da Antonio Jacolina | Feb 7, 2020
Il sindaco progressista di Lione (Fabrice Luchinì) dopo una vita dedicata alla politica procede ormai solo per inerzia, ha bisogno di rigenerarsi con nuove idee, in vista forse di un destino presidenziale. Per porre rimedio a questa crisi personale ed esistenziale si fa affiancare da una giovane e brillante “filosofa” (Anaïs Demoustier) che deve rigenerare le sue capacità di pensare … Un confronto fra il pensare e l’agire. Quale è la scelta giusta?
Come sopravvivere all’ottundimento della settimana di Sanremo? Fuggire al cinema! E … meglio ancora, scegliere un film intelligente! Alice e il Sindaco ci offre questa doppia opportunità perché è un film, un racconto di rara intelligenza, reso piacevole ed accettabile dalla precisione dei dialoghi, dalla fluidità della narrazione e dalla grazia degli interpreti. Un film che crede nell’intelligenza sia dei propri personaggi che degli stessi spettatori e della storia narrata che ci porta ad una acuta riflessione sul confronto fra pensiero ed azione.
Autore di questa opportunità è Nicolas Pariser, cineasta francese che, dopo il suo esordio nel 2015, con questa sua “opera seconda” di cui è regista e sceneggiatore prosegue il suo studio sul Potere ed utilizza lo sguardo della giovane ed idealista Alice (non a caso questo nome) per scoprire la realtà del mondo della Politica fra cinismo ed abitudine all’esercizio del potere stesso. Uno sguardo sulla vanità del Potere, lo scontro fra impegno e ideali e gli equilibrismi fra etica ed ideologia.
Fin dal titolo stesso il film rimanda al “cinema erudito” di Rohmer (di cui Pariser è stato allievo ed assistente), ad un “racconto filosofico” in cui il dialogo e le parole hanno un ruolo centrale. Ed in effetti il film è girato in modo classico ove ritmo ed accumulo di dialoghi hanno una funzione essenziale, ma, in realtà, si tratta di un film “apparentemente saggio” perché il regista ha l’intelligenza e la bravura di evitare le verbosità eccessive e di non affliggere lo spettatore con considerazioni psicologiche superflue, riuscendo a mantenere il racconto fluido e ritmato. L’autore sa infatti distillare progressivamente il discorso sul Potere, che da “racconto Rohmeriano” diviene ben presto una cronaca pungente della mediocrità ed una denuncia ironica di un sistema i cui vezzi e difetti ci sa dipingere con piccoli sarcastici tocchi, risparmiandoci saggiamente un idillio fra il maturo sindaco e la giovane “filosofa”.
Ciò che sta veramente a cuore al regista è la domanda se si possa o meno coniugare pensiero ideale con la pratica della vita politica. In una parola, quali sono le vere finalità del Potere? Per far tutto ci’ il regista gioca sulle elissi, suggerisce senza approfondire esplicitamente.
Vista la mancanza di azione od intrighi poteva uscirne un film barboso, logorroico e prolisso o troppo intellettuale ed invece, al contrario, il risultato è un film riuscito, comprensibile ed insaporito da uno humour corrosivo e sottile, con dialoghi perfettamente scritti, sempre pertinenti e stimolanti.
Una favola politica sostenuta e resa viva da una coppia di attori eccezionali. Luchinì, si sa, è un mostro sacro che ha un fiuto incredibile per scegliere film che esaltino il suo carisma, quel mix di fragilità ed arroganza che è il suo marchio di fabbrica. Lo si potrà apprezzare o detestare, ma stile e bravura sono inimitabili e quando è sullo schermo è in grado di magnetizzare cinepresa e pubblico. Questa volta poi, sa dosare gli effetti e recita in modo sobrio e contenuto, quasi in sordina, guadagnandone in profondità. La Demoustier, bella e talentuosa è una giusta partner, anche i secondi ruoli sono tutti convincenti e diretti con cura.
Alice e il Sindaco è dunque un film dalle molte qualità, un film intelligente che, anche se non perfetto e con qualche inverosimiglianza, merita di essere visto ed anche rivisto perché fa molto riflettere in tempi di populismo esacerbato o … di insipienza ed incompetenza al potere.
Un film che i politici dovrebbero obbligatoriamente vedere e … dimostrare di averlo anche capito!
data di pubblicazione:07/02/2020
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da Antonio Jacolina | Gen 30, 2020
Inverno 1968, inizio 1969, Judy Garland (Renée Zellweger) ormai fisicamente ed emotivamente segnata e, per di più, in gravi difficoltà economiche, è costretta ad accettare un’offerta generosa per una serie di show in un locale di Londra, sperando così di riottenere anche l’affido dei due figli piccoli. Gli ultimi sei mesi, prima di morire per eccesso di barbiturici a soli 46 anni!
Goold è un regista inglese attivo soprattutto in campo teatrale che ha fatto il suo debutto cinematografico nel 2015 con True Story ed oggi torna sugli schermi con la sua opera seconda, presentata all’ultima Festa del Cinema di Roma.
Judy è un tributo ad una star leggenda di Hollywood ed al tempo stesso, una vittima dello star–system Hollywoodiano, ma, soprattutto, vuole essere un omaggio alla donna fragile che si celava dietro la facciata, schiacciata fra il suo essere nel privato ed il suo apparire nel pubblico. Il ritratto, non tanto della Diva, quanto piuttosto quello di un essere umano ferito che lotta ancora, anzi che è costretto ancora a lottare nell’incertezza di riuscire ad essere all’altezza della sua fama.
Il film è integralmente tratto da una commedia The end of the rainbow e per renderla meno teatrale e lineare il regista ricorre ad una serie di flashback facendo muovere lo spettatore avanti ed indietro fra gli ultimi mesi a Londra ed i primi passi della giovanissima attrice con la M.G.M. sul set del Mago di Oz . Una serie di ricordi personali della Garland che evidenziano le origini delle sue dipendenze, dei suoi bisogni di affetto, di sicurezza e di protezione. Certo il film e la stessa regia non sono molto originali, anzi la regia è molto classica e pacata ed il film si muove prevalentemente nell’alveo di tanti altri biopic: il personaggio segnato, le origini, i ricordi, i successi e gli insuccessi. Però, pur scivolandoci dentro in alcuni passaggi, il cineasta è bravo ad evitare di cadere del tutto nel melodramma e nel patetico. Concentrando poi la narrazione su un periodo ben definito quale quello londinese, evita abilmente l’altra trappola tipica delle biografie cinematografiche: troppe storie da raccontare in un storia, e, di conseguenza, che il film risulti poi oppresso e compresso. Si può infatti dire che i momenti migliori della regia di Goold sono proprio quelli in cui esce fuori dagli schemi narrativi delle biografie inventandosi del tutto alcune situazioni.
Quel che però fa scordare le imperfezioni e le carenze narrative del lavoro e che gli da il vero valore e che giustifica la sua visione e gli apprezzamenti e fa la vera differenza di qualità è … la straordinaria, eccezionale, superba, magnifica interpretazione della Zellweger già Oscar per Cold Mountain nel 2004 ed assente dagli schermi da un po’ di anni.
In realtà Judy è lo show della Zellweger, la sua bravura è già uno spettacolo di per se stesso; è capace di restituirci con autenticità la Garland catturandone gli aspetti della personalità sia fisici che psichici. Un processo empatico che coglie e trasmette tutta la sofferenza, la fragilità, la determinazione e la disperazione, la scarsa autostima, le dipendenze ed il tenero amore per i figli.
Pur restando sempre se stessa la Zellweger diviene la Garland non solo per mimesi fisica, ma facendola rivivere nei suoi drammi interiori, nei bisogni, nei vezzi senza mai essere eccessiva. Anzi al contrario. E poi … canta, e lo fa anche molto bene restituendoci le sonorità che poteva avere la Garland a quel punto finale della sua carriera. Una interpretazione che, come abbiamo detto, fa il film e che sicuramente porterà l’attrice ad essere una delle maggiori candidate per il prossimo Oscar. Veramente commovente e coinvolgente!
Il resto del cast è perfetto nei vari ruoli, come buona è la messa in scena, i costumi ed i set che ci riportano veramente nella Londra di 50 anni fa.
Judy è quindi un film da vedere perché ci restituisce quella grande icona che fu la Garland, un film che gli appassionati di cinema vedranno solo per l’interpretazione della Zellweger in attesa degli Oscar, e che poi potrà anche essere dimenticato. Un biopic classico sul finale di carriera, un po’ come vedemmo lo scorso anno sempre alla Festa del Cinema di Roma, con Stan e Ollie.
data di pubblicazione:30/01/2020
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da Antonio Jacolina | Gen 27, 2020
Prima Guerra Mondiale Aprile 1917, Francia,due giovani caporali del contingente britannico vengono incaricati di attraversare le linee nemiche e la terra di nessuno per trasmettere l’ordine di annullare un’offensiva prevista all’alba ed evitare così l’inutile sacrificio di ben 1600 commilitoni.
Sam Mendes, regista e sceneggiatore inglese, con soli 7 film e con l’Oscar vinto fin dal suo esordio nel 1999 con American Beauty, si è imposto come uno dei maggiori autori dell’ultimo ventennio. Da allora in poi la sua carriera si è contraddistinta per la grande ricerca formale, lo stile personale e per l’eclettismo dei generi affrontati sempre con successo fino agli ultimi due James Bond. Lo si aspettava ora ad una nuova prova, ed eccolo, già preceduto dai due Golden Globe per la Migliore Regia e per il Miglior Film e ben dieci candidature per i prossimi Oscar, confermarsi con questo suo nuovo film come un autore ed un narratore di gran classe con un eccezionale senso dello spettacolo.
Ispirandosi ai ricordi di guerra del nonno, Mendes ci racconta con il suo 1917 l’odissea di due giovani soldati ed una parabola sull’assurdità della guerra nei grandi come nei piccoli avvenimenti, e l’assurdità delle scelte cui i singoli sono costretti loro malgrado, lo spirito di sacrificio ed il senso del dovere delle tante migliaia di soldati sconosciuti. La piccola grande storia dell’eroismo quotidiano dei tanti uomini qualunque. Un film di guerra e sulla guerra, ma non l’ennesimo film di guerra perché l’opera di Mendes si distacca radicalmente da tutti per lo stile narrativo adottato.
Il regista realizza infatti e con successo, una sfida tecnica ambiziosa: girare il film in un “quasi unico” continuo Piano Sequenza, proponendo, anzi obbligando così intenzionalmente lo spettatore ad un’esperienza immersiva intensa e totalizzante nella realtà narrata. Così facendo lo spettatore è infatti trascinato insieme ad i due protagonisti nel mezzo delle trincee, fra il fango, i crateri delle bombe, i reticolati, i cadaveri ed i topi fra i vari campi di battaglia. Messo così lo spettatore al livello dei suoi personaggi, tanto anonimi quanto universali, non c’è bisogno di grandi discorsi sull’inutilità del tutto, basta la sola empatia che si genera fin dalle prime coinvolgenti immagini che sono un unico continuo movimento di attori e della cinepresa che ci restituisce solo tutto ciò che i personaggi fanno,vedono, vivono e soffrono. Una scelta tecnica eccezionale che ha una sua piena coerenza narrativa e rende più vere e concrete le vicende umane affrontate. Un film totale che trasforma un tour de force tecnico in un mezzo per consentire allo spettatore di comprendere con la propria percezione gli orrori cui è costretto, fino a renderglieli quasi fisicamente palpabili.
Coadiuva il regista per la fotografia il bravissimo Roger Deakins che, al di là degli spunti narrativi, esalta la bellezza visiva e rende tangibile con autenticità crescente il miracolo tecnico con tutta la forza di immagini suggestive ognuna delle quali vale un film.
Va detto che l’immersione dello spettatore nei fatti narrati è divenuto esso stesso quasi un sottogenere dei film d’azione. Una necessità ovviamente per rinnovare il modo di raccontare le storie di azione al cinema ed avvicinarsi così ai più giovani abituati alla realtà virtuale dei videogiochi. Spielberg, come sempre, aveva già aperta la via, Sam Mendes però prosegue da par suo la scelta costruendo una sua tutta personale visione. Al regista non interessa più di tanto entrare nei personaggi, ciò che gli sta veramente a cuore è coinvolgere ed immergere lo spettatore nella vicenda in modo intenso e far vivere in tempo reale le situazioni vissute dai protagonisti. Questo virtuosismo tecnico ed esperienziale rendono il lavoro di Mendes un “unicum” di gran qualità.
1917 è un film più spettacolare che realista, per cui non occorre attardarsi sulla veridicità o plausibilità delle vicende (tante le incongruenze, tanti gli anacronismi) non è ciò che interessa veramente. Se il film sembrerà privo di anima e concentrato solo sulla tecnica e sugli estetismi, rammentiamo sempre che il regista immergendo lo spettatore nel dramma vuole che sia lo spettatore stesso ad elaborare ciò che ha visto ed a provarne le emozioni di modo che queste possano così perdurare ben al di là dell’esperienza vissuta in sala.
data di pubblicazione:27/01/2020
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da Antonio Jacolina | Gen 19, 2020
Giochi Olimpici di Atlanta 1996, un addetto alla sicurezza: Richard Jewell (Paul Walter Hauser)è il primo ad allertare la polizia del rischio bomba, salvando così migliaia di vite dall’esplosione durante un concerto. Acclamato come eroe, diviene però per l’FBI e per la Stampa il sospettato numero uno dell’attentato stesso.
Una bella storia può essere anche una “Buona Storia”… e Clint Eastwood sa sicuramente come raccontare una storia e renderla quasi sempre una “Buona Storia”!
Questo giovane autore di appena soli 90 anni, ci regala oggi il suo 40° lungometraggio, limitandosi questa volta, si fa per dire, a mettersi dietro la cinepresa e a raccontarci un storia vera, dal punto di vista del presunto colpevole. Lo fa con il suo inconfondibile stile, con un approccio sobrio, scarno ma solido, una messa in scena semplice, lineare quasi classica che, senza troppi effetti, sa però catturare ogni attimo di tensione ed orientare le emozioni dello spettatore.
Con lucidità e coerenza, pur con modi ogni volta diversi, il regista prosegue il suo percorso già affrontato con American Sniper 2014, con Sully 2016 e con Ore 15,17 Attacco al Treno 2018, sul concetto di individuo, sulla natura dell’uomo normale posto davanti ad eventi o situazioni impreviste ed eccezionali. Ieri era il padre di famiglia che diventa cecchino in Irak, ieri l’altro erano dei singoli marines ad Iwo Jima, ed ancora più in là nel tempo, perché no? erano anche gli eroi solitari dei suoi western o il cowboy de Il Cavaliere Pallido.
Nel suo film di oggi ci descrive come una persona normale possa trovarsi fortuitamente a compiere un’azione eroica e come questa stessa azione possa essere stravolta in un gesto orribile e come un “eroe non eroe” possa divenire vittima ed essere stritolato dalle istituzioni, siano esse l’FBI o la Stampa, entrambe, a dir poco, troppo frettolose, superficiali, ciniche ed opportuniste pur di chiudere un caso o di fare uno scoop giornalistico. Un film dunque sospeso fra il racconto biografico e la critica dura dell’universo mediatico che circonda ogni fatto e degli abusi degli organismi governativi che possono arrivare a annientare il singolo soprattutto se onesto ed indifeso. Soprattutto se, come questa volta, il singolo è anche un uomo problematico che vive in un ambiente sociale marginale e ristretto, che abita ancora con la mamma e che ha come unico sogno di divenire un poliziotto. Particolarità e singolarità che ne fanno un perfetto capro espiatorio. Un personaggio a tratti quasi irritante per la sua remissività e la sua fiducia nei confronti delle Istituzioni.
Ma … siamo pur sempre in America, e le prerogative dello Stato si fermano sempre davanti la soglia di casa mia e, quando si va oltre, lo “Spirito Americano” prevale e allora il singolo riesce a rialzarsi in piedi, solitario e sicuro di affermare un suo diritto … (quante volte lo abbiamo visto, sia pur declinato in migliaia di modi!). E chi più di Eastwood, pur senza fare un film a tesi o politico può riuscire a rendere al meglio questo Spirito!
La regia è sostenuta da una buona sceneggiatura ma soprattutto da ottime performances attoriali, non abbiamo grandi interpreti carismatici ma il casting è perfetto con ottimi caratteristi: il poco noto Hauser, ruba realmente la scena e avrebbe meritato una nomination agli Oscar come Kathy Bates giustamente candidata come “attrice non protagonista” per il toccante ruolo della madre. Nel film ci sono anche dei difetti, delle stonature, delle lungaggini che alterano il ritmo, delle caratterizzazioni eccessive o banali di alcuni personaggi e, soprattutto nelle seconda parte, anche delle scorciatoie narrative troppo rapide o meccaniche che lasciano perplessi. Ma forse siamo troppo ben abituati o esigenti con questo giovane novantenne!
Richard Jewell è un film che si apprezza subito e si può anche apprezzare di più se si ha tempo e voglia di rifletterci sopra il giorno dopo, dopo aver decantato le emozioni della prima visione. Un film intelligente in equilibrio fra contenuti ed emozioni. Un film classico, ben diretto e ben recitato che conferma ancora una volta perché Eastwood è un’icona del Cinema. Un autore che ha il dono di saper raccontare le storie per descriverci la complessità della vita.
data di pubblicazione:19/01/2020
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da Antonio Jacolina | Gen 11, 2020
Un classico della letteratura americana e giovanile firmato da Louisa May Alcott nel 1868 e che da allora racconta la vita,le speranze, le passioni, il passaggio nell’età adulta ed i diversi caratteri di 4 sorelle: la rigorosa Meg, Jo ribelle ed autonoma, Amy ambiziosa e determinata e la tenera e fragile Beth.
Un successo letterario costante che è stato letto, attraversando le epoche, fin quasi ai giorni nostri e che è stato brillantemente trasferito sullo schermo innumerevoli volte. Sembrava che tutto fosse già stato detto sul percorso di crescita delle 4 fanciulle, ma la giovane e talentuosa Greta Gerwig, brillante attrice e sceneggiatrice, compagna del regista Noah Baumbach, nonché e soprattutto regista ed autrice di Lady Bird, film rivelazione del 2017, con questa sua opera seconda, rivisita brillantemente la storia modernizzandola con qualche libertà ma senza tradirla.
La presenza dietro la cinepresa ed il ruolo di adattatrice della Gerwig riesce con pochi tocchi a restituire vita in tutte le varie sfumature a personaggi che appartengono alla memoria collettiva degli spettatori. La regista ha infatti la qualità inestimabile del senso del ritmo nella recitazione, nelle riprese e nella scrittura delle scene e dei dialoghi e, mediante continui flash-back e flash-forward, con un originale e sottile gioco sulle linee temporali, dà dinamismo, vivacità e modernità al racconto senza tradirne l’essenza. Là dove tanti film in costume si perdono nell’ossessiva ricostruzione d’epoca in un perfezionismo statico quasi teatrale, il nostro film è invece un’opera in movimento continuo dai salti narrativi e temporali vivacissimi, un film che non tralascia gli scontri o gli affetti fra le sorelle rappresentandole anzi con i loro pregi ed i loro difetti e che però abilmente non si sofferma più di tanto nelle varie situazioni dolci o tristi che siano, evitando così la melassa dei sentimentalismi. Questo continuo e voluto avanti ed indietro genera indubbiamente una rottura della continuità temporale e quindi sconcerto e confusione nello spettatore, ma non nuoce ai ritmi emotivi, anzi, l’incertezza di non comprendere immediatamente in quale momento narrativo ci si trovi, porta scientemente lo spettatore stesso a calarsi integralmente nel processo di ricordo e creazione artistica che pervade la narrazione dandole un tocco retrospettivo, una tonalità melanconica quasi elegiaca sulla fine dell’innocenza, delle illusioni dell’adolescenza davanti all’arrivo dei compromessi dell’età adulta.
Pur svolgendosi nell’800 il film ha un animo moderno nel taglio e nei toni, con anche una sottile ma non demagogica vena “femminista”. La regista si interroga infatti con leggerezza e garbo sul ruolo autonomo delle donne nella società americana dominata dal denaro e dal potere o dalla condiscendenza maschile, e, per farlo usa come filo conduttore, dandogli maggiore centralità e rilievo, il personaggio di Jo, la più indipendente delle 4 sorelle. La Gerwig evita intelligentemente di fare un film a tesi e non appesantisce la storia né fa delle sue eroine delle “vittime”, gli uomini che le circondano non sono avversari, non hanno né la forza né la voglia di esserlo. Semmai quel che emerge è che è proprio la sola vitalità femminile che illumina e muove il mondo.
Una vitalità superbamente resa dalle giovani attrici che compongono il cast, prima fra tutte Saoirse Ronan che buca letteralmente lo schermo per presenza scenica, bravura e bellezza, in palese complicità con la “sua” regista, formidabile anche la Florence Pugh. Apprezzabile, come e più di sempre, il cameo di Meryl Streep.
Piccole Donne, non porta di certo nulla di nuovo, ma è un film originale ben diretto, ben ricostruito e con buone performances recitative, non è di certo perfetto, ha piccoli difetti, ma sono “piccoli difetti” per “Piccole Donne”. Sarebbe davvero un peccato privarsi del piacere di vedere un film intelligente ed elegante in compagnia di 4 eroine.
data di pubblicazione:11/01/2020
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