da Elena Mascioli | Dic 1, 2015
“I sogni e le fiabe, anche se irreali, devono raccontare la verità”. La verità di Pietro Marcello si declina con il metro della poesia, come ben detto da Goffredo Fofi alla presentazione del film Bella e perduta in una sala romana. Poesia come scelta linguistica per raccontare una storia vera che sembra più una fiaba, il sogno e l’impegno dell’angelo di Carditello, Tommaso Cestrone, pastore campano che diventa custode, volontariamente e gratuitamente, di un’eredità che nessuno sembra volere: una bellissima e perduta residenza borbonica e un bufalo maschio, Sarchiapone, al cui pensiero presta la voce Elio Germano (con un effetto che risulta “barocco” e un po’ disturbante rispetto alla poeticità del resto del film). Un bufalo destinato, come la tenuta, all’oblio, all’eliminazione, perché non trasformabile immediatamente in profitto. Le immagini di una realtà fiabesca si innestano, senza apparente soluzione di continuità (grazie ad un prodigioso lavoro di ricerca e di scrittura, e successivamente del montaggio della brava Sara Fgaier) con quelle di un repertorio documentario da archivi, in un canovaccio in cui Pulcinella porta avanti, al guinzaglio, Sarchiapone, e con esso il sogno di Tommaso – morto durante le riprese del film- della bellezza, della poesia, del rapporto tra uomo e natura da salvare, preservare, conservare. Le immagini di chiusura del film sono quelle del provino di Tommaso, e la bellezza da salvare è la stessa incisa dalle rughe sul suo volto che sorride regalandoci il cielo dei suoi occhi intensi e interroganti.
data di pubblicazione 01/12/2015
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da Elena Mascioli | Nov 8, 2015
(Teatro Quirino e Teatro Eliseo – Roma, 3/15 Novembre 2015)
Non sappiamo se sia accaduto per caso o per una programmazione studiata a tavolino, ma due opere di Čhecov sono approdate contemporaneamente sui palcoscenici romani nella prima settimana di Novembre e rimarranno in scena fino al 15. Si tratta de Il giardino dei ciliegi (traduzione di Gianni Garrega, adattamento e regia di Luca De Fusco) al teatro Quirino-Vittorio Gassman, e di Ivanov (traduzione di Danilo Macrì e regia di Filippi Dini) al teatro Eliseo. Ci è sembrato interessante mettere a confronto i due spettacoli che fin dalle brevi presentazioni sui pamphlet dei teatri, sembrano partire da assunti diametralmente opposti. Se per il Giardino dei ciliegi si legge che “sotto il chiacchiericcio apparentemente vacuo e frivolo della commedia si intravedono squarci di decadenza e di dolore che spesso hanno un sapore infantile”, per l’altro leggiamo che “l’Ivanov di Filippo Dini sfata la convinzione che la prima delle grandi opere teatrali di Cechov sia un testo noioso e polveroso […] creando una messinscena di coinvolgente passionalità e trascinante ironia”.
Lo squarcio di decadenza e dolore de Il giardino dei ciliegi viene addirittura reso scenicamente da una quarta parete costruita solo parzialmente, una cornice che lascia intravedere, nella sua apertura centrale, quasi una ferita, l’azione scenica. Contemporaneamente, quella stessa parete diventa supporto di proiezione dei primi piani, in bianco e nero, di quegli stessi attori che vi recitano al di là, rimandando nello spettatore le suggestioni degli sceneggiati televisivi di Anton Giulio Maiano. La lingua si tinge di una napoletanità che rende la vicenda “nostra”, e l’eco infantile aleggia sulle teste degli attori attraverso un aquilone e dei palloncini che vengono lasciati volare via come il passato, i sogni, l’infanzia felice. Le vicende personali dei protagonisti e quelle più grandi di un mondo in decadenza che essi hanno abitato e che ora devono lasciare, passano per il balletto della vita che apre la seconda parte dello spettacolo e di cui i rapporti e le vicende personali diventano coreografi. La luce, ora fredda ora calda, illumina il bianco gelido e antico degli abiti e di una casa con un giardino dei ciliegi solo evocato eppure destinato a scomparire. De Fusco sceglie in tal modo di cogliere e valorizzare sia gli aspetti naturalistici che quelli simbolici del testo, riuscendovi perfettamente anche grazie alle belle soluzioni scenografiche di Maurizio Balò e alla bravura corale degli attori, citando, su tutti, Gaia Aprea, Paolo Serra e Claudio Di Palma.
La coinvolgente passionalità e la trascinante ironia perseguite dalla messa in scena dell’Ivanov, interpretato dallo stesso regista Filippo Dini, passano per accenni ripetuti di arie di opere liriche canticchiate per sottolineare l’ingresso di un personaggio, dare il là ad un successivo scambio di battute. Dell’ironia si fa tramite l’amministratore Borkin (Fulvio Pepe) che accenna il ritornello di una canzone di Battisti (“A te che sei così presente..” da La luce dell’est…scelta casuale?), e la stessa coralità delle scene che cambiano fisionomia a sipario alzato, attraverso un gioco di pareti che avanzano, retrocedono, restringono o dilatano lo spazio scenico, in un balletto sottolineato da una musichetta veloce come quella delle comiche. I colori accessi del divano e dei costumi della scena della festa di compleanno di Sasha, così come il ripetersi delle gag che ogni personaggio nuovo mette in scena per presentarsi, creano un’atmosfera grottesca che ci ha riportato alla mente I tenenbaum e, più in generale, i film di Wes Anderson. Il tutto a far da contrasto allo spleen da cui Ivanov, il protagonista, sembra attanagliato. La morte della moglie, la decadenza della sua tenuta, i debiti, le sollecitazioni di un nuovo amore, del suo amministratore, del suo amico Lebedev (interpretato da Gianluca Gobbi) passano indifferenti sotto gli occhi del protagonista che vede solo la propria condizione di vittima della noia, di una frustrazione profonda, in un avvitarsi passivo della propria vicenda personale, che non gli permette di guardare che a se stesso, anche nell’unico gesto attivo che compirà alla fine: darsi la morte nel giorno del suo secondo matrimonio, bloccando gli altri personaggi in scena in un rallenty sottolineato da una musica in crescendo assordante. Un’inflessione dialettale piemontese in alcuni dei personaggi che non sappiamo se ritenere scelta stilistica, una messa in scena innovativa, con spunti interessanti che però, a nostro avviso, trovano un limite nella eccessiva ripetitività e insistenza degli espedienti comici, che suscitano un’ilarità anche esagerata ed esasperata in uno spettatore forse troppo intento a voler contrastare la presunta “lentezza e pesantezza di Čechov” ( commento raccolto da più parti all’uscita dal teatro).
“Per vivere compiutamente il presente, bisogna fare i conti con il passato”. Questa battura presa da Il giardino dei ciliegi ci sembra il miglior modo per invitare gli spettatori che vogliano vivere compiutamente il presente del teatro a fare i conti con il meraviglioso passato rappresentato dall’eredità del teatro e dei testi di Čechov.
data di pubblicazione 08/11/2015
da Elena Mascioli | Nov 2, 2015
Mustang sono i cavalli selvaggi che, come le cinque sorelle protagoniste del film, spiegano al vento le proprie lunghe criniere, nella corsa gioiosa e spensierata della crescita, di un’età che precorre quella adulta e che, proprio per questo, dovrebbe permettersi di correre a briglia sciolta, alla scoperta del mondo e del proprio posto in quel mondo stesso. Ma ad imprigionare le cinque sorelle nel recinto della propria cultura di appartenenza si adoperano lo zio, la nonna e le altre figure adulte che circolano per casa, rinchiudendole, prima metaforicamente e poi concretamente, negli spazi della loro abitazione e negli abiti cuciti appositamente per nascondere i loro corpi, lontano dalla scuola e dagli sguardi degli altri. Lo sguardo di Lale è il punto di vista da cui vedremo i diversi modi in cui ognuna delle sorelle reagirà di fronte al recinto. Uno sguardo illuminato, come testimonia la luce scelta per raccontare visivamente la vicenda. Il film, opera prima della regista Deniz Gamze Ergüven, nata in Turchia e vissuta prevalentemente in Francia, ha fatto il suo esordio alla Quinzaine des realisateur al Festival di Cannes 2015, vincendo il premio Europa Cinemas Label, ed è poi stato scelto per rappresentare la Francia come miglior film straniero per la corsa agli Oscar. Il film è ora nelle sale dopo aver fatto il suo passaggio alla festa del cinema di Roma 2015 nella sezione Alice nella città. Vederlo farà bene ai vostri occhi e ai vostri cuori.
data di pubblicazione 02/11/2015
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da Elena Mascioli | Ott 1, 2015
Le pecore, prima di scoprire, durante il film, che sono quelle di uno striscione allo stadio che nasconde un anagramma antisemita, sono certamente tutte le persone che si interrogano, nelle piazze romane e sugli schermi italiani, riguardo la scomparsa di Leonardo, il protagonista della storia. Perché il film, oltre ad essere un riuscito tentativo, pur con qualche riserva sulla lunghezza, di parlare di antisemitismo attraverso la chiave di volta dell’umorismo e della satira, è anche un racconto della nostra società cosiddetta “mediatica”, in cui si diventa personaggi e miti a prescindere dall’ideologia, dal merito, da un reale contributo storico e culturale. La storia si dipana attraverso un rovesciamento continuo, un paradosso che racconta le cadute e l’ascesa dell’autore del fumetto Bloody Mario. Un’ascesa esplicata, coadiuvata o contrastata da personalità del mondo dell’arte, della televisione, della psicologia e della tuttologia italiana che nel film interpretano se stessi (Sgarbi, Mentana, Freccero, tanto per citarne alcuni). A colpi di mitra dentro il negozio di supplì perché il pizzettaro chiede “Ma o metto o ketckup?”, di Bibbia Redux, di film come Forni felici, Caviglia ha fatto il suo esordio con questo suo primo lungometraggio alla 72ma Mostra del cinema di Venezia, nella sezione Orizzonti. Il successo del film, oltre che dal pubblico in sala, dipenderà, ovviamente, dagli effetti del complotto pluto giudaico massonico, cui si devono la morte di Lennon, di Kennedy e della madre di Bambi.
data di pubblicazione 01/10/2015
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da Elena Mascioli | Set 22, 2015
Vi capita mai di guardare qualcuno e di chiedervi a cosa stia pensando? Questa, in estrema sintesi, potrebbe essere la sinossi del nuovo film Disney-Pixar, arrivato nelle sale italiane lo scorso 16 settembre. Un viaggio nella mente umana, alla scoperta e alla ricerca, questa volta, non di un simpaticissimo pesciolino rosso, ma di cosa accada nella mente di Riley, una ragazzina di 11 anni che si trasferisce dal Minnesota a San Francisco. Ad avvicendarsi ai comandi del Centro di Controllo, situato nel Quartier Generale della sua mente, si alternano il rosso e tozzo Rabbia, il violetto e mingherlino Paura, la verde e smorfiosa Disgusto, la dorata ed esuberante Gioia e la blu e dolce Tristezza. Broccoli nel subconscio, la decostruzione dei personaggi nel passare per il tunnel del pensiero astratto, gli studios cinematografici in cui si girano i sogni sono solamente alcune delle strepitose trovate narrative che ci raccontano di un’adolescente in crescita, dei ricordi dell’infanzia, del perché ci venga in mentre sempre quel motivetto pubblicitario un po’ cretino. Ma soprattutto Inside out ci racconta e ci svela la nostra umanità, e lo fa passando attraverso le emozioni, il subconscio, i grandi scaffali dei ricordi a lungo termine e la capacità di legarsi ad un amico immaginario che è un incrocio tra un gatto e un elefante ma è rosa come un porcellino. Grandissima qualità dell’animazione, come sempre per un prodotto Pixar, ma con una marcia in più, soprattutto per un pubblico adulto, che si troverà con il fazzoletto in mano ad asciugare più di qualche lacrima. Fatevi un regalo: andate a vedere Inside out. Un balsamo per l’anima, una meraviglia per gli occhi, un tripudio per il cuore.
data di pubblicazione 22/09/2015
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