da Elena Mascioli | Set 18, 2015
A quattro anni dalla morte ed esattamente nei giorni di quello che sarebbe stato il suo 32mo compleanno (14 Settembre 1983 la data di nascita) è arrivato nelle sale italiane il documentario su Amy Winehouse, Amy – the girl behind the name, di Asif Kapadia. Presentato a Cannes in anteprima e poi al Biografilm festival di Bologna lo scorso giugno, il documentario racconta, mescolando immagini di scena, concerti, riprese negli studi di registrazione e a casa, la fragilità della ragazza che viveva dietro l’incredibile voce del “soul bianco”. Una vita sovraesposta come le immagini continue di ogni momento della sua esistenza, anche prima della notorietà. Vita di cui Back To Black, Rehab e Love is a losing game sono, ovviamente, perfetta colonna sonora ma anche racconto puntuale di uno stato perenne di lutto non elaborato, di ricerca di un’esistenza e di una personalità da riabilitare, dopo averla persa al tavolo da gioco dei sentimenti. Un racconto per immagini ricco di documenti, di foto, filmati che, al di là della voce, restituiscono e lasciano impresso nella memoria lo sguardo degli intensi occhi di Amy. Indimenticabile.
data di pubblicazione 18/09/2015
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da Elena Mascioli | Set 13, 2015
Finite le proiezioni, assegnati i premi, resta il tempo delle analisi e dei bilanci, per la 75^ Mostra di Venezia. Se parlassimo di un campionato di calcio, diremmo che la compagine sudamericana si è aggiudicata il trofeo, ma parlare di film in termini di provenienza, pur essendo un dato di fatto che appartiene ad ogni titolo, può diventare pretestuoso. Un film dovrebbe essere ritenuto valido per le scelte formali e contenutistiche, la capacità di raccontare attraverso le immagini. Non ci piace pertanto pensare che la presenza di Alfonso Cuaron quale presidente di giuria abbia potuto indirizzare la scelta del Leone d’oro e d’argento verso i lidi sudamericani di Desde allà di Lorenzo Vigas ed El clan di Pablo Trapero, rispettivamente. Ma rimane il dubbio, vista l’incredibile esclusione da qualsiasi riconoscimento a film del livello di 11 minuti di Skolimowski e Francofonia di Sokurov, che a nostro parere sorpassano di gran lunga, sotto ogni profilo, i due premiati. Gioia condivisa per il premio assegnato a Fabrice Luchini per l’interpretazione maschile ne L’Hermine di Christian Vincent così come al premio per la miglior sceneggiatura che lo stesso film si porta a casa. Un vero gioiello da gustare non appena uscirà in sala. Coppa Volpi per l’interpretazione femminile a Valeria Golino, protagonista del film di Gaudino Per amore vostro, mentre il Gran Premio della Giuria va ad Anomalisa, film d’animazione diretto dal regista e sceneggiatore americano Charlie Kaufman assieme al giovane animatore Duke Johnson. La lista completa di tutti i premi, compresi quelle delle altre sezioni del festival sono consultabili alla pagina http://www.labiennale.org/it/cinema/news/12-09.html?back=true. Premi a parte, ciò che ci sembra importante portare a casa, alla fine di questa edizione della Mostra, è la capacità del ruolo del cinema nel raccontare non solo le storie dei protagonisti, ma anche la Storia, quella di posti lontani o vicini, quella prossima o remota, e con la Storia le culture, l’arte, le persone, l’umanità, l’incontro con l’altro: il vicino di poltrona nella proiezione, il manifestante di Kiev in un documentario, Napoleone che scorrazza dentro il Louvre o una marionetta in computer grafica. Un incontro che il team di Accreditati ha vissuto e ha condiviso con voi. Al prossimo anno.
data di pubblicazione 13/09/2015
da Elena Mascioli | Set 10, 2015
Morte di un pixel. Questo potrebbe essere il sottotitolo del film 11 Minuti del regista polacco Jerry Skolimowski, in concorso alla Mostra di Venezia 2015. Una folgorazione, un film che farà saltare di entusiasmo, sulla poltrona del cinema, chiunque abbia passione per il linguaggio cinematografico. Un ingranaggio perfetto, una manopola di una cassaforte da girare per trovare la combinazione che apra su un’altra cassaforte, con movimenti all’ indietro che poi ci catapultato di nuovo avanti, un’immersione totale e straniante come in un’opera di Escher, un film la cui riflessione non può non riportare alla mente, con le debite diversità nello stile nel tempo, Destino Cieco di Kieslowski. “Che Dio la benedica”, dice un gruppo di suorine al venditore di Hot Dog. “Dio non mi deve nulla, avete pagato il conto”. Un conto che si paga senza poter tornare indietro. Il tempo che passa, senza poter tornare indietro, quegli undici minuti a partire dalla cinque che diventano l’appuntamento col finale, strepitoso, del film. Piani sequenza, la soggettiva di un cane, aerei che fanno da tendina, fari che spengono la musica, un ritmo che tiene incatenati allo schermo nel tentativo di decifrare l’intreccio, di capire se sullo schermo vi sia una mosca morta, se quella macchia nera sul disegno sia una svista, e soprattutto cosa accadrà alle 17 e 11 a partire dalla stanza 1111 dell’ undicesimo piano di un hotel. Una riflessione gigantesca sulla piccolezza dei nostri destini, formato pixel, di una dimensione ulteriore che rimane schermo grigio e indistinto a chi cerchi di osservarla ad occhio nudo, ma per cui vale la pena di continuare ad interrogarsi attraverso lo sguardo di un regista come Skolimowski.
data di pubblicazione 10/09/2015
da Elena Mascioli | Set 9, 2015
Non essere cattivo è un racconto che si declina attraverso gli occhi. Splendidi, intensi, azzurri come azzurro non è il mare di Ostia, dove la vicenda è ambientata, nel 1995, gli occhi dei due protagonisti, Vittorio e Cesare, interpretati magnificamente da Alessandro Borghi e Luca Marinelli. Iniettati di sangue nei momenti delle risse, delle aggressioni, delle droghe sintetiche. Sbarrati durante le allucinazioni che riempiono la strada, di gente da salvare, da non mettere sotto. Vittorio frena bruscamente la macchina e, in quel momento, anche la folle corsa verso la distruzione della sua vita, ma Cesare non vede l’autobus, la gente, e può solo assecondare l’amico, guidare con cautela per un breve tratto, sempre accanto a Vittorio, ma quella allucinazione, quel freno, quella decisione di fermarsi, di provare a trovare un’altra strada, un’altra vita, non gli appartengono a pieno, non lo investono, non sono una sua elaborazione, e dunque rappresentano solo una pausa. Gli occhi sono quelli spenti della nipotina di Cesare, malata di AIDS come lo era sua mamma, morta della stessa malattia. Gli occhi supplicanti e marroni di Viviana, che provano a guardare Cesare con amore, e quelli di Linda, l’unica che osi, nel primo momento in cui entra in scena, guardare verso il mare, verso l’orizzonte, forse in cerca di una nuova prospettiva, da condividere, abbracciandolo in questo nuovo sguardo, con Vittorio. Ma soprattutto la visione, lo sguardo, l’occhio, è quello di Claudio Caligari, il regista di questo film è di Amore tossico e L’odore della notte, scomparso subito dopo la fine del montaggio dello splendido affresco popolare che è Non essere cattivo. Prodotto da Valerio Mastrandrea che è anche stato, in questa occasione, aiuto regista ed amico di Caligari, il film è fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia, ma ha già vinto la battaglia per lasciare in vita, sullo schermo, senza retorica ma solo attraverso la potenza espressiva delle immagini, l’intenso primo piano dello sguardo di Caligari.
data di pubblicazione 09/09/2015
da Elena Mascioli | Set 9, 2015
Il Conte Basta, il Dottor Quantunque e Federico Mai. Questi i nomi delle maschere che popolano la parte contemporanea del film di Bellocchio, caratterizzata da un registro un po’ surreale, ironico, sardonico, maschiettistico, in assoluta contrapposizione alla sezione storica del film, ambientata nel ‘600. Sfondo comune delle vicende le prigioni del convento di San Colombano a Bobbio, cittadina ormai noto luogo d’origine e residenza di Marco Bellocchio che l’ha reso anche sede della sua scuola di cinema e di un festival. La scoperta della prigione abbandonata è stata la scintilla per decidere di ambientarvi la vicenda storica della monaca murata viva, ma Bellocchio, come da sua dichiarazione in conferenza stampa, sentiva la necessità di portare la storia anche nel presente, e da questa esigenza nasce il personaggio dell’ultimo vampiro, di quel conte Basta con gli occhi e la voce di Roberto Herlitzka che afferma: “Io non esisto”. Una storia allusiva ad un vampirismo ambientale e paesano che è un po’ l’approdo dell’Italia, continua il regista, che ammette di non essersi preoccupato di un’architettura drammaturgica perfetta, ma di aver solo creato allusioni tra passato e presente piuttosto che precisi riferimenti. La mancanza di un’architettura si sente tutta, a nostro parere, così come la autoreferenzialità di discorsi già troppo lungamente ribaditi e un po’ sviliti dalla scelta dei toni e dei tempi, ma con certezza è già sceso in campo il partito di coloro che attribuiscono a Bellocchio, vista la sua autorevolezza e carriera, la libertà di una scelta artistica che faccia a meno di un’architettura. Noi speriamo che la stessa libertà possa essere garantita allo spettatore e alla scrivente nel crearsi un’ opinione in controtendenza sul film, libertà che Bellocchio stesso evoca nella figura di Benedetta, nel suo uscire bella ed intatta dalla prigione, a simboleggiare l’immagine di una libertà che non vuole arrendersi.
data di pubblicazione 09/09/2015
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