da Giulio Luciani | Gen 23, 2015
(Festival Internazionale del film di Roma 2014 – Prospettive Italia)
Documentario dolceamaro, coraggioso e poetico. È il bellissimo esordio alla regia di Bartolomeo Pampaloni, un lungometraggio “breve” ma intenso (appena 79 minuti), che, con un budget praticamente inesistente e una sensibilità fuori dal comune, ci fa immergere senza censure nel mondo nascosto di chi si trova a vivere, dormire e morire nella grande stazione romana.
L’idea, già di per sé molto curiosa, è stata sviluppata attraverso una narrazione coerente e originale, accompagnando i quattro protagonisti, ognuno con una storia molto diversa alle spalle ma accomunati dalla necessità di comunicare con il mondo e con la società, in un delicato processo di racconto di sé davanti alla telecamera. Pampaloni dimostra una notevole padronanza del mezzo tecnico e del linguaggio artistico, attraverso inquadrature inedite e una fotografia che si imprime nella memoria visiva dello spettatore. Si esce dal film cresciuti e più maturi, sofferenti e commossi, con una gran voglia di soffermarsi a guardare chi vive sui marciapiedi, di dare loro voce, risarcendoli dell’umanità smarrita e mai più ritrovata.
Dopo la menzione speciale ottenuta all’ultima edizione del Festival Internazionale del film di Roma e dopo esser rimasto in programmazione per tre settimane durante il periodo natalizio al Nuovo Cinema Aquila di Roma, il film è ora in giro per l’Italia per alcune proiezioni speciali con un percorso non facile di auto-distribuzione: assolutamente da recuperare e da seguire, anche attraverso la promozione del regista sui vari canali social, per chi non avesse avuto la fortuna di poterlo vedere.
data di pubblicazione 23/01/2015
Scopri con un click il nostro voto:
da Giulio Luciani | Gen 21, 2015
(Festival Internazionale del film di Roma 2014 – Gala)
Dopo esser valso alla protagonista Julianne Moore il meritato Golden Globe per la migliore interpretazione femminile in un film drammatico, Still Alice, presentato all’ultima edizione del Festival Internazionale del film di Roma, si prepara a conquistare, o forse a dividere nel giudizio, il pubblico italiano.
I due registi, R. Glatzer e W. Westmoreland, coppia nel lavoro e nella vita, con una carriera alle spalle decisamente singolare che parte dal mondo del porno per sperimentare poi generi sempre diversi, dal thriller al biopic politicamente impegnato, hanno confezionato un film dall’impianto tradizionale, che si sviluppa con un andamento e una forma piuttosto lineari e hollywoodiani, per raccontare l’inferno dell’Alzheimer, vissuto da Alice Howland (Julianne Moore), splendida cinquantenne, professoressa universitaria di linguistica e madre di tre figli.
Punti di forza sono alcune scelte intelligenti nel racconto, come lo stridente accostamento di una malattia che disintegra le capacità mnemoniche e cognitive proprio con una donna che sullo studio delle parole e del linguaggio ha costruito la propria vita e la propria carriera.
Convincente l’intero cast, compreso Alec Baldwin, che personalmente non incontra sempre i miei gusti; supera le aspettative l’interpretazione di Kristen Stewart, nei panni della figlia minore di Alice, attrice ormai matura per ruoli più difficili di quelli in cui ci eravamo abituati a vederla recitare. Sempre impeccabile Julianne Moore che, tuttavia, è stata diretta in passato da mani più esperte e ha portato sullo schermo personaggi scritti in modo più originale e complesso (solo per citarne alcuni, basti pensare a pellicole come The Hours e A single man).
L’intero film, seppur ben realizzato, toccante e ambizioso, risente dei limiti di una sceneggiatura non così brillante come richiederebbe il tema trattato. Nonostante ciò, l’immedesimazione dello spettatore nella protagonista è inevitabile, perché il dramma è vissuto direttamente dalla sua prospettiva in modo autentico, dal punto di vista di Alice, che non ricorda neanche più la propria identità, ma, seppur in preda alla più totale confusione mentale, istintivamente sente e sa di essere ancora se stessa, “ancora Alice”. Il finale è ben riuscito, perché mette a fuoco le emozioni vere, spogliando madre e figlia, con dolcezza e sensibilità, di fronte al loro rapporto di amore incontenibile.
data di pubblicazione 21/01/2015
Scopri con un click il nostro voto:
da Giulio Luciani | Dic 4, 2014
(Festival di Cannes – in Concorso)
Finalmente un film di Xavier Dolan, forse il più completo e il più maturo, è riuscito a trovare distribuzione nelle sale italiane. Vincitore del Premio della Giuria alla 67a edizione del Festival di Cannes, Mommy è un autentico capolavoro e Dolan si riconferma come uno dei più talentuosi registi dell’ultima generazione. Anno di nascita 1989, film realizzati ad oggi cinque: uno più bello dell’altro.
Mommy si ricongiunge perfettamente con il primo lavoro di Dolan, J’ai tué ma mère, tormentata storia di amore e odio tra madre e figlio, chiudendo il cerchio lasciato aperto e capovolgendo l’esito del conflitto primordiale con uno straziante inatteso finale.
Diane è la madre, rimasta vedova, dell’adolescente Steve (l’impressionante Antoine-Olivier Pilon), affetto da una sindrome di iperattività e deficit di attenzione, che lo rende instabile, violento e difficile da gestire. I due insieme sono il ritratto di un amore impossibile e incontrollabile, una forza istintiva che li attira l’uno verso l’altro per poi respingerli e spingerli verso l’autodistruzione. L’elemento di equilibrio sembra poter essere Kyla, la nuova vicina di casa, che dietro il proprio velo di apparente ordinarietà nasconde un bisogno di vitalità che solo la sconclusionata coppia madre-figlio riesce a farle (ri)scoprire. Le due straordinarie muse di Dolan, presenti in quasi tutti i suoi film, Anne Dorval e Suzanne Clement, qui danno il meglio di se stesse interpretando i propri ruoli con un trasporto fisico ed emotivo da brividi.
Dolan è un genio. Scrive, dirige, monta, compone ogni elemento del suo film con un gusto e una maturità rari. Una serie di scelte ed espedienti originali e brillanti si susseguono incalzanti, trascinandoci per due ore abbondanti in un modo di fare cinema che ha un’infinità di cose da dire: dalla colonna sonora che vanta grandissime cover di successo, tra cui una performance stonata al karaoke di Vivo per lei, al formato 1:1 dello schermo, che si espande e si restringe, seguendo l’altalenante percorso di rinascita e riscatto personale di Steve e delle due donne.
Impossibile non innamorarsi di questo film.
data di pubblicazione 4/12/2014
Scopri con un click il nostro voto:
da Giulio Luciani | Nov 4, 2014
(Festival Internazionale del Cinema di Berlino 2014 – Concorso)
Acclamato vincitore dell’Orso d’argento per la regia a Berlino 2014 e opera di fiction in cui l’elemento della fantasia è davvero ridotto al minimo, a chi mi chiedesse cos’è Boyhood, risponderei che è un ritratto dell’adolescenza maschile raccontata senza i tanti filtri e strumenti manipolativi offerti dal cinema.
A reggere l’intero film sono gli attori principali che hanno animato un set durato ben dodici anni (dal 2002 al 2013) per immortalare ogni cambiamento fisico lasciato dal tempo sui loro corpi e sui loro caratteri. L’adolescenza di Mason (Ellar Coltrane) scorre fluida per quasi tre ore di film, senza annoiare ma senza cercare a tutti i costi l’intrattenimento, limitandosi a fotografare le inquietudini del protagonista, il rapporto di amore e litigio con la sorella, la fragilità e le scelte sbagliate della madre sola (Patricia Arquette) e l’ingenua immaturità del padre (Ethan Hawke).
L’esperimento di far procedere la storia con la crescita e l’invecchiamento naturale del cast, anziché adattare la scelta del cast all’andamento forzoso della narrazione, è indubbiamente affascinante. Altrettanto suggestivo è il percorso a ritroso scelto da Linklater di lavorare sulla sceneggiatura per sottrazione, piuttosto che infarcendo di trovate originali e uniche la vita tutto sommato ordinaria di un adolescente americano come tanti altri. In perfetta sintonia con questa scelta registica, le emozioni sono ben dosate e contenute: è rimesso alla sensibilità dello spettatore se provarle o meno sulla propria pelle e immergersi in questa storia di adolescenza per rivivere un po’ la propria.
Il punto di forza del film è forse proprio questa inversione del classico modo di portare una storia al cinema e Mason conquista un posto in prima fila in quella schiera di adolescenti, straordinariamente ordinari, che hanno lasciato un segno nelle mie letture e nelle mie visioni in sala, dall’Holden Caulfield di Salinger (Il giovane Holden) al Paul Sveck di Cameron e Faenza (Un giorno questo dolore ti sarà utile), passando per l’esoterico Donnie Darko e il sognante Charlie di Noi siamo infinito.
data di pubblicazione 4/11/2014
Scopri con un click il nostro voto:
da Giulio Luciani | Nov 3, 2014
(Festival Internazionale del film di Roma 2014 – Gala)
Gianni Di Gregorio ha regalato al pubblico del festival capitolino una nuova bella commedia, non così distante, per l’insieme di brio, leggerezza e intelligenza, dal suo esordio alla regia con Pranzo di Ferragosto. La commedia (all’) italiana forse non è morta o, quantomeno, può rinascere, se si combinano una costruzione genuina dei personaggi e una narrazione direttamente tratta dal quotidiano, che fa sorridere senza per forza sfociare nella macchietta o nel volgare. La Roma rionale di Trastevere e Monti, sempre generosamente dipinta da Di Gregorio, viene contrapposta ai gelidi palazzoni fuori dal raccordo anulare, finendo col constatare che l’efficienza nel pubblico impiego rimane, al di là del quartiere, una bella chimera. Perché in fondo siamo tutti buoni a nulla e lo sappiamo, anche se non ci piace sentircelo dire.
data di pubblicazione 3/11/2014
Scopri con un click il nostro voto:
Gli ultimi commenti…