da Elena Mascioli | Mag 11, 2015
Una delle cose belle dei Festival è la possibilità di vedere a distanza di poche ore film che, pur nella loro diversità, sembrano essere uniti da un sottile filo rosso. Mai colore poteva essere più appropriato per definire la traccia comune di due film in programma nella terza e quarta serata del festival: l’amore. L’amore ai tempi di Skype, potremmo dire, nel caso di 10000 km, il film di Carlos Marqués Marcet già proposto in apertura di Festival e in replica domenica sera. Un esordio alla regia davvero notevole (premiato anche ai Goya) che colpisce per la sua capacità di raccontare l’evoluzione (o l’involuzione) di una relazione amorosa distanziandosi dagli schemi e gli stereotipi della narrativa cinematografica, tanto che nel finale il protagonista, Sergi (interpretato dal bravissimo David Verdaguer) afferma: Pensavo saresti corsa tra le mie braccia, come nei film.
Un amore da film è il tema al centro di Sexo Facil, pelìculas tristes, film presentato nella serata di sabato e in replica domenica sera. Uno sceneggiatore è alla prese con la scrittura di una commedia romantica, e poiché la realtà della sua vita amorosa è ovviamente all’opposto di ciò che normalmente accade nei film, lo sentiamo affermare: Non voglio che i film assomiglino alla vita, almeno non per ora. E aggiunge un happy end non solo alla storia che sta scrivendo, ma in parte anche alla sua, lasciando almeno un finale aperto alla possibilità di innamorarsi ancora.
La realtà, la più dura, la più cruda, la più crudele è invece la cifra di 10000 km che penetra in profondità nelle pieghe di un rapporto che è finito, e in cui nessun moderno mezzo di comunicazione potrà aiutare a ristabilire la connessione ormai perduta. Un sorriso tenero e uno amaro: questo il bottino del fine settimana festivaliero al Farnese. Domani torna lo splendido Arrugas (imperdibile per chi non lo avesse ancora visto) e un film che fin dal titolo ha creato molta curiosità: Los tontos y los estupidos.
data di pubblicazione 11/05/2015
da Elena Mascioli | Mag 9, 2015
Mentre incendi divampano in aeroporti e su autobus, a Roma, niente impedisce agli imperterriti spettatori del festival spagnolo di godersi la seconda serata. A presentare e commentare il film delle 20, Io, don Giovanni, il regista, Carlos Saura, e l’attore protagonista, Lorenzo Balducci. Una coccola per il pubblico la possibilità di saperne di più direttamente dalla viva voce del regista e del protagonista, un valore aggiunto che caratterizza da sempre questo festival. Saura ci spiega l’importanza fondamentale della musica nella sua vita e, di conseguenza in tutti i suoi film. Balducci ci racconta invece di utilizzare la barba quale strumento di seduzione, e di aver dunque avuto difficoltà, inizialmente, a calarsi nella parte di un seduttore…sbarbato! Sullo schermo Balducci presta volto e voce alle vicende di Lorenzo da Ponte, librettista del Don Giovanni di Mozart e a sua volta libertino in esilio a Vienna. Il film è un connubio di musica, di luce, di piani che si intersecano, come accadeva in Carmen, tra la storia di da Ponte, pupillo di Casanova, il racconto di un’epoca e le vicende di uno dei personaggi che affascinano da secoli uditori di epoche diversissime: don Giovanni. Una menzione particolare alla ricerca di sintesi tra musica e luce che Saura ha perseguito in questo film, che dichiara essere il suo preferito tra quelli da lui girati, grazie alla collaborazione con un direttore della fotografia quale Vittorio Storaro, che ama definirsi “cinefotografo”. Lasciate le meravigliose arie di Mozart e la scrittura con la luce di Storaro e Saura, una pietanza completamente diversa, con un film della “Nueva Ola”: Morirono al di sopra delle loro possibilità. Un film caustico, oserei dire “tagliente” (chi ha visto o intravisto il film tra le dita che coprivano gli occhi, apprezzerà la battuta!), forse spinto un po’ troppo lungo la strada della dissacrazione nella scelta dei dialoghi e degli schemi narrativi, con qualche caduta dettata dalla ricerca di dirompenza e causticità. Ma certamente un titolo che ci immerge nelle atmosfere del nostro tempo, portando il discorso su crisi, giustizia sociale, anche grazia alla sua particolarità di produzione. Tutto il cast e il regista sono i produttori della pellicola, e i loro compensi saranno dati dai guadagni ottenuti dal film. Auguriamo buona fortuna a questi “rivoluzionari” mascherati da panda, forse a dirci che ormai, anche i rivoluzionari, sono in via di estinzione. Appuntamento a domani per il resoconto della terza serata.
data di pubblicazione 09/05/2015
da Elena Mascioli | Mag 8, 2015
(Roma, Cinema Farnese Persol – 7/12 Maggio 2015)
Giunge alla sua ottava edizione a Roma il Festival del cinema spagnolo, al Cinema Farnese Persol a Campo de’ Fiori, e ci si ritrova in sala, numerosi come sempre, per la serata d’apertura, il 7 Maggio. Il ritrovarsi è quello di una grande famiglia, come afferma Federico Sartori, direttore del festival insieme a Iris Martin-Peralta: la famiglia degli spettatori che ogni anno si mettono gioiosamente in fila, sotto l’occhio vigile di Giordano Bruno e davanti l’obiettivo di Vittoria Mannu, per gustare i sapori e i profumi iberici evocati dai film in programma. E sono i sapori nuovi di film che altrimenti non vedremmo in Italia e quelli, gustosissimi, delle retrospettive che ci riportano meritoriamente davanti agli occhi i lavori dei grandi maestri. L’apertura e la retrospettiva, quest’anno, sono dedicate a Carlos Saura, presente in sala per accompagnare il suo Carmen (1983). Il regista, rispondendo ad una domanda dal pubblico, dichiara apertamente la sua scelta di cinema: Io preferisco lavorare su una linea più immaginativa che realistica. Ecco perché non faccio film politici in senso stretto. Ma ogni film è politico. La linea immaginativa si dispiega meravigliosamente, in Carmen, nella sovrapposizione dei piani narrativi di una compagnia che mette in scena la Carmen, utilizzando la lingua internazionale del flamenco. Il film a cui stiamo assistendo, il balletto che si mette in scena nel film, le vicende umane dei membri della compagnia e quelle dell’opera lirica, le cui arie tramano il tessuto sonoro del film insieme al rumore dei passi del flamenco, giocano a rincorrersi, intrecciarsi, confondersi e confonderci, per mettersi in primo piano, alternativamente. I magnifici piani sequenza che attraversano e rincorrono le scene di ballo tolgono il respiro per la loro bellezza e fanno immergere nella vicenda al punto da sentirsi schiacciati e sopraffatti dalla bellezza di quei passi che battono il tempo della passione, del flamenco, della vita.
data di pubblicazione 08/05/2015
da Elena Mascioli | Apr 20, 2015
L’amore e la tenerezza passano attraverso il complemento oggetto di “alcune rose”, l’eredità delle Madri attraverso un dativo di possesso. Mia madre, di Nanni Moretti, è un film che lascia nello spettatore un senso poetico di gratitudine: per un racconto tanto personale che però ha il coraggio e la capacità di non chiudersi e ripiegarsi in una nostalgia retorica e ammiccante, di non spingere l’acceleratore sull’emozione spicciola, ma di raccontare l’inadeguatezza umana di fronte alla vita, al dolore, e anche alla sua messa in scena. Margherita, regista impegnata nelle riprese del film Noi siamo qui, dispensa ai suoi attori, da anni, lo stesso suggerimento: mettiti a lato del tuo personaggio. Ma se lei stessa e gli attori che dirige non sembrano cogliere a pieno il senso del messaggio, a metterlo in pratica è proprio lo stesso Moretti, che si mette a lato del personaggio che qui lo incarna: gli occhi blu e la specificità femminile di Margherita (la Buy), appunto, di cui Nanni diventa il fratello Giovanni. E la scelta è più che felice. Margherita si fa megafono di ciò che Nanni ha da dirci: mi dà fastidio la retorica. Quelle frasi non sono vere e non servono a nessuno. Il regista è uno stronzo a cui permettete di fare di tutto. Ma i messaggi di Nanni passano anche attraverso i dialoghi del film che si sta girando: anche sforzandosi, lei non riuscirà a capire cosa significa per noi questo lavoro, dice Vittorio (Enrico Ianniello) al Barry Haggins interpretato da un magnifico Turturro, che balla (scena memorabile!), si dimena nel suo personaggio, ingabbiato nella finzione del cinema americano che rappresenta e che lo fa urlare: riportatemi nella realtà. Nanni non risparmia le critiche anche a sé stesso, e al cinema che rappresenta, soprattutto per l’incapacità di cogliere e raccontare una realtà che è fatta anche di operai con le sopracciglia depilate. I riflettori, inoltre, sono puntati alla difficoltà umana e personale di conciliare un set di finzione con il dolore dell’esistenza che porta a vedere la madre, interpretata dalla grandissima Giulia Lazzarini, incapace di ritrovare le parole giuste dopo tanto aver aiutato le generazioni in veste di insegnante, a trovare quelle stesse parole sul vocabolario dell’esistenza, passando per il latino. Che fine farà quell’eredità, quella cultura, tutto quel lavoro (e quindi, poi, anche il nostro)? Un meraviglioso finale dà una risposta che non è consolazione, ma scelta di vita. E ci regala emozione vera. Grazie Nanni.
data di pubblicazione 20/04/2015
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da Elena Mascioli | Mar 6, 2015
(Carrozzerie n.o.t – Roma, 5/8 Marzo 2015)
La particolarità dello spazio teatrale, le Carrozzerie n.o.t (a Ponte Testaccio – Roma), dà il destro ad una rappresentazione totale, in cui anche gli spettatori e l’immobilità statuaria degli attori non in scena diventano parte significante e visibile del discorso teatrale e meta-teatrale della giovane compagnia Marabutti, nata nel 2013. Una compagnia che mette in scena un suo doppio, cioè un’altra compagnia alle prese con le prove de Il gabbiano di Checov. Ma il testo e il gioco teatrale non culminano con lo svelamento risolutivo di un’identità nascosta, nel modo tipico delle commedie sin dai tempi antichi di Plauto. Perché l’identità è qui stratificata, il doppio si fa triplo, in una sovrapposizione volutamente confusionaria, in cui le voci e le parole dei personaggi di Checov si incrociano a quelle degli attori che cercano di metterlo in scena, i quali a loro volta tentano di esprimere, drammaturgicamente, le domande, le difficoltà, i sogni e le illusioni/disillusioni di chi si interroga e impernia la propria vita intorno all’arte, oggi. Le voci si accavallano: Non esiste sacralità nell’arte… Quindi per te l’assenza del gabbiano non è un problema? Ho delle difficoltà a credere che questo sia un gabbiano …L’opera d’arte deve esprimere un pensiero chiaro o preciso… C’è bisogno di forme nuove ma io non ho talento e non ho soldi…A chi credi che possa interessare lo sproloquio di uno scrittore? Anche una quinta, inizialmente in scena come tale, diventa camera con vista e poi camerino, a celare e poi svelare la bella prova di tutti gli attori, Benedetta Corà, Fabrizio Milano, Stefano Patti, Chiara Poletti, Mario Russo e lo stesso Paolo Zaccaria. Un ottimo lavoro che supera di gran lunga il rischio, paventato da uno dei personaggi in scena, che della compagnia Marabutti si dica: Avevano del talento, ma sempre meno di altri.
*foto di Valeria Tomasulo*
data di pubblicazione 06/03/2015
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