da Antonio Jacolina | Mar 16, 2021
Il ritratto di un talentuoso sceneggiatore Herman J. MANKiewicz (Gary Oldman), la genesi di un capolavoro: Citizen Kane di un genio come Orson Welles, il mondo di Hollywood negli anni ’30 e ’40 ove si intrecciano arte, potere, denaro, ambizioni e frustrazioni…
Alla fine ha vinto Netflix? Ebbene… stante la realtà attuale, la risposta sembra essere: probabilmente sì! Come rifiutarsi di doverlo accettare quando la Piattaforma si presenta con ben 35 candidature fra i vari possibili prossimi Premi Oscar di quest’anno di “disgrazia” 2020/21 ?!? Un quadro reale, esaltante ed anche “sconfortante”, del potere di Netflix, e, contemporaneamente, anche dello stato di crisi in cui la pandemia ha fatto precipitare il Cinema e le grandi Produzioni e Distribuzioni. Al tempo stesso MANK è anche Cinema! Grande Cinema, splendido puro Cinema! un film che è una lettera d’amore affascinante e melanconica, creativa ed ammaliante di un cinefilo e di un grande Regista capace di evocare tutta la magia propria del Cinema: la tecnica, la fotografia, il montaggio, i dialoghi, la recitazione, la sceneggiatura.
Orson Welles non avrebbe dovuto vincere come cosceneggiatore l’Oscar per Citizen Kane nel 1942 perché, in realtà, lo script sarebbe da attribuire in toto ad Herman J. MANKiewicz (fratello del ben più famoso regista Joseph J. Mankiewicz). Vero? Falso? Leggenda? Difficile dirlo perché, si sa, un film è sempre frutto di molteplici collaborazioni. Figuriamoci poi quella con il vulcanico, egocentrico e creativo Orson!! Lo spunto dell’indagine ha offerto l’opportunità ad un regista di successo come David Fincher di focalizzare l’attenzione sulle atmosfere e le dinamiche di quegli anni fecondi del cinema americano: gli anni ‘30 e ‘40, e sulle grandi personalità che lo hanno plasmato e rappresentato, e … più in particolare, proprio sulla figura di un uomo non facile, preso fra polarità contrapposte: MANK, un uomo di cuore e di talento ma anche un frustrato, un alcolizzato, uno scommettitore cronico, un brillante sceneggiatore con ambizioni letterarie e le sue battaglie nell’establishment dei grandi Boss delle Majors, dei magnati della stampa come William R. Hearst che tutto e tutti manipolano e, non ultimo, anche un omaggio al genio di Orson Welles.
Con questa sua 11° opera Fincher ha conseguito in pieno il suo obiettivo riconoscere i meriti di colui che ha permesso di realizzare Citizen Kane, un film ancor oggi considerato come uno dei più perfetti ed innovativi di tutti i tempi. L’autore con brio e con emozione ci racconta infatti come fra sentimenti autodistruttivi, immobilizzato da un incidente, pressato da problemi economici ed alcolismo Mankiewicz, in poco tempo ed in quasi isolamento forzato, riesca a scrivere il suo capolavoro ed a consegnarlo ad un folle visionario come Welles che, a sua volta, lo fa suo con pari genialità. Ristabilendo la sua verità Fincher realizza in realtà uno dei più bei film di quel tipico genere hollywoodiano in cui Hollywood si mette sotto i riflettori rappresentando se stessa ed il mondo del cinema negli anni del Mito ( si vedano, per citarne alcuni: È nata una stella 1937/ Viale del tramonto 1950/ Il bruto e la bella 1952/ I protagonisti 1992). Una ricostruzione iperrealista degli anni d’oro. Perfetta la scenografia, gli ambienti, gli arredi, i decori e la restituzione dei personaggi stessi. Una ricostruzione che rievoca non solo i rapporti spesso conflittuali del talentuoso MANK ma anche i falsi valori diffusi dalla “Fabbrica dei Sogni”, le atmosfere politiche, il Potere, la Stampa, la Politica, tutte intrecciate e colluse con il business del cinema. Impegno di ricerca e capacità di riproposizione fedele di un mondo ed impegno cinefilo che porta Fincher a realizzare un film con le stesse tecniche usate da Orson Welles e dai suoi direttori per la fotografia: uno stupendo bianco e nero, le stesse atmosfere espressioniste per alcune sequenze, giochi d’ombra, un ritmo a spirale fra passato e presente con uso sapiente dei flashback , campi e controcampi, alcuni giochi focali deformanti le immagini che ripropongono, per chi lo sa, quelli che fecero scalpore quando usati allora per la prima volta. Dialoghi pungenti e cesellati, tempi e montaggio serrati, rapidi ed incisivi. Il tutto gradevolmente molto “Wellesiano”. Fincher governa il film con forza, amore e maestria all’interno di uno spartito perfetto. Veramente un grande cineasta che rende omaggio ad un Genio, alla sua epoca ed alla Settima Arte, senza mai eccedere. Uno splendido film che rende omaggio ad un capolavoro. Punto di forza, fra gli altri, è poi anche la recitazione degli attori tutti, in primis del sempre più bravo Gary Oldman, ingrassato oltre misura ed impressionante nell’identificazione dei dolorosi tratti umani dello sceneggiatore. Tutti recitano, va sottolineato, come recitavano le star degli anni trenta, vale a dire massima centratura sulla dizione più che sulla evidenziazione emozionale interiore … Marlon Brando ed il metodo erano ancora lontani da venire!
Un bel film che aumenta come mai la nostalgia per la sale cinematografiche ed il piacere del grande schermo!
data di pubblicazione:16/03/2021
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da Antonio Jacolina | Mar 10, 2021
Madeleine St. John nata in Australia ma vissuta a Londra è stata una scrittrice che ha scritto solo 4 romanzi, ha esordito tardi: a 52 anni, ed è scomparsa nel 2006 all’età di 64 anni. E’ stata riscoperta dopo la sua morte ed è oggetto ancor oggi di un vero e proprio culto nel mondo letterario anglosassone. In Italia era sconosciuta, Garzanti, con un’operazione editoriale meritoria ha però provveduto a curarne la traduzione e, dopo la positiva accoglienza (l’anno scorso) del suo lontano romanzo d’esordio Le Signore in Nero (1993), pubblica ora questa sua “opera seconda” scritta ed uscita nel 1996, sperando di bissare il successo.
La scrittura della St. John è scorrevole e semplice, molto semplice fatta di dialoghi serrati, battute ironiche e periodi brevi ma piacevoli, così come scorrevoli, piacevoli ed, in fondo, molto semplici sono anche le sue storie. Lineari, tranquille quali che siano i fatti narrati, e, proprio per questa loro normalità arricchita da un grazioso humour britannico, sono storie che si fanno apprezzare e ci regalano dei sorrisi e dei bei momenti di lettura.
Siamo a Londra, a Notting Hill: anni ’90, i protagonisti sono una coppia sposata con figli ed i loro amici, tutti della “middle-class”, tutti vagamente snob, ben inseriti professionalmente e senza problemi economici. Le loro vite confortevoli scorrono normalmente fra il lavoro, le vacanze, i figli, le amicizie, le relazioni amorose anche quelle extraconiugali. Perché questa è la Vita. La Vita di tutti i giorni con le varianti dei compromessi, dei sotterfugi, della pazienza, delle relazioni e degli adultèri. Il Quotidiano ci allontana infatti dalla “Vita Perfetta” che desideriamo e che invece non esiste, non può esistere, perché la Vita Reale è fatta di sogni, illusioni, trasgressioni, occasioni, infatuazioni, disagio esistenziale ed anche egoismi e meschinità. Da una parte l’egocentrismo e la dipendenza degli uomini, dall’altra la solidarietà, l’autonomia e la forza delle donne; la confusione fra l’idea di Amore e l’attrazione fisica ed i compromessi della vita di coppia ed il bisogno di stabilità.
Assolutamente mai degli stereotipi come potrebbe sembrare, ma piuttosto una rappresentazione garbata e delicata della vita reale con il gradevole tocco tutto british: dell’understatement e del paradosso dello humour che addolciscono la realtà che, l’abbiam detto, non potrà mai essere perfetta, ragionevole o coerente, né tantomeno delicata. Una Donna Quasi Perfetta è dunque una storia leggera, quasi paradossale, una “commedia familiare” sottilmente ironica, apparentemente banale e superficiale ma in cui invece i tratti psicologici dei fatti e dei personaggi sono ben definiti nel profondo sia pure con pochi e lievi tocchi, uniti ad un velo sottile, sottile di femminismo e di malinconia introspettiva, quasi come un leggero e gradevole retrogusto che dà un tono alla vicenda. Non è un libro al femminile, tutt’altro! Ma, di sicuro è come una garbata parentesi di una tazza di tè in un servizio di porcellana con pasticcini alle 5 del pomeriggio fra simpatiche confidenze e chiacchiere apparentemente banali: very british, very stylish! Potrà piacere! Potrà però anche dispiacere a coloro che amano invece un bel boccale di birra al pub e le emozioni ed i sapori definiti!
Il conforto si può comunque trovare sia in una tazza di tè sia in un boccale di birra, occorre solo saperlo cogliere, pur nella transitorietà della vita, degli amori e dei piaceri.
data di pubblicazione:10/03/2021
da Antonio Jacolina | Mar 1, 2021
Proseguendo, sempre per mera emulazione, nella ricerca (lontano dal mondo “banale” dei Best-Seller), dei libri di nicchia, abbiamo incontrato un gioiellino edito circa dieci anni fa. Un libricino che unisce l’appassionante testo di Roland Barthes e le belle foto d’epoca raccolte da André Martin.
Come sappiamo Barthes è stato un semiologo, saggista e critico letterario e sociale che ha studiato in particolare il valore dei simboli ed è stato fra i fondatori della semiologia del linguaggio letterario quale approccio critico alla “mitologia”, cioè alla ricerca del “mito” e dei significati reconditi, vale a dire di quanto è nascosto dietro i fenomeni culturali popolari: dalla pubblicità agli sport, dalla moda ai monumenti … e… per l’appunto alla Torre Eiffel. Il monumento a Parigi per eccellenza, nulla apparentemente di più banale e di più trito e ritrito. Ma proprio qui è tutto il senso centrale del “mito”. Da qui lo spunto per uno studio snello, piacevole, interessante ed analitico dei “piaceri” offerti dalla Torre e delle “funzioni” da lei esplicitate.
“La Torre è un oggetto che vede e, nel contempo, uno sguardo che è visto. In quanto sguardo e oggetto è anche un simbolo, tale è l’infinito circuito di funzioni che le permette di essere ben altro e ben più della Tour Eiffel. Per soddisfare questa grande funzione onirica che ne fa una sorta di monumento totale, è necessario che la Torre si sottragga alla ragione.” Simbolo di Parigi per il Mondo intero, questo monumento che si vede da ogni angolo della Ville lumiére ci propone lui stesso, a noi lettori, uno sguardo panoramico per osservare la città e farla così nostra. Edificio a lungo vituperato, pienamente ed apertamente inutile, è, innanzitutto, un oggetto di una gran capacità tecnica, un segno di audacia e modernità che, con il passare del tempo, è divenuto un’opera d’arte. Un merletto di ferro, segno di leggerezza e, per la sua verticalità, espressione anche del sogno irrealizzabile degli uomini di scalare e raggiungere il cielo. Barthes, con fare quasi distaccato, invita il lettore ad esaminare la Tour Eiffel nei suoi vari aspetti come se stessimo esaminando ed osservando con lui una sua riproduzione in miniatura venduta in ogni angolo turistico di Parigi. La esamina dall’esterno come oggetto in sé e per sé, e dall’interno come luogo privilegiato di osservazione, un osservatorio sulla città. L’autore costruisce proprio a partire dalla assoluta “inutilità” della Torre, un quadro magistrale di Parigi, della sua modernità, dei suoi luoghi simbolici, e dei luoghi dell’immaginario collettivo, e, nello stesso tempo rende omaggio agli uomini che hanno concepito, ideato, progettato e realizzato quest’opera tanto controversamente accolta all’epoca della sua costruzione, quanto oggi universalmente accettata.
“Sguardo, oggetto, simbolo, la Tour Eiffel è tutto ciò che l’uomo pone in essere in essa, e questo tutto è infinito. Spettacolo guardato e guardante, edificio inutile ed insostituibile, mondo familiare e simbolo eroico, testimone di un secolo e monumento sempre nuovo …”
Una scrittura scorrevole per una chiave di lettura originale, illuminante e geniale. Un piccolo libro che ci fa vedere con sguardo tenero il variegato paesaggio parigino ed è amabile come una lieta conversazione mentre si è seduti piacevolmente all’aperto in un bistrò da cui si spera di non dover andar via.
data di pubblicazione:01/03/2021
da Antonio Jacolina | Feb 26, 2021
Di questi tempi si stampa troppo e di tutto, l’offerta e la qualità sono inversamente proporzionali al numero dei lettori veri (per intenderci quelli che comprano realmente un libro per leggerlo). Oramai scrivono tutti… politici di ieri e di oggi, magistrati ed ex magistrati, artisti o pseudo artisti in carriera o sul viale del tramonto e tanti illustri sconosciuti destinati a restare tali… tutti hanno la certezza di avere qualcosa di interessante da raccontare al Mondo. Male che vada… tutti hanno almeno… un bel giallo o un poliziesco da proporre!
Comunque sia, proseguendo, per emulazione, nel curiosare fra i libri di nicchia, abbiamo trovato il libro di Anne Sinclair, giornalista e conduttrice televisiva, uno dei volti e delle firme più popolari ed apprezzate in Francia, divenuta nota anche al grande pubblico italiano nel maggio 2011 in occasione dello scandalo che travolse suo marito Dominique Strauss-Kahn: Direttore del Fondo Monetario Internazionale e probabile candidato socialista alle presidenziali Francesi del 2012. La giornalista difese strenuamente il marito dalle accuse di tentata violenza sessuale ai danni di una cameriera in un albergo di New York, anche se poi, l’anno dopo, cadute tutte le imputazioni (vere o artatamente costruite per fini politici che esse fossero), chiese la separazione.
La Sinclair è giornalista di gran talento e lo conferma la lettura di questo piccolo libro scritto con una lingua diretta, vivace, scorrevole e gradevole, con toni naturali e briosi ed una scrittura veloce. Facendo rivivere la galleria d’arte dei nonni materni, posta, per l’appunto al N° 21 di Rue La Boétie nei pressi degli Champs-Elysées a Parigi, l’autrice rende omaggio alla loro sensibilità di mercanti, di collezionisti d’arte e di mecenati e tesse la tela di un racconto in cui si incrociano le più belle pagine della pittura moderna, le relazioni umane fra il nonno Paul Rosemberg e gli artisti da lui prediletti e protetti: Picasso, Matisse, Braque, Léger … , la Parigi della fine degli anni Trenta, l’occupazione tedesca, le spoliazioni, ruberie e confische operate dai nazisti ai danni degli ebrei, l’avventurosa fuga dei nonni in America e poi, alla fine della guerra, le difficili e caotiche lotte umane e giudiziarie per poter recuperare il loro patrimonio di quadri dispersi dai tedeschi in Europa, complici mercanti privi di scrupoli.
Un libro ben documentato, ricco di aneddoti, frutto di un lavoro di ricostruzione d’archivio e di ricordi d’infanzia che ci porta dietro le quinte del mondo degli artisti e dei collezionisti della prima metà del XX secolo e ci svela fatti spesso ignorati del mondo dell’Arte e le relazioni privilegiate con alcuni grandi pittori di quell’epoca. Un melange intimo fra la vita di Paul Rosemberg: le sue corrispondenze con gli artisti, le varie correnti artistiche e… la Grande Storia: la caduta della Francia, l’antisemitismo strisciante, l’atteggiamento semi collaborazionista di tantissimi francesi verso l’occupante tedesco e le vessazioni naziste. Una ricerca storica di un mondo e di un’epoca dal punto di vista dell’Arte in un momento ben particolare della Storia.
21, Rue La Boétie è un piccolo libro appassionante che evoca un periodo fecondo, di gran fioritura e creatività artistica nella Parigi e nell’Europa fra le due guerre e che evoca anche la necessità di ciascuno di noi di conoscere le proprie origini familiari, il peso delle alterne alee della Fortuna ed i sentimenti di esclusione. Un libro ben scritto, con passione, umiltà ed un filo di nostalgia, una lettura facile ed interessante, ma anche un libro reso profondo dalle domande poste dalla scrittrice che ha avuto il personale privilegio di essere la nipote adorata di questo grande e perspicace collezionista e di poter conoscere, nella sua infanzia, alcuni dei più grandi pittori del secolo scorso. Pittori che, a sua volta, suo nonno aveva fatto conoscere ed apprezzare in Europa ed in America.
Ci si aspettava una biografia ed invece piano, piano si entra nella Grande Storia.
data di pubblicazione:26/02/2021
da Antonio Jacolina | Feb 18, 2021
Per la gioia dei suoi innumerevoli appassionati, Adelphi prosegue con la pubblicazione dei “Romanzi Duri” di Simenon. Ecco quindi fresco di stampa e di una nuova traduzione un bel romanzo del 1939. Un “Roman-Roman” come amava definire i propri lavori l’autore stesso, appartenente, come abbiamo già avuto modo di scrivere, per periodo, ispirazione e qualità proprio alla feconda prima stagione creativa dello scrittore belga. Quindi, ancora una volta, un’opportunità per l’autore di osservare come solo lui sa fare, le umane vicende, la pena dell’esistere, tutta la durezza della realtà anche quando essa, a prima vista, appare tutt’altro che dura, per raccontarci cosa sia avvenuto e, soprattutto, cosa ciò che è già avvenuto ancora causi e determini nell’esistenza delle persone da lui osservate. Gli intricati fili del Destino segnano sempre la vita degli uomini. Un Potere ineluttabile cui, per Simenon, per quanto si possa lottare, è ben difficile e ben raro riuscire a sottrarsi.
La Fattoria del Coup de Vague è un romanzo rurale, centrato su quella piccola società provinciale apparentemente rispettabile e serena dalle cui regole non scritte ancora una volta uscirà il male della vicenda senza che ci siano né veri carnefici né veri innocenti, ma in cui tutti, con i loro segreti ed i loro non detti, sono vittime e protagonisti quasi per inerzia, e in cui gli odi degli uni per gli altri affiorano senza mai esplicitarsi. “Le Coup de Vague” è una fattoria sul mare, non lontano da La Rochelle sulla costa atlantica della Francia. Lì vive il ventottenne Jean con le sue 2 zie nubili, benestanti, temute e detestate dalla comunità, che con lui governano sia la fattoria sia un avviato allevamento e commercio di mitili. Tutto è regolato dalle due donne come su uno spartito musicale e Jean è, ben volentieri, al centro di questo nido protetto. Una vita facile e senza sorprese fra il lavoro, la sua moto, le partite di biliardo e le ragazze. Ma ecco che la monotonia serena viene travolta dalla prima “ondata”, le coup de vague del Destino: Marta la giovane vicina con cui Jean amoreggia resta incinta! Per mera pavidità Jean ne parla con le zie che prendono subito il controllo della situazione senza che i due giovani abbiano modo di opporsi alle decisioni drastiche che via, via vengono loro imposte per non aprire spiragli ai segreti ed ai sospetti fino ad allora tenuti nascosti dalle zie stesse e dal villaggio in cui tutti sanno tutto di tutti. La morsa delle 2 donne soffoca, stringe ed annienta la giovane coppia fino ad una nuova definitiva “ondata”. Quando Jean ne riemergerà, tutto è già accaduto! la vita della fattoria impone le sue esigenze, il lavoro deve riprendere, e … riprende! cancellando piano, piano i ricordi ed anche il villaggio avrà recuperato il suo volto impassibile. Il cerchio si è così richiuso!
Nulla e nessuno può permettersi di alterare gli equilibri.
Una trama cupa come mai, in cui il talento di Simenon delinea, senza concessione alcuna, ritratti che ci illuminano sul reale sentire dell’essere umano: vigliaccheria, pavidità, amore per il denaro, orgoglio, disprezzo, amore carnale e morte. Una descrizione amara dell’umana miseria e dei vincoli familiari che non risparmia nessun personaggio sebbene siano tutti vittime delle loro storie.
Un romanzo duro, coerente con la visione del mondo di Simenon, scritto con il suo stile asciutto ed essenziale, un affresco vivace, intrigante ed affascinante come e più del solito.
Un ottimo libro che si divora e ci lascia, come vuole l’autore: con il gusto amaro di un’”ondata”, un coup de vague, di malessere sulla miseria dell’Umanità, che sembra voler sommergere anche noi!
data di pubblicazione:18/02/2021
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