da Antonio Jacolina | Ott 25, 2019
(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 17/27 ottobre 2019)
Tutto inizia come in uno di quei film di cui solo il cinema francese sembra avere la formula magica ,,, una grande casa di famiglia in campagna, dal fascino vecchio stile, un giardino ove giocano bambini gioiosi, una tavola imbandita sotto alberi centenari, una grande famiglia che si riunisce; fratelli, sorelle, fidanzate e figli, in occasione del compleanno della matriarca Andrea (Catherine Deneuve). L’incontro tenero e leggero, lascia ben presto emergere tensioni, drammi e nevrosi mai sopite. Chi manipola? Chi è manipolato?Tutto è ambiguo!
Kahn regista, sceneggiatore ed anche attore di una discreta notorietà in Francia, dirige, sceneggia ed interpreta oggi il racconto di una crisi familiare. A prima vista può sembrare una vera famiglia come tante altre … un progressivo, lento declassamento sociale, disparità di aspirazioni, di sogni e di risultati fra i figli ormai adulti, rancori più o meno dissimulati … cose tutte, in qualche modo, quasi normali. Ma non c’è solo questo! In realtà, appena, appena sotto la superficie controllata a fatica dalla matriarca, ci sono macigni e nodi irrisolti ben più crudeli e difficili. Kahn va ben oltre dal dipingerci l’ennesima variante sui valori della famiglia borghese in genere, sia essa francese o meno, perché affronta ed analizza un problema ed una questione ben più insidiosa e subdola. Quale è il livello di sacrificio che una famiglia può decidere ed accettare di scegliere per riuscire a preservare i propri confort ed il proprio status quo morale e materiale?
Su questo interrogativo che si insinua ambiguamente e progressivamente nella famiglia e nella mente dello spettatore, la regia e la sceneggiatura portano a nudo, piano piano, la Verità, con una meccanica narrativa implacabile che ricorda i drammi di Tennessee Williams, o, il ben più recente e crudo Festen.
Fête de famille è un film dall’impostazione scientemente teatrale, quasi una rappresentazione articolata secondo i codici classici teatrali di unità di tempo e di luogo, per le porte che si aprono, si chiudono, sbattono per far entrare ed uscire di scena i personaggi, per la modalità con cui, quasi atto dopo atto, vengono delineati i caratteri. Un dramma familiare, a tratti lacerante, a tratti divertente, che però il regista evita abilmente che sia del teatro filmato, per la sapienza con cui muove la cinepresa osservando i personaggi, i loro movimenti e lo spazio che li circonda, inserendo intelligentemente anche scene esterne, aiutato in ciò dall’alta qualità del montaggio, dal ritmo narrativo sempre sostenuto e dai dialoghi cesellati al dettaglio. L’autore è veramente abile nell’accentuare, in un giusto mix di tenerezza e crudeltà, di tragedia e commedia, la progressione delle dispute e contrasti familiari fino ad arrivare a lacerare la pseudo armonia familiare in una scena finale drammatica e catartica in cui si scioglie l’interrogativo di cui sopra. Kahn costruisce il dramma mettendo in scena i vari rapporti umani con leggerezza e sensibilità vere e veritiere, quasi fosse un concentrato di follia dolce e furiosa al tempo stesso.
Il suo film è certamente un film corale, straziante e divertente recitato da ottimi attori, tutti virtuosi e ben diretti. Al centro, su tutto e tutti emergono però la Deneuve: eccezionale e credibilissima con i suoi non detti, nel ruolo della madre e nonna intenta a tenere legata, in una sembianza di intesa, la famiglia, costi quel che costi, e poi Emmanuelle Bercot, nel ruolo della figlia, la cui coraggiosa performance è di una intensità che colpisce tanto è brava e geniale.
Fête de famille è di certo uno dei migliori film di Kahn anche se ad essere proprio severi c’è qualche piccolo calo di tensione. Forse quindi un po’ ineguale ma pur sempre del buon cinema, con buoni attori, buon soggetto, buona regia. Un vero piacere di cinema.
data di pubblicazione:25/10/2019
da Antonio Jacolina | Ott 24, 2019
(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 17/27 ottobre 2019)
Inverno 1968, inizio 1969, Judy Garland (Renée Zellweger) ormai fisicamente ed emotivamente segnata e, per di più, in gravi difficoltà economiche, è costretta ad accettare un’offerta generosa per una serie di show in un locale di Londra, sperando così di riottenere anche l’affido dei due piccoli figli. Gli ultimi sei mesi, prima di morire per eccesso di barbiturici a soli 46 anni!
Goold è un regista inglese attivo soprattutto in campo teatrale che ha fatto il suo debutto cinematografico nel 2015 con True Story ed oggi torna sugli schermi con la sua opera seconda.
Judy è un tributo ad una star leggenda di Hollywood ed al tempo stesso, una vittima dello star–system Hollywoodiano, ma, soprattutto, vuole essere un omaggio alla donna fragile che si celava dietro la facciata, schiacciata fra il suo essere nel privato ed il suo apparire nel pubblico. Il ritratto, non tanto della Diva, quanto piuttosto quello di un essere umano ferito che lotta ancora, anzi che è costretto ancora a lottare nell’incertezza di riuscire ad essere all’altezza della sua fama.
Il film è integralmente tratto da una commedia “The end of the rainbow” e per renderla meno teatrale e lineare il regista ricorre ad una serie di flashback facendo muovere lo spettatore avanti ed indietro fra gli ultimi mesi a Londra ed i primi passi della giovanissima attrice con la M.G.M. sul set del Mago di Oz . Una serie di ricordi personali della Garland che evidenziano le origini delle sue dipendenze, dei suoi bisogni di affetto, di sicurezza e di protezione. Certo il film e la stessa regia non sono molto originali, anzi la regia è molto classica e pacata ed il film si muove prevalentemente nell’alveo di tanti altri biopic: il personaggio segnato, le origini, i ricordi, i successi e gli insuccessi. Però, pur scivolandoci dentro in alcuni passaggi, il cineasta è bravo ad evitare di cadere del tutto nel melodramma e nel patetico. Concentrando poi la narrazione su un periodo ben definito quale quello londinese, evita abilmente l’altra trappola tipica delle biografie cinematografiche: troppe storie da raccontare in un storia, e, di conseguenza, che il film risulti poi oppresso e compresso. Si può infatti dire che i momenti migliori della regia di Goold sono proprio quelli in cui esce fuori dagli schemi narrativi delle biografie inventandosi del tutto alcune situazioni.
Quel che però fa scordare le imperfezioni e le carenze narrative del lavoro e che gli da il vero valore e che giustifica la sua visione e gli apprezzamenti e fa la vera differenza di qualità è … la straordinaria, eccezionale, superba, magnifica interpretazione della Zellweger già Oscar per Cold Mountain nel 2004 ed assente dagli schermi da un po’ di anni.
In realtà Judy è lo show della Zellweger, la sua bravura è già uno spettacolo di per se stesso; è capace di restituirci con autenticità la Garland catturandone gli aspetti della personalità sia fisici che psichici. Un processo empatico che coglie e trasmette tutta la sofferenza, la fragilità, la determinazione e la disperazione, la scarsa autostima, le dipendenze ed il tenero amore per i figli.
Pur restando sempre se stessa la Zellweger diviene la Garland non solo per mimesi fisica, ma facendola rivivere nei suoi drammi interiori, nei bisogni, nei vezzi senza mai essere eccessiva. Anzi al contrario. E poi … canta, e lo fa anche molto bene restituendoci le sonorità che poteva avere la Garland a quel punto finale della sua carriera. Una interpretazione che, come abbiamo detto, fa il film e che sicuramente porterà l’attrice ad essere una delle maggiori candidate per il prossimo Oscar. Veramente commovente e coinvolgente!
Il resto del cast è perfetto nei vari ruoli, come buona è la messa in scena, i costumi ed i set che ci riportano veramente nella Londra di 50 anni fa.
Judy è quindi un film da vedere perché ci restituisce quella grande icona che fu la Garland, un film che gli appassionati di cinema vedranno solo per l’interpretazione della Zellweger in attesa degli Oscar, e che poi potrà anche essere dimenticato. Un biopic classico sul finale di carriera, un po’ come abbiamo visto appena l’anno scorso alla Festa del Cinema con Stan e Ollie.
data di pubblicazione:24/10/2019
da Antonio Jacolina | Ott 21, 2019
(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 17/27 ottobre 2019)
Antivigilia di Natale del 1999 in un piccolo villaggio delle Ardenne Belghe, un bambino scompare nella foresta. L’inchiesta arranca ed i sospetti dilaniano la piccola comunità. Eventi inattesi e devastanti, prima nell’immediato e, poi 15 anni dopo, modificano ed avvelenano vite intere.
Suspense, segreti, rancori, ambientazione plumbea, una foresta incombente, silenzi pesanti, una piccola comunità ripiegata su se stessa, una piatta quotidianità di provincia ed i giochi del Destino ci portano fin da subito in un’atmosfera degna del miglior Simenon o in un classico ritratto dei peccati occulti di provincia degno del miglior Chabrol. Boukhrief sceneggiatore, attore e regista francese attivo da oltre venti anni è un regista colto che trova spesso ispirazione per i suoi film nel cinema popolare francese degli anni ‘50 e ’60. Molto legato ai drammi psicologici ed al genere noir, ai suoi codici, alle sue situazioni tipiche, ne ha rinnovato però gli schemi ed i valori. Questa volta l’autore, prendendo spunto dall’omonimo romanzo poliziesco di P. Lemaitre edito nel 2016 realizza un film efficace ed incisivo che gioca, non tanto sul mistero o sull’intrigo della scomparsa del ragazzino, ma piuttosto sulle atmosfere di cui abbiamo accennato, sugli sconvolgimenti sul piccolo mondo del villaggio e soprattutto su alcuni interrogativi di fondo.
Il regista prende infatti lo spettatore e lo porta ad interrogarsi sulle vere frontiere fra il bene ed il male, la verità e la menzogna, l’innocenza e la colpevolezza. L’innocenza forse non esiste affatto, tante verità si intrecciano e nascondono dietro la scomparsa, silenzi e verità taciute, segreti con cui si è vissuto, si vive e si vivrà. Si può quindi vivere o sopravvivere con un peso sulla coscienza? In una parola, un microcosmo quello preso in esame dal regista in cui si condensano i misteri, i drammi dell’animo umano: sentimenti, onestà, ipocrisia, falsità, punti di vista individuali, ma, soprattutto la molteplicità delle verità di ognuno, e infine … su tutto e tutti … il Destino.
Sull’insieme di queste domande il regista costruisce una suspense ed una tensione progressiva moltiplicando gli echi della vera domanda principale: come sopravvivere con il peso della colpa o di un segreto.
Il risultato è alla fine un buon “poliziesco/noir” nell’alveo della grande tradizione del genere, con una messa in scena efficacissima ed un supporto di attori tutti impeccabili e convincenti nelle loro caratterizzazioni, fra tutti emerge Sandrine Bonnaire in un ruolo assai complesso. Si può criticare forse una mancanza di energia ed un ritmo troppo lento, ma sono mancanze che si perdonano facilmente e forse una certa lentezza è anche voluta e ricercata.
Trois jours et une vie è dunque un buon dramma psicologico intenso ed intimo, un film semplice di buona fattura ed efficace, un film di atmosfere che, di sicuro, non esce dall’ordinario, un film senza effetti speciali, ritmi incalzanti né virtuosità stilistiche, che, ciò non di meno, è ben diretto e si vede volentieri e si fa apprezzare nella piena tradizione dei noir francesi.
data di pubblicazione:21/10/2019
da Antonio Jacolina | Ott 21, 2019
(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 17/27 ottobre 2019)
Victor (Daniel Auteuil) un sessantenne disilluso ed annoiato dalla vita e dal mondo tecnologico che lo circonda, è sbattuto fuori casa dalla moglie Marianne (Fanny Ardant) che, per quanto coetanea, vuole invece vivere intensamente la sua età e lo tradisce. Victor coglie allora l’opportunità (tramite un’agenzia che usando perfette ricostruzioni cinematografiche ricrea il passato che i suoi clienti decidono di rivivere) di tornare nel 1974 quando incontrò proprio Marianne. La splendida Margot (Doria Tillier) è l’attrice che impersona il suo amore di allora … ma l’Amore non ha età …
”Et voilà du veritable Cinéma!”… ecco questo è buon Cinema! Se per Cinema si intende spettacolo, divertimento, tenerezza, fantasia e capacità di far sognare e commuovere. Non c’è quindi solo Hollywood, talora ci riescono bene anche i francesi, e … perché noi no? Bastava vedere il film italiano in programmazione oggi subito dopo, per darsi una risposta: mancanza di soggetti, di storie, di fantasia, di sceneggiature, di produzioni, di soldi, di narratori, di talenti e di idee che non si brucino ed esauriscano nello spazio di pochi minuti.
Nicolas Bedos, figlio d’arte, talentuoso sceneggiatore, drammaturgo ed attore nonché anche compagno della splendida D. Tillier, dopo il discreto successo di Un Amore sopra le righe suo debutto nella regia nel 2017, torna di nuovo dietro la cinepresa con questa sua opera seconda regalandoci una pregevole commedia dal respiro romantico, passionale ed armoniosa.
Un elogio della nostalgia e della fuga, ma, soprattutto un elogio dell’Amore. L’autore si interroga infatti con garbo, ironia e leggerezza sulla vita che scorre, sul tempo che passa e che è passato e su ciò che rimane ancora, ed anche del futuro, e, lo fa traendo brillantemente spunto dall’incredibile opportunità del suo protagonista di poter “rivivere” e “vivere” momenti ed emozioni del passato.
La fluidità della sceneggiatura, della regia e del montaggio fanno sì che la storia fluisca armoniosamente senza che lo spettatore si perda fra il presente ed il falso passato, fra commedia e dramma, e, soprattutto fanno anche sì che le due realtà si fondano e corrispondano costantemente. La capacità e l’abilità del direttore è proprio nel non scivolare nella trappola dell’elogio amaro del buon tempo passato o della giovinezza o nel patetico amor senile. Qui Bedos è veramente bravo a giocare sempre sui vari livelli di lettura restando pur sempre padrone della storia grazie alla dinamicità della sua regia capace di toccare il tasto delle emozioni sapendo però come lasciarle un attimo prima che esse ci sommergano.
Come detto la sceneggiatura è perfetta, i dialoghi sono ottimi con battute precise, calibrate e cesellate che danno anima vera ai personaggi, il montaggio poi,va ribadito, è così sopraffino che il passaggio fra le varie epoche avviene sovrapponendo parole e sequenze in un gioco talentuoso di elissi continue. I personaggi infine incarnano veramente la vita e, come nella vita, si attraggono e si respingono con un tocco di ironia onnipresente e Bedos dirige magnificamente gli attori che li interpretano. E che attori! Alcune icone del cinema francese e nuove leve in stato di grazia. Su tutti: D. Auteuil da tempo lontano da un ruolo così giusto e così ben recitato, poi F. Ardant brava, fascinosa ed autoironica ed infine la bellissima e dotata D. Tillier, la musa del regista, che illumina lo schermo dando personificazione reale ad un ideale femminile davanti al quale si può restare estasiati.
La belle époque è la conferma della vitalità della cinematografia francese ed è un piacere vederlo, un film pregevole, tenero e vivace da non perdere. Una dolce love-story, romantica, divertente e ricca di ironia pungente e di emozioni.
data di pubblicazione:21/10/2019
da Antonio Jacolina | Ott 20, 2019
(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 17/27 ottobre 2019)
Inghilterra 1927, il re Giorgio V e la regina Mary saranno ospiti per una notte nella dimora aristocratica di Lord Grantham, a Dowton Abbey. L’evento destabilizza gli equilibri e gli ordini gerarchici ed i ruoli di ciascuno, soprattutto fra la servitù….
Dowton Abbey è stata una delle serie televisive di maggior successo degli ultimi anni. La serie è andata in onda per ben 6 stagioni consecutive a partire dal 2010 e raccontava la saga dell’aristocratica famiglia di lord Grantham, signore di Dowton Abbey nello Yorkshire e, tramite le sue vicende, le dinamiche di classe del “buon tempo andato”, gli anni gloriosi dell’Inghilterra dei primi decenni del secolo scorso. Un’acuta descrizione del mondo aristocratico al suo massimo fulgore ma, tuttavia, già costretto ad affrontare i nuovi venti di cambiamento. Una riflessione ironica e pungente sulla Società Britannica, sulle rigide distinzioni fra classi sociali e sulle interazioni ed i rapporti fra i vari ceti: fra i “piani superiori” quelli dei nobili e dei padroni ed i “piani inferiori” quelli della servitù, dei domestici, cuochi, valletti, maggiordomi e governanti. La serie è stata ideata dallo scrittore e sceneggiatore J. Fellowes (Oscar per la sceneggiatura del meraviglioso Gosford Park di Altman 2001). Fellowes stesso ha curato anche la sceneggiatura della versione cinematografica con cui l’autore ridà vita ai suoi personaggi e che è stata presentata alla Festa del Cinema di Roma. Il film dell’americano M. Engler (apprezzato regista televisivo che aveva diretto anche 4 episodi dell’ultima stagione) qui al suo secondo lungometraggio, riprende la storia là dove la serie televisiva si era interrotta.
La narrazione e con lei la cinepresa, segue i vari avvenimenti passando dai “piani alti” giù fino ai “piani bassi” abitati da uno stuolo di solerti domestici, governati tutti dagli stessi meccanismi di Potere dei loro padroni. Così facendo, lo sguardo dello spettatore si muove anch’esso da un piano all’altro della nobile magione, catturando conversazioni, vizi, progetti, gelosie intrighi e storie in un ritratto d’insieme delle classi sociali e delle varie gerarchie in un’analisi profonda delle relazioni umane e dei pregiudizi della società inglese dell’epoca, ma, se vogliamo, anche un quadro riflesso dei cambiamenti culturali, sociali e delle vicissitudini dei nostri giorni.
La sensazione, per chi ha già seguito la serie, è quella di stare ad assistere ad un nuovo lungo episodio, solo più stupefacente e più attento al dettaglio, vista la destinazione al grande schermo. In effetti le inquadrature sono spesso le stesse, le situazioni sembrano riproporsi, si rincontrano gli stessi personaggi, lo spirito è identico, ma non poteva che essere così vista la logica della stessa trasposizione cinematografica.
Il risultato è comunque un film rapido ed elegante, ironico ed avvincente, la messa in scena è efficace, la regia è dinamica e mantiene sempre un ritmo sostenutissimo. I dialoghi sono raffinati ed accurati. Il fasto della grande dimora, la bellezza dei costumi, gli oggetti di scena tutti perfetti e giusti, riempiono meravigliosamente lo schermo. Una giusta alternanza di dramma e tensione con commedia ed ironia diverte e coinvolge subito lo spettatore. Il cast ottimo, ripropone tutti i personaggi ed attori che li interpretavano, e, come ieri così anche oggi, sono tutti perfetti e bravi. Su tutti emerge la magnifica Maggie Smith, un gioiello di recitazione, di sottintesi, di pungente arguzia ad ogni sua battuta. Direi che come in un’orchestra ogni elemento ha la sua dignità propria ma tutti insieme fanno l’orchestra che suona alla perfezione, così qui nel film ogni elemento ha la sua importanza, ma tutti insieme fanno un film veramente gradevole e sontuoso.
A voler trovare dei difetti, segnalerei solo un eccesso narrativo con troppi personaggi che spesso sono soltanto delle mere presenze, alcune situazioni poi sono un po’ convenzionali o criptiche per chi non ha conoscenza della serie tv. Forse manca un vero soffio di virtuosità corale come in Gosford Park, ma che volete? quello era Altman!
data di pubblicazione:20/10/2019
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