da Antonio Jacolina | Mar 15, 2019
Starr (Amandla Stenberg) è una 16nne afro-americana, vive due vite. La prima nel suo quartiere periferico ed emarginato dove la maggior parte delle persone sono nere e povere e dove dominano le gang e le droghe. La seconda è invece nel suo ambiente scolastico in uno dei migliori istituti privati della città ove l’hanno iscritta i genitori per darle migliori opportunità e dove il contesto è bianco e ricco. Non è facile per la ragazza vivere in equilibrio in questi due mondi così lontani e diversi fra loro. Un giorno, dopo una festa da vicini di casa, un suo amico d’infanzia viene ucciso senza aver fatto nulla da un poliziotto bianco. Starr è l’unica testimone, gli equilibri saltano ed inizia per lei un viaggio di scoperta di se stessa, delle sue convinzioni, appartenenze e verità …
Tillman è un affermato sceneggiatore e discreto regista americano che ha esordito nel 2000 con Men of honor e ci regala oggi un’opera forte, evocativa e bella, tratta da un romanzo di successo di pari titolo di A. Thomas. Un film che può sembrare essere solo una storia di crescita e formazione giovanile, un teen-movie sui problemi amorosi adolescenziali, in realtà il regista sa andare ben oltre lo spirito narrativo di cornice e realizza un lavoro che parla non solo ad un audience giovanile ma anche ad un pubblico adulto di tutte le età. Difatti, sia pure dalla prospettiva di una giovane, ci fa riflettere tutti su: dignità dell’individuo, forza della verità, solidarietà familiare, giustizia sociale ed identità individuale e collettiva.
Starr è una ragazza che è alla ricerca del suo “essere chi” e scopre ciò in cui credere e ciò che effettivamente è, solo dopo una presa di coscienza di se stessa davanti alla brutalità della polizia, del razzismo e della violenza di ogni tipo. Tutto il film è in perfetto equilibrio fra mondo scolastico e storia individuale da una parte, e mondo emarginato e dramma sociale dall’altra, senza sacrificare mai spazio e qualità di nessuna delle due parti. La narrazione è supportata da una buona sceneggiatura dietro la quale si vede tutta la forza del libro da cui è tratta, i dialoghi sono ben definiti e realistici, il ritmo è costante senza pause o cedimenti. La regia sa poi abilmente alternare momenti di allegria o leggeri con svolte drammatiche, sentimenti di dolcezza e rabbia individuale con sentimenti di commozione e rabbia collettiva. La composizione del cast, come tipico delle produzioni americane, è perfetta fin nei ruoli più marginali. Emerge su tutti, e, praticamente, illumina il film con la sua bellezza e con il suo splendido sorriso, la giovanissima e talentuosa Stenberg. La sua interpretazione ha una forza creativa che cresce in capacità e profondità in ogni scena, cesellando con intensità il suo personaggio. Nel ruolo del padre giganteggia Russel Hornsby.
Il film di Tillman è senza dubbio un film da vedere e da godere, uno dei suoi migliori. Un film che è anche fortemente rappresentativo della realtà odierna della comunità nera degli Stati Uniti, stretta fra una nuova auto rappresentazione di se stessa sul piano della famiglia, della comunità, delle nuove generazioni e, di contro, la permanenza di vecchi pregiudizi e mai scomparsi razzismi. Un film che è uno sguardo giovane, fresco e consapevole su tale realtà e che merita tutta la simpatia, l’empatia e gli apprezzamenti dello spettatore. Decisamente un bel film.
data di pubblicazione:15/03/2019
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da Antonio Jacolina | Mar 6, 2019
L’istante in cui una coppia si spezza… Anna (Valeria Bruni Tedeschi) è stata lasciata dal compagno (Riccardo Scamarcio) appena pochi attimi prima che lei vada a richiedere un finanziamento per il suo nuovo film e si metta poi in viaggio per riunirsi, come tutte le estati, al resto della sua vasta famiglia nella grande casa in Costa Azzurra.
Anche questo quarto film della Bruni Tedeschi, presentato fuori concorso all’ultima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, ritorna, quasi riprendendo il filo interrotto nella sua precedente opera Un Castello in Italia del 2013, sul tema familiare e sulla figura del fratello scomparso nel 2006. L’artifizio è il classico film nel film. É difatti nella grande magione altoborghese di famiglia che Anna cerca, pur fra le variegate ed ingombranti presenze dei parenti: la figlia, la sorella con il marito, la madre, la zia, altri amici, segretarie e dame di compagnia, nonostante l’assenza del compagno il cui arrivo è costantemente sollecitato e sperato, prova, dicevamo, a ritrovare se stessa, ad uscire dalla sua confusione emotiva, affettiva e creativa, cercando una ispirazione per riuscire a scrivere la sceneggiatura del suo esile film autobiografico. Nella villa sono tanti, ai familiari si aggiungono ed intrecciano le storie della servitù, un incrocio di storie, di relazioni, fra i “piani alti” ed i “piani bassi”, quasi come in un film di Altman. Nonostante tutto questo cercarsi, parlarsi, incontrarsi, il vero elemento dominante in tutti i piani della villa è però la Solitudine. La solitudine delle occasioni perdute e sprecate e, con essa, la Paura e quindi le speranze residue, le illusioni, i desideri e gli amori tanto agognati quanto frustrati. Con tutto ciò il Tempo, quel tempo che inesorabilmente scorre e porta via i sogni ed infine la Morte che appare e scompare con il tempo stesso. La Bruni Tedeschi ha ormai un suo proprio stile sia come attrice sia come regista. Può essere tanto allegra, leggera, eterea, delicata, nevrotica, quasi evanescente, quanto anche precisa e tagliente. Questo suo film è ironico, tenero, ingenuo e paradossale, ma anche capace di far sorridere e commuovere senza cadere nella seriosità grazie al dono dell’autoironia con cui la regista descrive se stessa e quello che è stato, e forse ancora è, il suo ambiente familiare altoborghese franco-italiano. Il film ha un buon ritmo, soprattutto nella prima parte è molto gradevole ed elegante nell’alternarsi ed intrecciarsi ironico delle storie fra servitù e padroni, poi rallenta un po’ per tornare a recuperare brillantemente in un finale onirico-felliniano sincero ed appassionante.
La Tedeschi è aiutata e circondata dai suoi veri familiari: la madre, la zia e la figlia ed anche da un affiatato gruppo di attori: l’ottima ed asciutta Valeria Golino nei panni della sorella, l’esperto P. Arditì perfetto nel ruolo del cognato ed inoltre uno stuolo di ottimi, direi magnifici, caratteristi francesi. Un piccolo ma gradevole film, una piacevole e garbata conferma da parte della Tedeschi, Forse la vita privata della privilegiata famiglia della Tedeschi potrà non interessare e probabilmente potrà anche infastidire, ma… se fosse tutto immaginario sarebbe un bel soggetto cinematografico.
data di pubblicazione:06/03/2019
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da Antonio Jacolina | Mar 1, 2019
Ispirato alla storia vera del Numero Uno di Peugeot-Citroen, il film racconta di Alain (Fabrice Luchini) Direttore di Impresa, docente universitario, oratore brillante, uomo iperattivo ed egocentrico, con una vita pressata fra mille impegni fino al giorno in cui un ictus lo colpisce menomandolo nella memoria e nell’eloquio. Alain è così costretto ad avviare un percorso di rieducazione che lo porta a riscoprire i veri valori della vita ed a ricostruire relazioni ed affetti prima trascurati.
Dopo il successo nel 2011 di Quasi Amici, sembra ormai essere divenuta una peculiarità, quasi un “filone” della cinematografia francese affrontare il tema dell’incontro con la disabilità o l’handicap, di volta in volta, con i giusti toni di tenerezza, delicatezza o anche scherzosità. Abbiamo apprezzato, tanto per citarne alcuni, La Famiglia Bélier (2014) e Tutti in Piedi (2018), ed oggi è il turno di Parlami di Te. Con il suo film il cineasta francese Mimran ci parla della caduta e ricostruzione di un uomo e si propone di offrirci anche lo spunto per una riflessione sulla fragilità della Vita e l’occasione per criticare la perdita di relazioni umane in una Società sempre più pressata dall’urgenza e dai ritmi del lavoro, ricordandoci che invece occorrerebbe piuttosto ritrovare il tempo e l’attenzione per se stessi ed i propri affetti.
Visto il garbo ed il successo dei film precedenti ed ancor più anche la presenza di un grande attore come Luchini, ci si attendeva di sicuro un altro film francese gradevole. Ahinoi, anche le ciambelle francesi a volte escono insipide! E questa è veramente sciapa, stucchevole e priva di originalità!
Intenzioni e presupposti ammirevoli ci sono, ma manca purtroppo un risultato adeguato. Il tema e gli interpreti davano infatti al film un buon potenziale, ma, dopo un inizio promettente il regista perde il ritmo narrativo, cade di tono e di inventiva e la storia, priva di una solida sceneggiatura, inizia a girare a vuoto, avvitandosi su se stessa in ripetizioni e disperdendosi in lungaggini ed in storie secondarie inutili. Il risultato è che si accumulano così le ripetizioni senza mai riuscire a decollare, perdendo tutto il brio, la poeticità ed il potenziale narrativo che si era intravisto. La linea scelta dal regista sembra infatti privilegiare un intrattenimento privo di sottigliezza e delicatezza, spesso poi anche prevedibile, se non anche banale.
Prova a salvare, o meglio, a reggere tutto il film la prestazione di Luchini (un grande attore apprezzato soprattutto per le sue capacità recitative), con il suo spaesamento fisico, con i suoi farfugliamenti ed i suoi giochi di parole deformate per effetto dei problemi cognitivi. Giochi di parole che, a volte, riescono ad essere anche divertenti malgrado la loro ripetitività e la notevole perdita di ambiguità lessicale nel doppiaggio in italiano. Ma è veramente un po’ poco! Mancano del tutto quella tenerezza, quel garbo e quell’emozione che il tema o le intenzioni avrebbero potuto apportare con un po’ più di semplicità narrativa e senza inutili ingombri. Volendo forse fare troppo il film diviene progressivamente irritante per la sua banalizzazione del tutto incoerente poi rispetto al personaggio ed all’argomento affrontato.
Alla fine ne risulta un film convenzionale, prevedibile e senza originalità che non trova la sua giusta dimensione, cui non sempre basta un bravo Luchini per dare spessore al quasi nulla. Anzi, lo stesso Luchini corre sovente il rischio di confondersi e farsi travolgere dal nulla. Peccato!
Orario di punta, cinema ai Parioli, e… solo 4 persone in sala!!
data di pubblicazione:01/03/2019
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da Antonio Jacolina | Feb 18, 2019
Oltre e prima del Mito e della Leggenda, la storia realisticamente rivisitata di Remo e Romolo, il loro viaggio verso la libertà durante il quale gli Dei o il Fato faranno sì che uno di essi sarà il futuro re di Roma
Finalmente un film italiano ambizioso, spettacolare ed originale, lontano per contenuti e qualità dalla produzione corrente della nostra cinematografia. Matteo Rovere si è coraggiosamente assunto il compito di riscrivere la leggenda della fondazione di Roma con il supporto economico di una coproduzione Italo-Belga, il contributo storico-culturale di alcune prestigiose Università, di attori, maestranze, tecnici e troupe altamente professionali. Il risultato offertoci dal giovane regista è veramente apprezzabile, una storia originale e girata con il forte impegno di risultare la piú autentica e la piú veritiera possibile. Tutto è decisamente realistico: costumi ed ambientazioni, fino allo stesso linguaggio usato per gli scarsi dialoghi: il latino, o meglio, un corretto “ proto-latino” opportunamente sottotitolato. La cosa non disturba affatto, dopo poco lo spettatore è talmente preso dalla narrazione filmica e dall’intensità della recitazione dei protagonisti, che ci si scorda dei sottotitoli. Anzi … tutto sembra ancora più vero. La realizzazione può far ricordare film come Apocalypto di M. Gibson, ed il gioco dei rimandi non si ferma certo qui; il ruolo della natura cosi incombente ed immanente nelle sue valenze spirituali ci può certamente ricordare The New World di T. Malick, così come la lotta per la sopravvivenza fra boschi e paludi non può non ricordarci The Revenant di G. Iñarritu.
Pur con tutti questi possibili rimandi, l’opera di Rovere è però originalissima e supportata da una fotografia più che eccellente, tutta in luci naturali, proprio per evidenziare il ruolo di coprotagonista della Natura, un mondo inospitale, selvaggio e ferino fatto di boschi oscuri e paludi, ove la storia ha il suo decorso naturale e lo stesso spettatore si trova immerso partecipe anche lui della lotta per la sopravvivenza.
Gli attori tutti sono bravi, in particolare sono poi eccellenti i due protagonisti Borghi (Remo) ed Alessio Lapice (Romolo). Certo il film è, a tratti, violento, ma la violenza era una realtà pervasiva di quei tempi, cosi come lo era l’influenza della superstizione o religione sulle azioni degli uomini. Siamo molto lontani dai kolossal in costume, dai peplum eleganti e finti di americana memoria o, dai “sandaloni” italiani con una Roma in cartapesta, siamo invece in un mondo arcaico, selvaggio e primitivo ma reale, fatto di fango, buio, paura e coraggio bestiale.
Una sfida vinta e vinta bene quella di Matteo Rovere. Un film lontanissimo dal banale, dall’ordinario e dalla mediocrità. Un film che, pur con qualche caduta di ritmo, forse troppo lungo e con un finale quasi retorico, avrà comunque un sicuro apprezzamento anche internazionale. Un film infine, da poter leggere anche con le chiavi di lettura attualissime del conflitto tutto umano fra realismo e rispetto del divino, vale a dire le vicende della condizione umana. Un cinema veramente coraggioso ed ambizioso! Ce ne fossero di film così.
data di pubblicazione:18/02/2019
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da Antonio Jacolina | Feb 12, 2019
Olivier (Romain Duris), caposquadra in un’azienda che ricorda tanto Amazon, è sempre pronto a battersi generosamente per i suoi colleghi, non coglie però i segnali di malessere di sua moglie che un giorno lo abbandona solo con i suoi due bambini. Olivier dovrà decidere per quali battaglie dovrà impegnarsi.
Ancora un film francese. Preceduto dall’eco di un discreto successo, giunge sui nostri schermi un altro film di oltr’Alpe che ci conferma la misura di quante e quali siano le differenze di qualità e di gusti fra le due cinematografie. Come andrà in Italia? Difficile fare previsioni, probabilmente otterrà gli apprezzamenti discreti di qualche critico e di alcuni spettatori e l’indifferenza dei tanti. Peccato! D’altra parte il mercato italiano si conferma tutto sui generis vista la tiepida accoglienza che il pubblico nostrano ha riservato ad un film come La Favorita, nonostante i premi già ottenuti, quelli previsti e gli entusiasmi con cui invece pubblico e critica lo avevano già accolto altrove.
Le nostre Battaglie, selezionato nella Settimana della Critica nell’ultimo Festival di Cannes, è l’opera seconda del regista franco-belga Senez che conferma il suo talento nell’affrontare temi sociali e che, riprendendo un tema a lui caro: quello della paternità, ci racconta con tenerezza una storia intimista e sociale al tempo stesso, trovando il tono giusto per parlarci di rapporti umani, di lavoro, di famiglia, di paternità, di responsabilità … in breve della vita. Una “cronaca familiare” di un uomo, di un padre impegnato, troppo impegnato sul lavoro, tutto intento a combattere le ingiustizie sociali, che, dopo la sparizione della moglie, è costretto a prendere coscienza di ben altre battaglie: delle sue responsabilità familiari, dei suoi due bambini, e dei cambiamenti che questa presa di coscienza può comportare nella vita di un uomo. Una storia quotidiana quasi banale, un tema già affrontato in tanti film, che sulla carta non aveva nulla di eccitante e che ben pochi autori sono riusciti ad affrontare senza note false o lacrimevoli. Il nostro regista sa invece evitare, con abilità, di cadere nella trappola, ed ecco allora renderci, senza alcuna commiserazione, alcun manicheismo, al contrario con brevi tocchi realistici ed efficaci, una storia in perfetto equilibrio fra il dramma intimo e la cronaca sociale. L’autore infatti, senza alcune eccesso descrittivo, ci fa condividere i dubbi, le delusioni, le rabbie, ma anche le tenerezze e l’impegno dei suoi personaggi, tutti toccanti ed umanissimi, restituendoci con precisione e discrezione tutte le incertezze della vita umana e la complessità del mondo. Al centro del film, lontano dai suoi personaggi abituali, in un ruolo magnifico, tipico di attori del calibro di V. Lindon, c’è R. Duris, che il regista è riuscito con successo a trasformare facendogli perdere la sua maschera di charmeur dal sorriso automatico. L’attore, con un’interpretazione matura, ci regala un “padre-coraggio” intenso, vero e commovente. Un padre pronto a lottare su tutti i fronti pur di non tradire né il proprio impegno familiare né tantomeno il proprio impegno sociale, cercando di definire per quali battaglie valga ancora la pena di continuare a battersi ed a quale prezzo. Lo circondano in splendidi ruoli secondari un coro di attrici di grande capacità recitativa per spontaneità, intensità e presenza scenica.
Un film dunque alla maniera dei migliori Fratelli Dardenne, ma con un tocco in più di sensibilità e grazia che consente al regista di giocare brillantemente su due registri: quello intimo e quello sociale, alternando tratti drammatici a tratti leggeri, con una direzione fluida e senza sforzi apparenti e con risultati così buoni da far sembrare tutto come naturale. Come nella migliore tradizione del cinema francese, Le nostre Battaglie è un film di attori. Un cinema semplice, di sentimenti, ma un cinema bello e sincero che esamina l’uomo quotidiano senza mai giudicarlo. Un film di rara finezza, diretto con sensibilità ma senza sentimentalismi.
data di pubblicazione:12/02/2019
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