da Antonio Jacolina | Ott 19, 2019
(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 17/27 ottobre 2019)
Basata su eventi reali, è la storia di un gruppo di mogli di militari inglesi in missione in Afghanistan e, più in particolare, di Kate (Kristin Scott Thomas) moglie di un alto ufficiale e di Lisa (Sharon Horgan) moglie di un sottufficiale. Due caratteri, due origini e personalità che più opposte non si può immaginare, eppure entrambe, ciascuna a modo suo, impegnate a cercare di trovare soluzioni alle ansie ed alle paure dell’attesa … e la soluzione sembra essere formare un coro vocale ….
Dopo il grandissimo successo nel 1997 di Full Monty, di Peter Cattaneo, regista inglese di origini italiane, si sono praticamente perse le tracce, i non tanti film diretti in questi venti anni non hanno lasciato alcun segno. Quest’ultimo lavoro può forse essere l’occasione di tornare a bissare un grande successo? Non credo. L’appuntamento con il successo è rimandato ancora.
Intendiamoci, il film di oggi è discreto e si pone più che dignitosamente nel filone della Commedia Inglese, nel sottogenere della “Dramedy”. Military Wives è infatti una onesta e discreta “commedia/dramma” di buoni sentimenti, quello che, per l’appunto, gli americani chiamano “a feel good movie”. La formula funziona sempre, se attuato il giusto dosaggio di ansie e paure, di sfortuna e volontà di reagire, di ironia e lacrime, sorrisi, risate e cameratismo. In una parola: drammi e humour. Ma, anche se il tocco originale del regista c’è sempre, sembra però che Cattaneo abbia perso il guizzo, la capacità di sviluppare tutta la propria originalità con convinzione, andando oltre il normale mestiere.
La storia si centra sulla descrizione del macigno che devono sopportare le mogli dei militari: vivere nella paura che ogni telefonata, messaggio o notizia possa portare novità devastanti. Un contesto il loro ove si presume che le donne e, con esse le famiglie, debbano avere la forza, la dirittura ed il coraggio morale e materiale di mantenere una “facciata” equilibrata continuando a fare la normale vita di sempre. L’analisi non va però oltre la mera superficie e non entra nella profondità di questo duplice e difficile ruolo, pur catturando e cogliendo che è nella routine del vivere quotidiano che queste mogli e madri esorcizzano l’ansia, la paura e l’assenza.
Cattaneo gioca molto sui conflitti di carattere e di cultura fra le due protagoniste, traendo dai loro diversi approcci nella direzione del coro e nell’affrontare la vita, spunti ironici a tratti anche esilaranti, ed è allora che il film prende il volo, ma, purtroppo non sempre sostenuto da adeguata sceneggiatura non pochi sono anche i momenti di stanca in cui la miscela non regge, ed allora il film scricchiola un bel po’. A soccorrerlo entrano però in gioco la bravura delle due protagoniste, entrambe ottime nel recitare con il giusto equilibrio di humour e di emozioni, dando così un vero spessore ai loro personaggi, salvandoli dalla mera rappresentazione di genere.
Military Wives è dunque un discreto prodotto di genere che non aspira, in realtà, ad essere altro che ciò che è: un mix di pathos, sorrisi, ironia e, ovviamente, musica. Una piccola commedia inglese in cui non c’è nulla di nuovo o che non si sia già visto ed apprezzato. Ciò non di meno, il film ricorda tanto quelle musichette accattivanti che continuano a risonarci piacevolmente dentro ancora per un po’ anche se tanto semplici e tanto banali.
data di pubblicazione:19/10/2019
da Antonio Jacolina | Ott 18, 2019
(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 17/27 ottobre 2019)
Due donne mature, Nina (Barbara Sukowa) e Madeleine (Martine Chevallier) hanno nascosto a tutti il profondo, delicato e vivo amore che le lega da anni e vivono felicemente la loro storia in due appartamenti contigui sullo stesso pianerottolo. Agli occhi di tutti, compresi i figli adulti di Madeleine, sono solo due amiche, vicine di casa. Un drammatico imprevisto sconvolge però gli equilibri ed i non detti….
La bellezza ed il senso stesso di eventi come la Festa del Cinema di Roma, sono, nel contempo, anche la gioia dei cinefili: cioè poter passare nel breve spazio sia fisico sia temporale, dalla grande sala ove si è appena visto un sicuro blockbuster come Motherless Brooklyn di R. Norton, ad una piccola sala ed alla scoperta di un piccolo gioiello. Scoperta resa ancor più bella perché imprevista in quanto si tratta di un’opera prima di un giovane regista. Il gioiellino è Deux ed il regista è F. Meneghetti, italiano di nascita ma che vive e lavora in Francia ove, finora, si era distinto solo come autore di cortometraggi.
Deux è il suo debutto come regista e come cosceneggiatore. E che debutto! Un nome il suo da tenere ben in evidenza per il futuro, perché il suo piccolo film è bello, delicato, ottimamente sceneggiato, finemente interpretato ed abilmente diretto mostrando stile, talento ed eleganza.
Al cuore dell’opera è l’Amore e l’Universalità del sentimento, la sua forza, il desiderio, la tenerezza che tutto superano e tutto travolgono. Che poi la storia si centri sulla relazione fra due donne nulla cambia ai valori espressivi, anzi la rende solo più innovativa, viva, tenera ed originale.
L’abilità dell’autore è proprio nel saper accompagnare lo spettatore lungo la vicenda senza mai scadere nel facile bozzettismo, nei clichè o nel patetismo. Il dramma poteva scivolare nel melodramma, invece il Meneghetti sa mantenere ben saldo il film nella realtà facendoci vivere tutta una gamma di emozioni e sentimenti reali: ora divertente, ora bello, ora malinconico, ora dolce-amaro, ma mai triste o disperato, senza alcuna scena superflua, aiutato in questo da una sceneggiatura essenziale ed intelligente, con un ritmo narrativo teso e vivace ottimamente costruito. Coadiuvano il regista un cast di attori perfetti nei secondi ruoli e poi, soprattutto e sopra tutti, ci sono loro, le due ottime protagoniste, una più brava ed intensa dell’altra. Il film, in effetti, è tutto loro dalle prime inquadrature fino alla dolce, poetica e tenera scena finale. Superbe e penetranti entrambe nel gioco recitativo fatto di soli sguardi ed emozioni e sentimenti legati tutti al filo di un amore e di un dolore tanto pudichi quanto commoventi per la loro ammirevole forza.
Siamo lontani dal pur garbato americano Carol (2015), ed anni luce dal francese Vita di Adele (2013) o da un racconto sul perbenismo di facciata della “provincia profonda” francese con atmosfere alla Chabrol che l’ambientazione potrebbe richiamare. Siamo invece in un film in cui luoghi e circostanze sono solo lo spunto per un racconto d’amore dolce, poetico e tenero ma mai sdolcinato. Tutt’altro!
Andate a vederlo, Deux , è una splendida storia d’amore tanto tenera e poetica quanto altresì complessa; proprio come tenera , complessa e misteriosa è la Vita e con lei anche l’Amore. Un piccolo bel film senza pretese che catturerà tutti gli spettatori sensibili. Ad averne di piccoli film così!
data di pubblicazione:18/10/2019
da Antonio Jacolina | Set 13, 2019
A prima vista, Vox Lux di Brady Corbet, può apparire un documentario, una pellicola sgranata, una voce narrante (la splendida voce di W. Dafoe), macchina a mano, e poi la narrazione ripartita, dopo un breve drammatico prologo, in varie sezioni riferite ciascuna agli anni presi in esame per le vicende narrate.
Il giovanissimo autore, l’americano B. Corbet, appena trentenne e già considerato quasi un mostro sacro in quanto apprezzato talento sia come attore sia come regista fin dal suo primo esordio dietro alla macchina da presa con L’Infanzia del capo, premiato a Venezia nella sezione Orizzonti nel 2015, si concede ora, autorialmente , questi vezzi per affrontare senza inibizioni l’appuntamento con la sua opera seconda presentata in concorso alla Mostra l’anno scorso. L’avvio semidocumentaristico di cui dicevamo è infatti lo spunto originale per il regista per concentrarsi sugli ultimi venti anni, dal 1999 al 2017, illustrando gli eventi che hanno segnato definitivamente il nostro modo di vivere e pensare e che hanno inciso e modificato per sempre i comportamenti sociali e culturali del Mondo Occidentale in senso lato. Come dichiarato in conferenza stampa dallo stesso regista: “il suo è un racconto sulla sindrome post-traumatica dell’Occidente, una riflessione sull’ansia collettiva che ci caratterizza ormai tutti… e… più in particolare, sull’intreccio fra cultura pop, spettacolo e violenza…”
Lo spunto narrativo interessante è la vicenda della giovane americana Celeste (Raffey Cassidy, da adolescente, e poi Natalie Portman, da adulta) sopravvissuta alle ferite riportate durante una strage nella scuola ove studiava e divenuta poi, quasi inconsapevolmente, una pop singer conosciuta ed idolatrata in tutto il mondo, aiutata con dedizione costante “dietro le quinte” dalla sorella (Stacy Martin) che, in effetti, è la vera autrice dei testi e delle musiche.
Metaforicamente, come la nostra Società anche Celeste subisce una trasformazione, e da dolce, ingenua, pulita e sincera ragazza, la ritroviamo, passato un decennio, ormai divenuta una donna cinica, dura, indifferente ed egoista, una star violenta, irrispettosa e priva di affetto perfino per la figlia e preoccupata solo per la propria carriera. Un essere centrato solo su se stessa, sulla sua immagine pubblica, sulle ansie di dover sempre essere al centro dei riflettori, priva di riconoscenza anche verso la sorella che sempre l’ha sostenuta in tutte le sue vicende umane ed artistiche.
Celeste è l’equivalente della nostra Società che, persa ormai definitivamente la propria innocenza, in una sorta di sindrome post trauma, convive ormai cinicamente, in un alternarsi umorale, con la dura realtà che è costretta ad affrontare.
Due anni dopo Jackie e lo splendido Il cigno nero del 2008, torna sugli schermi una bravissima ed autorevole N. Portman nei panni di Celeste allorché è divenuta ormai una Star tanto brava, quanto disperata e sgradevole. Nel film l’attrice canta e balla su musiche composte da una cantante pop australiana e si conferma splendida interprete sia nella recitazione sia nelle parti coreografiche. Con lei anche un buon Jude Law nel ruolo del suo agente.
Sembra tutto perfetto, ottimo regista, ottimi interpreti, ottimi coprotagonisti, soggetto interessante… ma … ma il risultato è purtroppo un film discontinuo. Sembra che qualcosa si sia perso strada facendo. L’opera è bella, ben recitata, ben diretta, ma è come priva di anima e vita, manca una vera passione ed il risultato sembra quasi didascalico…”ecco quel che volevamo rappresentare…”. Un film di un valido autore, certamente, ma proprio per questo non basta essere “più che sufficienti”, ci si aspetta decisamente qualcosa di più. A distanza di un anno dai tiepidi consensi con cui fu accolto alla Mostra, proposto finalmente solo oggi sugli schermi, la valutazione resta ancora molto vicina alla “sufficienza”.
data di pubblicazione:13/09/2019
Scopri con un click il nostro voto:
da Antonio Jacolina | Set 8, 2019
… Siccome anime disperate vaganti alla ricerca di qualche perla nascosta da scoprire ed attente, nel contempo, ad evitare il “film incubo”, quello che ti costringe all’orribile dilemma “…resisto fino alla fine…o mi alzo e me ne vado?”, così torme di appassionati, di cinefili e critici superstiti, si aggiravano ormai, programmi alla mano, fra le ultime proiezioni di questi giorni conclusivi della Mostra. Volti stralunati, occhi stanchi, tutti resistevano indomiti, solo nell’attesa del verdetto finale… del successo del “proprio” film. Su tutti aleggiava però il grande quesito di questa edizione numero 76: chi avrebbe vinto? Sarebbe poi stato discriminato Polansky?
Sarà pur vero che il bello, il sublime e l’arte si nascondono nei dettagli anche delle opere meno appariscenti e, che sono solo l’occhio e la mente di chi osserva che filtrano ciò che è bello e ciò che è brutto e, quindi, che è solo “il relativo” che domina, ma, i giudizi di pubblico, stampa ed addetti ai lavori, mai come questa volta, sembravano essere unanimemente concordi sui film da premiare.
Eccoci finalmente al disvelamento di tante attese e tanti pronostici!
Dopo la dura presa di posizione della Presidente della Giuria, l’argentina Lucrecia Marcel contro Polansky, si temeva infatti il peggio, ed invece la Giuria è stata, una volta tanto, più saggia della sua stessa presidente ed anche in quasi assoluta sintonia con le principali valutazioni, previsioni ed auspici sia dei critici che degli appassionati di cinema presenti a Venezia.
Il Leone d’oro è andato meritatamente a Joker di Todd Phillips con l’interpretazione eccezionale, inquietante e dolente di un superbo Joaquin Phoenix (già in opzione Oscar!) sottolineando così, giustamente, che non è eccezionale solo l’attore, ma lo è tutto il film dal cast alla regia. Altrettanto accettabile ed apprezzabile il “compromesso” del Leone d’argento al magnifico J’accuse di Polansky (… è un leone di un argento purissimo, prezioso quanto l’oro!!). Due film da correre subito a vedere quando usciranno in sala!
Meritati e corretti anche i premi per le interpretazioni:
la Coppa Volpi per il migliore attore è stata correttamente assegnata al nostro bravissimo Luca Marinelli per il suo apprezzato Martin Eden di Pietro Marcello che brillantemente e genialmente ha trasportato il romanzo di Jack London a Napoli
Un po’ più a sorpresa, quella per la migliore attrice è andata invece alla francese A. Ascaride per la sua vibrante nonna nel film diretto da suo marito Robert Guediguian: Gloria Mundi, un drammone ambientato a Marsiglia sulle battaglie quotidiane di una famiglia che lotta “dignitosamente e non” per far fronte allo sfaldamento ed alle difficoltà economiche. Forse qualche aspettativa, delusa, c’era per la Scarlett Johansson di Marriage Story, e chissà, forse anche per una delle due dive francesi de La Verité. Molto probabilmente la Giuria ha però inteso premiare indirettamente anche la produzione artistica del regista, già apprezzatissimo qui a Venezia nel 2017 con La casa sul mare.
Il Premio Speciale della Giuria è poi andato anche qui meritatamente all’italiano Franco Maresco con il suo originale La mafia non è più quella di una volta.
Unica vera sorpresa che genera più di qualche perplessità è invece il secondo Leone d’Argento che va allo strano, discusso e più che discutibile film dello svedese Roy Andersson About Endlessness, scene fisse, tipo tableaux vivants, filmate, come spunto per una serie di riflessioni sulla vita umana. Può capitare di sbagliare o … di vedere cose che noi umani non abbiamo visto!
Fermandosi sui soli premi maggiori possiamo senz’altro dire che quest’anno non è andata poi tanto male per l’Italia che vince premi significativi come non accadeva da molto, ma, soprattutto, va sottolineato che Venezia continua a premiare film di produzioni americane, film che poi come La forma dell’acqua nel 2017, e Roma o La Favorita nel 2018, procedono sull’abbrivio, spediti verso la conferma del loro valore con i premi Oscar. Questa specie di staffetta, o preliminare “benedizione” veneziana spiega la sempre maggiore presenza delle Majors, dei registi e produttori ed il ritorno in massa delle stars internazionali e dei film di gran qualità alla Mostra.
Ma, più di ogni altra cosa, quest’anno è andata benissimo proprio per il Festival, un Festival che ha riguadagnato e consolidato ormai il suo peso e ruolo storico, un Festival che ha avuto oltre 200.000 presenze, oltre 21 film in concorso e quasi tutti di buona qualità, 36 film fra fuori concorso o nella sezione Orizzonti, un pubblico internazionale, una presenza giovanile altissima, entusiasta e partecipe, e, un mercato commerciale vivacissimo. Sono tutti questi i tanti diversi pregi, segno e conferma nel loro complesso di una vitalità e qualità ormai stabile. Una Venezia 76 dunque con alcuni ottimi film, diversi buoni film, varie conferme autoriali di grandi registi, qualche piccola delusione su un paio di divi ed infine anche qualche gioiellino piccolo, piccolo che fa buon cinema e che speriamo possa uscire sui nostri schermi.
Come ha detto Alberto Barbera, direttore artistico della Mostra dal 2011 … appuntamento di nuovo a Venezia il 2 Settembre 2020!!
data di pubblicazione:08/09/2019
da Antonio Jacolina | Set 4, 2019
(76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)
Una giovane insegnante di musica al liceo (Laysla de Oliveira) è accusata di aver abusato della sua posizione per aver rapporti con un suo allievo minorenne. Incarcerata, rifiuta i tentativi del padre (David Thewlis) di farle ottenere la libertà anticipata perché, pur se innocente, ritiene di dover comunque scontare una punizione per un qualcosa avvenuto nel loro passato. Il suo e quello del padre….
Manca ormai solo un pomeriggio di pioggia, vento e foglie autunnali per dare forma concreta alla sensazione di “fine stagione”… Purtroppo, a differenza di tanti altri Festival (perfino di quello di Roma), Venezia persiste nel suo recente pessimo vezzo di “sparare” i migliori film o quelli di maggior richiamo nella prima settimana di programmazione, dopo di che è tutto un disperato aggirarsi di critici ed appassionati fra proiezioni di film di non apparente grande appeal o di cinematografie marginali. Sono, ahinoi le dure leggi dettate ed imposte dalle Majors Americane e dai vincoli del “circo” dello Star System che porta le grandi stelle e produzioni da un Festival all’altro. In questa settimana è infatti partito il Festival di Toronto, ed ora, quelli che contano o su cui molto si è investito sono quasi tutti lì!
Eppure… Eppure… si trovano fortunatamente ancora delle belle sorprese o piuttosto delle gradite conferme come nel caso dell’ultimo lavoro di Egoyan.
Il non prolifico regista e sceneggiatore canadese amatissimo dai Festival e talora molto apprezzato anche dal pubblico per i suoi: Dolci Inganni 1997, Chloe 2010, ed il recente Remember 2015, ripropone con questo suo film alcune delle sue tematiche costanti: il senso di colpa, il lutto e l’espiazione. Ancor di più, questa volta tutti questi suoi temi s’incrociano anche con i grovigli di segreti, di equivoci e di incomprensioni che si celano nella famiglia e nelle relazioni fra genitori e figli. Nel nostro caso fra un padre vedovo ed una figlia unica.
Ciò che ha sempre affascinato ed affascina l’autore è, in particolare, anche l’emergere della “vera” Verità all’interno delle varie realtà che ognuno di noi si autoconvince e vive poi come la “Vera Realtà”. Talora però, sottolinea il regista, la Verità si scopre quando è ormai troppo tardi. Il dolore e la solitudine non riescono ad abbattere le barriere erette dal pudore dei sentimenti, delle emozioni e da quell’amore inespresso che padre e figlia non sono, da soli, in grado di superare. Se solo fossero riusciti a parlarsi, ad aprirsi prima! Non è facile essere padri oggi, ci dice Egoyan.
Spesso, secondo il regista, il legame di amore può essere così forte ed inesprimibile da arrivare ad essere schiacciante e deviante fino a generare equivoci tragici ed irreparabili.
Egoyan è bravo, in un’alternanza fluida fra passato e presente a disvelarci nel flusso dei ricordi la realtà del quotidiano vivere, la solitudine, l’affetto inespresso, il vuoto affettivo mai anestetizzato o cicatrizzato che ha inciso la vita dei due protagonisti. Il lento rivelarsi della Verità e dei segreti equivoci. Guest of Honour è un film autoriale profondo, inquietante ed intrigante che cattura lo spettatore tenendolo sospeso nei vortici emotivi che si dispiegano progressivamente. Dove, come e quando ci si riesce a riconciliare? è l’interrogativo che il regista lascia aperto per le nostre riflessioni di spettatori.
Un film autoriale come detto, assistito dall’ottima interpretazione della rivelazione De Oliveira, bella, giovane, brava ed intensa e soprattutto da un eccezionale tragico e straniato Thewlis. Un film non certo facile e non certo banale, dinamico e leggero; un film che invece fa riflettere e che si può anche riuscire ad apprezzare pur senza essere tra i migliori ed i più originali dell’autore.
data di pubblicazione:04/09/2019
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