da Antonio Jacolina | Set 4, 2019
(76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)
Inghilterra xv Secolo. In una libera revisione degli Shakespeariani Enrico IV ed Enrico V, ritroviamo il giovane futuro re (Timothée Chalamet) costretto a succedere, suo malgrado, al trono d’Inghilterra. Nonostante il suo desiderio di pacificare il Regno, sarà poi costretto dalle ragioni di Stato, dagli intrighi di corte e dalle logiche di potere a proseguire le guerre volute dal padre…
Fuori concorso è stato presentato l’ultimo lavoro di D. Michod, giovane regista e sceneggiatore australiano il cui primo lungometraggio Animal Kingdom era stato accolto con successo alla Festa del Cinema di Roma nel 2010. Il film di oggi è prodotto da Netflix e, come sappiamo, Venezia pur fra vivaci polemiche e proteste continua ad ammettere in concorso o ad ospitare dei prodotti destinati alla sola fruizione televisiva, a differenza di quanto, a nostro parere più correttamente, fanno invece Cannes ed altri Festival che li hanno banditi.
Il regista di nuovo in collaborazione con Joel Edgerton che nel film interpreta anche il ruolo di Falstaff, ha coscritto la sceneggiatura cercando coraggiosamente di restituirci, senza timori di confronti con i precedenti Enrico V di L. Olivier o di K. Branagh, la figura di un giovane sovrano ribelle e di cercare nel contempo di renderlo quasi un eroe dei nostri tempi, attualizzandone emozioni, reazioni e valori. L’occasione consente all’autore di cimentarsi con Shakespeare “si parva licet comparare” per sottolineare senza retorica l’attualità delle vicende di un giovane uomo costretto a cimentarsi con il Potere, la Guerra, gli Intrighi, l’Arroganza, la Paura e con essi tutto il microcosmo di dubbi e di sentimenti, tanto eterni quanto anche attuali e pressanti oggi giorno.
Dunque: un po’ di Shakespeare, un po’ di Storia, un po’ di invenzione ed un po’ di attualizzazione ed ecco che ben miscelati fra loro si ottiene come risultato un film apprezzabile, coinvolgente ed a tratti anche avvincente, ovviamente commercialmente valido perché pensato intelligentemente con un occhio ben puntato anche sul botteghino.
La regia di Michod procede senza guizzi particolari con uno stile molto classico ed il ritmo narrativo, pur se fluido, procede con un taglio forse un po’ televisivo senza particolari variazioni se non nel finale quando le vicende stesse impongono un’accelerazione di tempi e drammaticità.
Al centro della vicenda e si può pure dire che regge il confronto con gli illustri precedenti, è l’ormai lanciatissimo ed anche bravo Chalamet, idolo qui a Venezia di folle di giovani fans in delirio, e, con lui ed attorno a lui un bel gruppo di ottimi attori tutti perfetti nei loro vari secondi ruoli, nel finale appare nei panni della promessa sposa Caterina di Valois anche la giovanissima figlia di J Deep, la bella Lily Rose Deep interprete di sicura ascesa e compagna nella vita reale di Chalamet.
Per chi lo potrà vedere al cinema, The King è pur sempre uno spettacolo godibile, un’apprezzabile allegoria del Potere e di ciò che si cela dietro ad esso, girato con dovizia di mezzi ed interpretato e diretto con professionalità con l’unico scopo di divertire e fare spettacolo e non certamente arte.
data di pubblicazione:04/09/2019
da Antonio Jacolina | Set 2, 2019
(76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)
Ecco di nuovo in concorso, ancora una volta, Olivier Assayas, pluripremiato sceneggiatore e regista francese, molto amato ed apprezzato dalla Critica e dalle Giurie dei Festival, un po’ meno e non sempre dal pubblico degli spettatori, con l’eccezione, ovviamente, dei suoi connazionali. L’autore torna a Venezia appena un anno dopo il non perfetto Il Gioco delle Coppie (Doubles Vies) con un nuovo film da lui diretto ed anche sceneggiato basandosi su fatti reali avvenuti negli anni ’90, sul finire della “Guerra Fredda” e le connesse tensioni sotterranee fra la Cuba di Castro ed il governo Americano narrando la storia delle azioni messe in essere dagli esuli anticastristi in Florida e in particolare di una rete di spie cubane infiltrate fra questi ultimi per contrastarli.
Come sempre, il regista sposta il suo impegno artistico, cambiando con abilità e coraggio genere cinematografico, ad ogni sua nuova opera. Difatti, dai drammi personali e dalle ambiguità al centro dei suoi più recenti film, vedi anche Sils Maria e Personal Shopper, questa volta il nostro cineasta passa ad affrontare, con pari talento, tutti i temi classici e propri dei film politici e di spionaggio, mantenendo però sempre ben centrato il suo sguardo indagatore sui drammi del singolo e sulle contraddizioni dell’essere umano, preso di volta in volta, nelle ambiguità e nei cambiamenti, ora personali, ora culturali, ora politici. Cambiamenti che sempre, ci dice Assayas, mettono in crisi o addirittura travolgono i singoli e con essi le loro passioni ed i loro affetti. E’ proprio di questi cambiamenti che l’autore vuole essere testimone raccontandoci il modificarsi della Società, dei singoli e del loro mondo di valori e, con essi, le illusioni e le delusioni che li accompagnano, focalizzandosi in particolare poi sul “Perché” delle azioni o degli errori umani.
Assayas filma il tutto attraverso una struttura narrativa tipica del suo stile rappresentativo: una struttura quasi concentrica che alterna le vicende private e le vicende pubbliche dei vari personaggi senza mai cedere alla tentazione della retorica nell’uno o nell’altro campo, anzi, al contrario, il taglio registico ricercato è volutamente quasi minimalista con coerentemente un ritmo filmico dal fluire costante ma quasi distaccato e senza tensione che può anche lasciare interdetti i più fra gli spettatori. Ci si sarebbe aspettato infatti un po’ di suspense, di partecipazione emotiva e di azione in più, la tentazione è forte, ma sarebbe stato un altro film, un film di una qualsiasi produzione americana. Oppure ci sarebbe voluto Oliver Stone. Assayas è invece tutto in questo rigore analitico con cui affronta la narrazione del reale, con il rischio “calcolato” di lasciare la sensazione di essere anche un po’ troppo riduttivo per il tema affrontato.
Fra i vari attori tutti ben calibrati nei loro vari ruoli, coadiuvano brillantemente il regista, nelle vesti dei quasi protagonisti, una sempre splendida, brava ed intensa Penélope Cruz e l’altrettanto bravo Edgar Ramirez.
In conclusione Wasp Network pur se imperfetto, è un film interessante che conferma tutta la complessità e la varietà del talento di Assayas, sulla cui valutazione poi, come al solito, si divideranno critici, giurie e pubblico.
data di pubblicazione:02/09/2019
da Antonio Jacolina | Lug 14, 2019
Due amici, ognuno, a modo suo, immaturo ed ai margini della società parigina: Clement(Vincent Macaigne) fragile, candido, sentimentale e depresso, si arrangia facendo la comparsa; Abel(Louis Garrel) bel tenebroso, seduttore, sicuro di sé ed egoista fa il benzinaio ma ha velleità di scrittore. Clement si è invaghito di Monà(Golshifteh Farahani)che lavora in uno snack alla Gare du Nord e che ha accettato di scambiare qualche chiacchiera con lui dopo il lavoro prima di dover assolutamente correre a prendere il treno(lo spettatore sa perché). Il povero Clement non trova di meglio che chiedere aiuto proprio ad Abel. Riuscirà l’amicizia fra i due a resistere alla presenza fascinosa, all’attrazione, alla rivalità e al tradimento?
Una volta tanto dobbiamo ringraziare la vituperata Distribuzione che, visto il discreto apprezzamento avuto da L’uomo Fedele (da noi recensito ad Aprile, in occasione della sua anteprima nell’ambito della IX edizione del Festival del Nuovo Cinema Francese), ha ritenuto di importare anche quest’altro film di Garrel. Così, complice l’Estate cinematografica, quasi come in una retrospettiva, abbiamo modo di vedere come “seconda” l’opera prima del nostro talentuosissimo direttore/attore. Il film d’esordio infatti risale al lontano 2014 ed era stato presentato alla Settimana della Critica a Cannes 2015!
Garrel che è anche coautore, si inserisce con questo suo lavoro nel filone dei drammi sentimentali tipico della tradizione artistica francese, e, giocando sulla contrapposizione di personalità e sul ribaltamento dei ruoli e delle situazioni, affronta il tema classico del triangolo amoroso, elemento questo quasi indissociabile all’arte del raccontare storie d’amore. Soprattutto nel Cinema Francese in particolare. Garrel riprende tutti gli archetipi del Genere, li amalgama con elementi eterogenei e ci regala un triangolo amoroso bizzarro, ma, ciò nondimeno con tutte le tensioni crudeli che formano e deformano le geometrie del triangolo stesso con il procedere della storia, fra le incongruenze a volte tragiche dei due amici e la serietà/drammaticità del comportamento della giovane desiderata. Come in tutte le “opere prime” non mancano ingenuità o la riproposizione di situazioni già viste mille volte altrove, ma Garrel sa, a tratti, giocare bene sulla rottura dei toni, alternando leggerezza delle situazioni alla serietà dei sentimenti, tensioni e pause contemplative.
Il vero centro del triangolo è però l’Amicizia, il più bello e complesso dei sentimenti, la crisi di un’amicizia, la rottura di una relazione di amicizia, raccontata così come si può raccontare di una rottura di una relazione amorosa: il momento in cui l’altro/a, amico o innamorata che sia, diviene “tossico” ed il distacco allora si rende necessario per poter sopravvivere.
Il film riposa tutto sull’alchimia perfetta fra Macaigne e Garrel, ma è illuminato dalla finezza recitativa e dalla bellezza della Farahani, all’epoca compagna di vita e d’arte del regista, dopo la V. B. Tedeschi e prima di L. Casta. Dei bei ruoli per un trio di attori ottimi, sullo sfondo una Parigi minore e notturna, accompagnati da una partitura musicale molto coinvolgente.
I Due Amici , a mio parere, è un film quasi bello e quasi sbagliato al tempo stesso, un film che la critica apprezzerà, non piacerà a tutti gli spettatori e rischierà di annoiarne molti. Il film difatti, è rimasto come sospeso oscillando fra commedia e mélo pesante ed a tratti teatrale. Sembra quasi aver rinunciato alle sue ambizioni. Troppi temi appesantiscono la storia e la narrazione ed annacquano lo spirito originario della commedia francese classica e della Nouvelle Vague di cui è evidentissimo l’influsso su Garrel che, del resto, gioca a rendere palese omaggio ed a citare i vari Truffaut, Godard e Sautet, in un cocktail sì seducente ma , a tratti, assai pesante.
Comunque sia in Garrel c’è del notevole talento, ed il successivo e più smaliziato L’Uomo Fedele ce ne ha già dato conferma.
data di pubblicazione:14/07/2019
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da Antonio Jacolina | Lug 2, 2019
Marion (Camille Chamoux) e Ben (Jonathan Cohen) entrambi trentenni, prossimi ai quaranta, borghesi, in carriera e… parigini, si incontrano tramite Tinder. Non hanno nulla in comune, ma scatta una forte attrazione fisica. Dopo una scoppiettante nottata decidono di partire in vacanza insieme. Lei aveva progettato Beirut, lui Biarritz, e… vanno in Bulgaria! Una vacanza che metterà a dura prova il loro idillio nascente, fra ostelli e spiagge affollate …
Siamo ormai agli inizi di Luglio ed andare al cinema e vedere un buon film sta diventando un’impresa sempre più difficile. Il quadro dei film in sala, fatte salve due/tre eccezioni, è veramente sconcertante, e, nonostante le belle promesse, anche quest’anno le prospettive di programmazione per i prossimi mesi estivi sono veramente deprimenti. Quindi, complici la “dipendenza cinematografica” e la gran calura, unite alla speranza di combinare un po’ di fresco in sala ed un film che consentisse di distendersi senza troppo riflettere, ci hanno fatto scegliere un film che ha avuto un discreto apprezzamento di pubblico in Francia e che qui da noi ancora resiste in sala, ad oltre una settimana dalla sua prima uscita. Ma… a fine stagione anche i francesi ti rifilano un croissant confezionato frettolosamente e per palati e gusti molto, molto, molto facili.
La prima vacanza non si scorda mai è l’opera prima di P. Cassir un giovane cineasta che viene dal mondo della grafica e che ne ha anche scritto la sceneggiatura insieme alla Chamoux, sua protagonista femminile ed anche sua compagna nella vita. Il regista intendeva proporci la storia di una coppia negli istanti in cui si sta formando. Quei primi istanti in cui nasce e si forgia l’intimità, quella sequenza di attimi in cui due innamorati si scoprono l’un l’altro. La storia di un amore, la magia e la follia dell’innamoramento, unitamente alla difficoltà intima di adattarsi ed accettare l’altro o di cambiare se stessi, soprattutto quando si hanno caratteri o comportamenti già definiti.
L’autore non è riuscito però a trovare il giusto tono ed equilibrio fra commedia romantica, commedia di costume e satira delle ossessioni del turismo contemporaneo. Certo, si ride e si sorride, le situazioni e le battute sono buffe e la coppia di protagonisti ha un buon senso della commedia e fanno entrambi scintille specie nella prima parte del film, ma, purtroppo, la regia è troppo convenzionale e la sceneggiatura e la messa in scena sono troppo fragili e tenui. Il film così scivola ben presto in una serie di gags e soprattutto di clichés caricaturali, trash e grossolani. Il giochino allora si rompe, perde la sua forza e la sua credibilità e la comicità delle situazioni si disperde tutta, e l’efficacia dei primi momenti non è che un lieve ricordo. Resta solo la sensazione di un’occasione che avrebbe potuto dare anche risultati migliori.
Comunque sia il film di Cassir è un film che se cinema addicted o accaldati, permette di distrarsi senza troppo riflettere, anzi, senza affatto riflettere, ed anche di ridere e sorridere. Nulla di più! Assolutamente nulla di più!!
data di pubblicazione:02/07/2019
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da Antonio Jacolina | Giu 6, 2019
Un gruppetto di studenti benestanti, stanchi ed annoiati della loro vita piatta e banale, cercano di uscire dalla pesantezza della routine e fare qualche cosa di eccitante. Pianificano un furto che più folle non si può: rubare un raro libro antico custodito nella biblioteca della loro Università nel Kentucky. Però … nulla va come previsto.
Layton è un giovane cineasta britannico, conosciuto come valente documentarista ed autore di docufiction. Questa sua ultima opera, di cui ha anche scritto la sceneggiatura, è stata già presentata e premiata al Sundance Festival, ed è interamente ispirata ad una storia vera. L’autore ci racconta i fatti connessi con il furto con una capacità evocativa così fuori dal comune che riesce a tenerci legati alla nostra poltrona di spettatori dall’inizio alla fine, facendoci totalmente immedesimare con i personaggi e con il loro progetto. La vicenda è tutta narrata al passato e la narrazione unisce e fonde abilmente in un ottimo amalgama realtà e finzione, vale a dire: ricerca dei fatti e rappresentazione dei fatti stessi. Nel film infatti, pur prevalendo la fiction, i veri protagonisti del colpo sono intervistati e raccontano davanti alla cinepresa lo svolgimento degli eventi reali di ieri, e, contemporaneamente, con costanti cambi temporali, la scena si sposta sulla rappresentazione diretta dell’azione e di quegli stessi eventi con gli attori al loro posto. L’effetto filmico che ne risulta non è solo credibile ed equilibrato ma è anche rimarchevole e godibile grazie ad un montaggio accelerato perfetto, senza alcuna cesura o tempi morti, e ad un ritmo narrativo sempre sostenuto ed incalzante, accompagnato da una musica rock di fondo che scandisce il succedersi dei fatti.
Oltre alla narrazione del furto ed alla satira graffiante di una certa America, quel che veramente sembra interessare all’autore è capire “il perché” degli avvenimenti raccontati. Perché mai dei ragazzi privi di veri problemi abbiano prima potuto pensare e poi addirittura potuto decidere di mettere in moto un tale progetto criminoso, perché mai abbiano voluto provocare il Destino. Forse, perché convinti di dovere avere una vita interessante, e, in assenza, di potersene creare una.
Comunque sia, il film mantiene tutta la struttura degli Heist Movies classici e dei migliori film del genere che lo hanno preceduto, anzi l’autore si diverte a citarli esplicitamente e ad ammiccare a Tarantino, facendo riferimento, non ultimo, anche a Rashomon, il vero ed unico modello di un racconto di testimonianze contraddittorie a seconda di chi narra la “verità” della storia. Apprezzabile infine la capacità di Layton nel dirigere i suoi giovani attori che infatti, sotto la sua guida, sono tutti molto credibili nel rendere evidenti i passaggi emotivi e psicologici dei vari personaggi che passano dalla noia iniziale, all’euforia della fase di pianificazione del furto, al panico durante la fase esecutiva, al senso di colpa e disillusione finale. Da seguire in particolare i talentuosi astri nascenti Evan Peters e Barry Keoghan.
American Animals, pur non sembrandoci all’altezza delle aspettative generate dall’entusiastica accoglienza ottenuta in America, va comunque segnalato perché è pur sempre un piccolo gioiello che rinnova il genere, un buon melange fra film comico e heist movie, una pellicola da vedere e da godersi, convinti che il buon cinema lo si trova sempre più spesso fra i piccoli film.
data di pubblicazione:06/06/2019
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