasi perfetto. Sono loro che tengono la ribalta e reggono tutte le scene in un film in cui non c’è spazio reale per gli uomini. La recitazione del Trio è veramente a livelli elevati, difficile dire chi interpreti meglio il suo personaggio. Di sicuro la Colman rende in modo perfetto tutto il disagio psicofisico della sovrana, ma non le son da meno le altre due alle prese entrambe con personaggi dalle molteplici sfaccettature. Lanthimos ha dunque superato la sfida con brio squisito ed audacia e si conferma un autore non semplice e nemmeno leggero, ma , di sicuro, geniale e di innegabile talento, capace di raccontare il passato giocando con elementi contemporanei ed in modo moderno.
La Favorita è un film autoriale pienamente riuscito che piacerà al grande pubblico ed ai cinefili.
data di pubblicazione:25/01/2019
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da Antonio Jacolina | Gen 22, 2019
Ancora una volta torna al cinema la tragica vicenda umana e politica di Maria Stuarda (Saoirse Ronan) giovane vedova del Re di Francia, Regina di Scozia nonché pretendente al trono d’Inghilterra in contrasto con la cugina Elisabetta I (Margot Robbie). Una rivalità fra donne e regine e, nello sfondo, il più ampio conflitto fra le fazioni cattoliche e protestanti sia inglesi che scozzesi nella seconda metà del 1500.
In attesa dell’ormai prossima uscita dell’attesissimo La Favorita del geniale ed irriverente Y. Lanthimos, grande favorito ai prossimi Oscar, complice anche un pomeriggio di pioggia, non abbiamo saputo resistere alla fascinazione di questo classico che non tramonta mai ed alla voglia di pregustare il sapore degli intrighi delle corti e dei palazzi reali, scozzesi od inglesi che siano.
La quarantenne J. Rourke apprezzata regista teatrale inglese, debutta oggi dietro la cinepresa affrontando coraggiosamente e con maestria un tema ed una storia già portata sugli schermi cinematografici per ben 8 volte. Restando fedele alle sue origini ed avvalendosi di un buon adattamento curato da B. Willimon, l’autore di House of cards, la regista costruisce un dramma molto classico che, oltre che sul conflitto di potere fra due regine, si centra soprattutto sul confronto fra due donne, due donne autorevoli in un universo però dominato dal maschile e dal patriarcale. L’autrice, adattando la storia ai nostri tempi, quasi una metafora dell’attuale, si focalizza essenzialmente, in una loro contrapposizione costante, sul diverso ruolo delle Regine e delle donne nelle due diverse corti reali e nella Società dell’epoca in genere. E’ la storia di due donne forti ed indipendenti che cercano, al loro meglio, di gestire e mantenere il loro potere, incapaci però di conciliare le proprie personali discordie con le strategie, gli intrighi politici che le circondano.
La regia segue con fluidità e giusto ritmo narrativo la vicenda delle due sovrane, quasi in parallelo, in una continua lotta a distanza fatta tutta di congiure e tradimenti, allorchè poi la narrazione diviene troppo ricca concorrono a farle da valido sostegno le ottime interpretazioni delle due protagoniste, fino al culmine narrativo del loro faccia a faccia finale fra rivalità ed affascinazione reciproca di vere combattenti. Un incontro questo mai avvenuto nella realtà, ma un “falso” ormai diventato “storico” in tutte le trasposizioni, per accentuare la tensione drammatica del racconto.
Entrambe le attrici sono vincenti. La Ronan si consacra definitivamente come ottima attrice, capace di esprimere con naturalezza affascinante tutti i sentimenti e la sensualità della regina di Scozia. Alla sua altezza è la Robbie che dopo l’exploit di Tonya si conferma come un sicuro talento.
Di contro la regista, pur senza essere innovativa, dimostra di avere una buona mano, la messa in scena è elegante, ma talora l’approccio è solo estetico, un po’ freddo e senza coinvolgimento, quasi didascalico, ed allora il ritmo narrativo diviene incostante. Nuoce soprattutto al film, quasi snaturandolo oltre misura, l’insistenza di voler rendere troppo moderna la vicenda, finendo così con il darci più un ritratto emotivo che non un ritratto storico dei rapporti fra le due regine. Di qui poi una serie di forzature, di libertà ed inaccuratezze storiche ed anacronismi eccessivi che a nulla giovano e che invece sicuramente deluderanno ed irriteranno gli appassionati di Storia o della Verità storica. Viste le precedenti celebri trasposizioni e interpretazioni sarebbe ben difficile per il nostro film distinguersi, per cui dovendo escludere, gioco forza, ogni confronto, Maria Regina di Scozia, va visto non certo come un capolavoro, ma solo come un film più che onesto, ben curato, elegante e ben recitato. Un film con alcuni difetti, ma comunque un film da poter senz’altro vedere, apprezzare e godere per poi passare oltre, in attesa, fra qualche anno, di una nuova trasposizione.
data di pubblicazione:22/01/2019
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da Antonio Jacolina | Gen 3, 2019
“Dio è natura, e la natura è bellezza” in queste parole pronunciate da Van Gogh (Willem Dafoe) è riassunto tutto il significato e la vera chiave di lettura con cui il cinquantenne e talentuoso regista americano Julian Schnabel ha inteso rappresentare il rapporto con la natura del pittore olandese negli ultimi tormentati ma anche fruttuosi anni della sua vita. Anni spesi tutti fra le campagne di Arles nel sud della Francia, alla ricerca ossessiva della giusta luce e del giusto sole per i suoi paesaggi, fra gli incontri scontri con Gaugin e fra continui ricoveri e dimissioni dal nosocomio di Saint Remy.
Schnabel si è affermato giovanissimo con un film su un altro pittore maledetto, Basquiat nel 1998, ha poi vinto ai festival di Venezia e di Cannes fino all’Oscar come migliore regista nel 2008 con il suo Lo scafandro e la farfalla. Appassionato ed apprezzato pittore oltre che regista, l’autore ci racconta, con cognizione di causa e dichiarata empatia, tutte le difficoltà dell’essere pittore, del dipingere la Natura, la ricerca dell’attimo di follia sottostante l’esplodere della scintilla creativa/artistica. Come da sua dichiarazione resa durante l’ultimo Festival del Cinema di Venezia, il suo intento era proprio di centrare il suo racconto sul “significato e sul tormento dell’essere artista”. Il film può quindi essere tutto qui, non siamo però davanti ad un classico biopic, anzi siamo ben lontani, forse anche per qualità, da quelli che lo hanno preceduto: Brama di vincere del 1956 di V. Minnelli, con un indimenticabile K. Douglas, e dal più recente Vincent e Theo del 1998 di R. Altman, e poi ovviamente, lontanissimi dalle tante produzioni più o meno divulgative od artistiche sul pittore olandese che unitamente al nostro Caravaggio, per drammaticità delle loro vite, per l’eccezionalità della loro Arte e per l’amore degli appassionati, condivide il record di essere al centro di innumerevoli documentari o fiction in tutto il mondo.
È quindi proprio e solo sulla vicenda dell’essere artista di Van Gogh che si sofferma il regista cercando di renderci con passione e partecipazione gli aneliti della sua anima, la sua sensibilità, l’affannosa ricerca creativa, la complessità ed il tormento della sua fragile personalità. Schnabel si fa però prendere proprio da questa sua passione, da questa sua empatia, tenta di trasmetterci quanto prova l’artista, ed ecco allora che la macchina da presa viene volutamente usata quasi come un pennello, come a voler restituire allo spettatore la follia visionaria del pittore. Abbondano quindi primi piani prolungati, ci sono inquadrature sfuocate, dissolvenze, camera a mano che accompagna l’artista nel suo camminare, quasi pellegrino, fra le campagne ed i boschi alla ricerca dell’attimo e dell’apparizione del Paesaggio, dell’Infinito e dell’Eternità. Ne risulta così, a tratti, quasi danneggiata anche l’intensa e vibrante interpretazione di Dafoe, supportato da un pregevole cameo di una splendida Emmanuelle Seigner. Purtroppo questo eccesso di mentalismo e le contraddizioni di cui sopra rallentano ed appesantiscono il giusto ritmo del film ed incidono fin troppo sul modo di raccontare, riducendo brio ed incisività. Dunque, uno Schnabel sempre autoriale e buono, ma molto lontano dalle eccellenze cui ci eravamo un po’ abituati.
data di pubblicazione:03/01/2019
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da Antonio Jacolina | Dic 26, 2018
La storia di due coppie: un editore che deve far fronte alla rivoluzione digitale che investe il mondo della scrittura e dell’editoria, sua moglie attrice di successo (Juliette Binoche), uno scrittore autobiografico, depresso, e la sua compagna (Nora Hamzawi). Un quartetto e, con loro, i loro amici intellettuali parigini, tutti indistintamente, ciascuno a modo suo, in preda a dubbi e perplessità sulle loro scelte di vita e professionali davanti ai cambiamenti che sono costretti a subire e che non sono più in grado di controllare.
Film che ho perso alla recente Mostra di Venezia e che ho inseguito poi sui nostri schermi romani. Ma … lo dico subito, una delusione! Assayas è un regista e sceneggiatore francese con oltre 20 anni di carriera e discreti successi, suoi i recenti Sils Maria (2014) e Personal Shopper (2016) accolti entrambi positivamente sia da critica che dal pubblico di cinefili. Questa volta l’autore cambia registro e fa un’escursione nel mondo dell’editoria per parlarci dei mutamenti in atto come spunto per poterci poi parlare anche delle conseguenze dei mutamenti di costume nelle relazioni di coppia. Tutti sono doppi, tutti i personaggi hanno delle doppie vite e dei doppi fini (ben più corretto il titolo originale Double Vies, perché non mantenerlo? Vecchia questione questa dei titoli originali mal tradotti o fuorvianti), di cui il regista ci svela progressivamente segreti, ipocrisie e compromessi. Tutto è doppio: nelle vite, nelle coppie, nei libri autobiografici, nella realtà e nella politica. Il tema è certamente interessante, per l’autore non c’è una verità assoluta, tante infatti sono le possibili messe in scena della vita e tutte sono contraddittorie. Il regista avanza dubbi e domande riflettendo sulla cultura, sulla società che si evolve e sul fallimento della politica e delle utopie. Temi interessanti, ma risultati non certo all’altezza. Tanto pretestuoso è infatti lo spunto di affrontare il mondo dell’editoria, tanto pretestuoso, banale ed aneddotico è poi lo sviluppo filmico che ne consegue. Una specie di divertissement molto radical-chic, tutto intellettuale e fine a se stesso, un giochino che potrebbe, forse, riuscire a toccare le menti degli spettatori, ma non certo le loro emozioni.
Il Cinema francese, si sa, è da sempre un cinema molto “parlato” ove il linguaggio, le parole hanno un ruolo fondamentale, significativo e talora poetico, ma, nel nostro film i personaggi parlano, parlano e parlano senza mai arrivare ad alcun punto, il punto forse è solo il parlare ed il continuare a parlare. Se intenzione di Assayas era poi di voler prendere in giro una certa borghesia parigina persa fra cene e salotti intellettuali in cui si dibatte di argomenti di moda solo nel loro mondo esclusivo, il risultato è, ancora una volta, scarso perché poco convincente, privo del necessario mordente, di raffinatezza ed intelligenza. Al contrario, anche il discorso dell’autore si avvita su se stesso e sul piacere narcisistico di ascoltarsi parlare.
Un po’ poco, un po’ troppo poco direi io, da un autore come Assayas. Il film mostra fin dall’inizio tutti i suoi limiti, sarebbe forse bastato limitarsi ad accennare, invece il regista tende a sottolineare ed ancora a sottolineare cosicchè la storia inizia dopo poco a girare a vuoto, perdendo ogni mordente, salvo che lo spettatore voglia appassionarsi ai dibattiti fra intellò durante le varie cene, tutti eguali e tutte eguali.
Una storia povera, una quasi pigrizia di scrittura e sciatteria di riprese che lascia fin da subito perplessi. Un film decisamente non riuscito nonostante la buona interpretazione della Binoche e della Hanzawi e qualche lampo di humour, o piuttosto, di sarcasmo. Speriamo solo che Assayas torni presto ad essere all’altezza di se stesso con molte meno chiacchiere e più impegno
data di pubblicazione: 26/12/2018
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da Antonio Jacolina | Dic 23, 2018
In un arco di tempo fra il 1949 ed il 1964, nella Polonia Staliniana, nella Parigi Bohémienne e nell’Europa divisa dalla Guerra Fredda, Wiktor (Tomas Kot) musicista polacco, alto borghese, colto e raffinato, incontra la giovane Zula (Joanna Kulig) di origini modeste ma passionale e talentuosa cantante con un pizzico di follia. Si innamorano per sempre, Wiktor di lì a poco fugge all’Ovest, ma l’amore li unisce, si perdono, si ritrovano. Un amore impossibile e distruttivo. Due innamorati che pur amandosi non riescono a poter stare insieme.
Dopo IDA, Oscar 2015 quale miglior film straniero, ecco di nuovo sui nostri schermi il talentuoso regista polacco con un film già premiato a Cannes per la migliore regia ed appena poche settimane fa, con l’ EFA (gli Oscar europei) come miglior film europeo 2018. Pawlikowski ci conferma tutta la sua maestria autoriale con un’opera visivamente impeccabile, con una regia, movimenti di camera, inquadrature e uso dei primi piani assolutamente originali e magistrali. Cold War è fotografato in un elegante bianco e nero che rende affascinanti le atmosfere della tormentata storia d’amore. Un bianco e nero contrastato, drammatico ed a tratti denso e velato per renderci l’alone di spaesamento della realtà narrata ed il grigiore della vita quotidiana ed anche l’interiorità tormentata dei due protagonisti smarriti nel loro amore. Il film è in effetti la storia di un amore tormentato ed appassionato, un amore assoluto, viscerale ed autodistruttivo, così tumultuoso, intenso e disperato che i due innamorati non riescono quasi a sopportarne il peso e si autodistruggono essi stessi pur non riuscendo a smettere di alimentare il sentimento che li unisce. Un amore così forte da tenere unite due anime che si riconoscono come destinate a vivere insieme, ma, non così forte da vibrare all’unisono e contemporaneamente quando le due anime riescono a viverlo. La storia fra i due è poi resa difficile ed è condizionata anche dalla situazione politica, dallo spaesamento derivante dalla lontananza dalla loro Polonia e, soprattutto dalla loro differenza di origini e cultura, dai loro forti temperamenti e dalle loro convinzioni. I due protagonisti sono materialmente lacerati fra il legame che li unisce ed il contesto che li separa. Una lacerazione sempre più distruttiva. Sullo sfondo della storia, solo sullo sfondo, malgrado il titolo, l’Europa che risorge dalle rovine della guerra mondiale, ma è già divisa, lacerata anch’essa dalla cortina di ferro della guerra fredda fra comunismo e libertà. Quasi una metafora. Il regista riesce ad esplorare le profondità di questa relazione impossibile rendendoci con assoluto pudore la purezza dei sentimenti dei protagonisti, la loro malinconia silenziosa e tutta la complessità di un legame che va ben oltre la loro stessa esistenza.
Il racconto si sviluppa per omissioni, condensato per elissi in soli 84’(evento raro oggigiorno, epoca di film lunghissimi), come sfogliando un album di foto, poche scene, brevi riprese, solo accenni di vita, lasciando poi allo spettatore ed alla sua immaginazione di ricrearsi ciò che succede alla vita ed ai sentimenti dei personaggi, nei lunghi spazi temporali che intercorrono fra un incontro e l’altro.
Il vero filo conduttore del film, quasi fosse un terzo protagonista, è la musica. Una musica che è sempre presente fin dalle prime inquadrature ed è l’elemento chiave per capire il racconto, in particolare la canzone “Cuori”, più volte cantata dalla protagonista in vari arrangiamenti, che di volta in volta affascina, lega o fa separare i due innamorati, anticipando nel suo testo tutto il senso della storia di questi due cuori attratti e contrapposti in un amore senza pace.
Volendo trovare dei difetti, a parte forse un certo squilibrio fra la parte iniziale e la storia d’amore, credo si possa rilevare che il regista non entri adeguatamente in profondità negli aspetti esistenziali dei suoi personaggi e si limiti invece a mostrarcene solo i segmenti di vita che li uniscono e poi li separano. Manca, a mio giudizio, un maggiore coinvolgimento, per cui alla fine il film risulta un’opera bella da vedere ma forse un po’ troppo fredda che coinvolge solo in superficie. Straordinaria ovviamente l’interpretazione dei due attori principali che rendono tutta la dolente sensualità del tormento delle anime e dei cuori dei loro eroi.
Cold War è un film drammatico sentimentale, un grande amaro canto d’amore, qualche critico lo ha anche definito “un film per cinefili o solo per Festival alla ricerca del capolavoro”, forse sì forse no, comunque sia, Cold War è un film da vedere che fa riflettere e su cui si deve riflettere e che forse andrebbe rivisto due volte per poter poi dire di aver già visto, fin da subito, un bel film.
data di pubblicazione:23/12/2018
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