da Giulio Luciani | Set 29, 2014
(Festival Internazionale del Film di Roma 2013 – Alice nella Città)
Il cinema italiano indipendente, quello che con budget contenuti riesce a portare sul grande schermo storie interessanti e ben scritte, è sintetizzato in questa pellicola di Vittorio Moroni. Una trama che si dipana in modo lineare, senza particolari guizzi narrativi o colpi di scena, per raccontare la storia di Kiko, adolescente per metà filippino e per metà italiano, travolto dal disagio proprio della sua età e dalla perdita recente del padre. Due volti noti, Beppe Fiorello e Giorgio Colangeli (bellissima l’interpretazione del secondo), in un cast di esordienti, tutti credibili e disinvolti in una recitazione semplice e realistica. Tanti, forse troppi, i temi sociali tirati in ballo, dalla scuola all’immigrazione, dalla famiglia al lavoro: tuttavia, il film non ne risulta appesantito, ma arricchito e fortificato. Il titolo, lungo e non semplice da memorizzare, Se chiudo gli occhi non sono più qui, esprime bene quel senso di solitudine e autoannientamento in cui l’uomo, ma ancor di più l’adolescente, vuole perdersi per non vivere le sfide del presente e per non affrontare la paura che tutto cambi per sempre. Finale di speranza, forse un po’ didascalico, ma che ci regala sollievo e fiducia nel genere umano.
data di pubblicazione 29/9/2014
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da Giulio Luciani | Set 29, 2014
(71. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia – Fuori Concorso)
Sulla scia di Life in a day, progetto a metà strada tra il documentario e il social movie, ideato e prodotto da Ridley Scott, Gabriele Salvatores ha raccolto frammenti di video realizzati con ogni mezzo tecnologico esistente, dallo smartphone alla videocamera GoPro, per ricostruire ventiquattro ore di vita italiana, dalle sedici albe a cui assiste ogni giorno in orbita l’astronauta Luca Palermitano al momento in cui ci si scambia la buonanotte. Se dovessi valutarlo come il film documentario di un regista poliedrico come Salvatores, direi che ha una serie di difetti, primo fra tutti un generale senso di fretta, come se lo spettacolo della giornata italiana debba consumarsi velocemente, senza pause e con tanti concetti e scene uguali che si ripetono, denotando una scarsa selezione (forse solo apparente) del materiale. Se, invece, guardo il film da italiano, ci ritrovo il mio Paese, pieno di contraddizioni e immagini che tolgono il respiro. Accanto all’Italia arrabbiata che non arriva a fine mese, c’è l’Italia che affronta la giornata con il sorriso pur avendo poco di cui sorridere. C’è l’Italia dei bambini che nascono e quella della popolazione che si fa sempre più anziana. C’è l’Italia di chi si ama e può sposarsi, e quella di chi non ha il diritto di farlo. L’Italia che viaggia e l’Italia che non ha alcuna intenzione di andarsene da qui. L’Italia che balla e si diverte, insieme all’Italia che si alza presto per fare il pane e lavorare. Pur avvertendosi in modo forte nel documentario il disordine del nostro Paese, a tratti disperato e a tratti buffo e grottesco, ne esce un’Italia con una nuova identità in via di formazione e con una gran voglia di rialzarsi. Senza retorica e senza eccessi d’enfasi e autocompiacimento, Italy in a day è finalmente una bella iniezione di sano patriottismo.
data di pubblicazione 29/9/2014
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da Giulio Luciani | Set 18, 2013
(Festival di Cannes 2013 – In concorso)
Il regista del pluripremiato Cous Cous (2007) sceglie nuovamente un taglio realista per mettere in scena la più bella storia d’amore femminile finora vista sul grande schermo. La Vita di Adele, vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes 2013, è il racconto del passaggio dall’adolescenza all’età adulta nella vita di una ragazza irrequieta e amante della lettura, interpretata dall’intensa Adèle Exarchopoulos. Questo passaggio è segnato per sempre dall’incontro con Emma (la formidabile Lea Seydoux), dotata di sensualità androgina e capelli tinti dello stesso turchese degli occhi.
Tra le due ragazze, l’una timida e acerba, l’altra un contrasto vivente di forza e delicatezza, scatta un colpo di fulmine che diventerà un intreccio d’amore destinato a lasciare il segno nella storia del cinema. Dai primi incontri, fatti di sguardi e sorrisi curiosi, ai dialoghi sempre più magnetici tra le due che sfociano presto in splendidi amplessi, l’intera relazione viene rappresentata sullo schermo senza imbarazzo e senza censure, attraverso una sceneggiatura preziosa in grado di descrivere passo dopo passo l’evoluzione delle ragazze.
La verità del personaggio di Adele è disarmante, perché si assiste a scene in cui la recitazione è evidentemente improvvisata. Riuscire a tenere accesa nello spettatore per l’intera durata del film, a dir la verità un po’ lungo, sempre una certa tensione ed emozione, era un’impresa tutt’altro che facile.
Il pregio della pellicola, motivo per cui trovo sia un’opera meravigliosa, sta tutto nella sua capacità di inquadrare la vita di Adele talmente da vicino da farci sentire che odore e che sapore potrebbero avere la sua pelle, le sua labbra e gli spaghetti al sugo che mangia avidamente, con quell’effetto che solo le macchie di colori ad olio dell’impressionismo pittorico sanno regalare.
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da Giulio Luciani | Set 17, 2013
(Festival di Toronto 2012)
Margarethe Von Trotta, regista raffinata nota per aver portato sul grande schermo episodi storici poco conosciuti e per aver raccontato la vita di personaggi, sempre femminili, controversi e radicali, si è assunta il grosso impegno di tradurre in linguaggio cinematografico una delle menti più brillanti e prolifiche della filosofia del Novecento.
Il film, pur farcito di numerosi rimandi all’età della giovinezza, è incentrato su un aspetto particolare della biografia di Hannah Arendt, che segnò poi il resto della sua vita, cioè gli anni in cui la filosofa seguì e commentò per il giornale The New Yorker il processo svoltosi a Gerusalemme contro il criminale nazista Adolf Eichmann. Nel libro che raccolse i suoi articoli, intitolato La banalità del male, la Arendt sostenne la tesi per cui la malvagità del genere umano in realtà non avrebbe nulla di mostruoso, ma si manifesterebbe in una banale e cieca obbedienza a ordini impartiti dall’alto. Eichmann apparve alla filosofa come un uomo mediocre, la cui vera colpa era stata quella di aver perso la capacità di pensare.
Al confine con il linguaggio documentaristico, tanto che sono utilizzate nel film scene vere del processo a Eichmann, la Von Trotta mostra qui di avere un coraggio e un senso di orgoglio non lontani da quelli propri della protagonista del suo film, confermandosi una regista scrupolosa e fedele a un uso critico e ragionato del mezzo cinematografico. Oltre alla testimonianza storica, che in alcuni punti può rischiare di annoiare, il film racconta, al di là della filosofa e della scrittrice, la Arendt donna (grazie all’appassionante interpretazione di Barbara Sukowa) con la sua innata forma di ribellione intellettuale e la sua folle coerenza pubblica e privata, senza mai cedere alle lusinghe dei facili sentimentalismi del genere biopic.
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